A contrasto del caporalato ripristinate solo in parte le tutele cancellate da Jobs Act e depenalizzazione

L’odioso fenomeno del “caporalato” rappresenta una forma di drammatico sfruttamento del lavoro, in particolare in agricoltura e in edilizia, ma non di rado esteso anche al settore delle manifatture, presente in non poche aree del Paese, spesso collegato a comportamenti criminali e malavitosi connessi ad organizzazioni mafiose.

Si tratta del fenomeno criminale in cui un “caporale”, di norma alle prime luci dell’alba, si reca nelle periferie delle grandi aree urbane o in angoli poco frequentati di città e paesi per “reclutare” la manodopera giornaliera da condurre al lavoro (nei campi, nei cantieri o in laboratori).

D’altro canto, il “caporalato” assume una veste del tutto particolare con riguardo all’altra situazione di grave sfruttamento del lavoro (spesso contestuale al “caporalato” vero e proprio), vale a dire il perverso fenomeno delle cooperative cd. “spurie”, di quelle società cooperative fittizie o irregolari che forniscono in appalto servizi di natura diversa alle imprese, spesso senza alcuna specializzazione o differenziazione di identità sociale, con speciale riguardo alla fornitura di manodopera temporanea, non di rado di nazionalità extracomunitaria, utilizzata nel ciclo produttivo dell’impresa committente.

 

Scelte contraddittorie di politica del lavoro

 

Il contrasto al caporalato è stato per lungo tempo un punto fermo della legislazione in materia di lavoro, che sanzionava penalmente, ancor prima della introduzione dell’ipotesi di delitto in esame, sia il “caporale” che i datori di lavoro che sfruttano i lavoratori “reclutati”.

Non così, invece, per effetto della depenalizzazione di cui al d.lgs. n. 8/2016 e della riforma dei contratti di lavoro operata dal d.lgs. n. 81/2015, per cui dal 6 febbraio 2016 permane penalmente sanzionata soltanto una delle situazioni illecite tipicamente riconducibili al caporalato, vale a dire l’intermediazione illecita con finalità di lucro (il caporalato di primo livello, come ad esempio la “raccolta” nei cosiddetti “smorzi” nel Lazio), al contrario è stata trasformata in illecito amministrativo l’interposizione illecita (il caporalato di secondo livello, cioè l’effettivo impiego dei lavoratori “reclutati” dal caporale da parte degli imprenditori edili ed agricoli, con la sola eccezione dell’impiego di minorenni che rimane reato), mentre la somministrazione fraudolenta è stata addirittura del tutto abolita (abolitio criminis), senza neppure una reductio di sanzionabilità almeno in sede amministrativa.

 

La Riforma Biagi (D.Lgs. n. 276/2003), in effetti, aveva chiaramente posizionato la somministrazione di lavoro e gli altri fenomeni di esternalizzazione in un quadro di tutele assolute per il lavoratore, punendo con la massima sanzione riconosciuta dall’ordinamento costituzionale – quella penale – non soltanto gli illeciti in fase di intermediazione (compresi quelli nelle azioni di ricerca e selezione e di ricollocazione professionale) per l’inserimento nel mercato del lavoro, ma anche le condotte illecite riguardanti la somministrazione di lavoratori da parte di un soggetto abusivo (non autorizzato come Agenzia per il lavoro legalmente riconosciuta) e l’utilizzazione di quegli stessi lavoratori da parte di un’impresa o di un datore di lavoro anche non imprenditore.

Non solo perché con il reato di somministrazione fraudolenta le tutele del lavoratore somministrato si spingevano dichiaratamente verso la tutela del lavoro equo e dignitoso.

 

La somministrazione fraudolenta rappresentava, quanto all’analisi del profilo soggettivo, un vero e proprio reato plurisoggettivo proprio, in cui le due parti del contratto commerciale di somministrazione di lavoro rispondevano penalmente di una specifica condotta posta al di fuori degli schemi tipici di liceità. Quanto all’elemento della colpevolezza il grado di rimproverabilità della condotta non era quello della colpa, in quanto era prevista una consapevolezza dolosa psicologicamente orientata da parte dei due responsabili, utilizzatore e somministratore.

L’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 definiva, specificamente, «somministrazione fraudolenta» quella che veniva «posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al lavoratore».

 

Rilevava, quindi, una fattispecie penale contravvenzionale di dolo specifico, dove non soltanto veniva in considerazione l’intenzionalità del reato, ma la specifica finalità dello stesso, chiedendo che vi fosse un’intesa fra utilizzatore e somministratore o, quanto meno, l’effettiva consapevolezza riguardo all’utilizzo illecito della manodopera (c.d. consilium fraudis), vale a dire nei confronti di un uso illecito del contratto di somministrazione che viene specificamente finalizzato alla elusione del sistema normativo di protezione configurato in dettagliate tutele legali o contrattuali.

Con due colpi netti – e in controtendenza rispetto all’intera legislazione precedente sulla tutela del lavoro rispetto ai lavori in outsourcing – dapprima il Jobs Act abrogava espressamente l’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (con l’art. 55, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 81/2015) comportando l’abolitio criminis del reato di somministrazione fraudolenta a far data dal 25 giugno 2015, giacché si ha abolizione, e non mera successione di leggi incriminatrici, quando la nuova configurazione della fattispecie considerata esclude, come nel caso di specie, la rilevanza penale di fatti che in precedenza costituivano reato.

Nei confronti della somministrazione fraudolenta, infatti, la legge successiva ha posto nel nulla il disvalore penale, astrattamente considerato, della fattispecie originariamente punita penalmente dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003, la quale peraltro consentiva agli Ispettori del Lavoro di azionare la prescrizione obbligatoria di cui all’art. 15 del D.Lgs. n. 124/2004 per ordinare all’utilizzatore l’immediata assunzione dei lavoratori fraudolentemente somministrati, con ripristino assoluto delle tutele retributive, contributive e assicurative.

 

Ne è derivata, quindi, l’applicazione anche nei riguardi delle condotte illecite poste in essere in precedenza del disposto contenuto nell’art. 2, comma 2, cod. pen. in ragione del quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce più reato, con la conseguenza che se vi è stata sentenza di condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

In buona sostanza il D.Lgs. n. 81/2015 ha optato per una sorta di “legalizzazione” delle ipotesi di utilizzo fraudolento della somministrazione, limitando le reazioni sanzionatorie alle fattispecie di somministrazione irregolare e somministrazione abusiva.

A seguire, con il D.Lgs. n. 8/2016 – nel contesto di una più generale e vasta azione di depenalizzazione condotta congiuntamente al coevo D.Lgs. n. 7/2016 – la medesima compagine di Governo che aveva azionato il Jobs Act liberalizzando lo sfruttamento grave dei lavoratori nelle ipotesi di somministrazione fraudolenta, trasformava in illeciti amministrativi anche i reati di somministrazione abusiva e di utilizzazione illecita, fatta eccezione soltanto per il caso dell’impiego di minorenni.

 

 

Ripristino delle tutele attraverso il reato di intermediazione con sfruttamento

 

Su tale assetto normativo, d’altra parte, è da ultimo intervenuto il Parlamento – approfittando di un serio ripensamento da parte del Governo, o quanto meno di alcuni suoi esponenti – per ripristinare almeno in parte le tutele già previste dalla Riforma Biagi e spazzate via in appena due anni dal Jobs Act e dal decreto di depenalizzazione.

Con l’approvazione definitiva (dal Senato il 1° agosto 2016 e dalla Camera come AC 4008/2016 il 18 ottobre 2016) del ddl n. AS 2217/2016, infatti, che reca norme “in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura”, si interviene per una riscrittura dell’art. 603bis c.p., già introdotto dall’art. 12 del decreto-legge n. 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011, che punisce il delitto di intermediazione illecita di manodopera con sfruttamento del lavoro.

Il legislatore del 2011, inserendo nel codice penale il nuovo art. 603bis c.p., faceva tornare ad essere protagonista del diritto del lavoro, dopo lunghi decenni, una fattispecie delittuosa inserita nel codice penale, appunto, connotandone la collocazione nel Titolo XII del Libro II che annovera i «delitti contro la persona», all’interno della Sezione I, rubricata «Dei delitti contro la personalità individuale», del Capo III, intitolato «Dei delitti contro la libertà individuale», con ciò riconoscendo assoluto valore, in ottica costituzionale, alla tutela della persona e della personalità del lavoratore e dei suoi diritti di libertà.

 

In questo contesto il ddl AS 2217/2016, in adesione al dettato della nostra Carta Costituzionale, rilancia la funzione sociale del lavoro, caratterizzato dalla più ampia tutela e protezione del lavoratore, declinando il binomio essenziale della regolarità e della sicurezza del lavoro. Una funzione sociale valorizzata in ragione della tutela dei diritti di personalità del lavoratore e della possibilità per ciascun individuo di realizzarsi attraverso il raggiungimento dei propri obiettivi di vita personali, garantita dalla repressione di qualsiasi fattispecie di intermediazione illecita di manodopera con sfruttamento dei lavoratori, a fronte dello stato di bisogno o di necessità degli stessi, anche con ricorso a violenza, minaccia o intimidazione, con una riscrittura della ipotesi di reato prevista dall’attuale art. 603bis c.p. che risulta costruita con vincoli normativi che ne definiscono, e in larga misura ne limitano, l’ambito concreto di applicazione.

 

Così, per effetto dell’art. 1 del ddl AS 2217/2016, viene riscritto il reato di cui all’art. 603bis c.p., differenziandolo in due fattispecie delittuose distinte:

– la prima, punita con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore, per aver reclutato manodopera da destinare al lavoro presso altri in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, nonché per aver assunto, utilizzato o impiegato manodopera, anche dopo intermediazione, assoggettando i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno;

– la seconda, punita con la reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore, quando i fatti di intermediazione, assunzione, utilizzazione o impiego sono commessi mediante violenza o minaccia.

 

La norma poi conferma gli indici di sfruttamento già in vigore sostituendo, tuttavia, la difficile condizione di “sistematicità” con la più agevolmente riscontrabile “reiterazione” della condotta relativa alla corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dai contratti collettivi o comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla violazione della normativa relativa all’orario di lavoro e ai tempi di riposo (con riferimento ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie). Mentre rilevano ancora: anche una sola violazione in materia di tutela della salute (igiene) e della sicurezza nei luoghi di lavoro e la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Ribadita è anche l’aggravante speciale che opera nel caso in cui i lavoratori reclutati sono più di tre oppure quando almeno una delle persone intermediate è un minore in età non lavorativa o, infine, se i lavoratori intermediati sono stati esposti a situazioni di grave pericolo.

L’art. 2 del ddl AS 2217/2016 prevede l’introduzione di due nuovi articoli nel codice penale, con la finalità di rendere più efficace l’applicazione del reato di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera previsto dall’art. 603-bis, a contrasto del caporalato, in particolar modo (ma non solo) nel settore agricolo.

In questa prospettiva, dunque, si intende inserire nel codice penale il nuovo art. 603-bis.1, rubricato “Circostanza attenuante”, per sancire che la pena è diminuita da un terzo a due terzi per chi, nel rendere dichiarazioni su quanto a sua conoscenza, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a ulteriori conseguenze ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o giudiziaria per la raccolta di prove decisive per individuare o catturare i concorrenti o infine per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite. Una circostanza attenuante ad effetto speciale, quale utile tentativo per provare ad abbattere il muro di omertà che ordinariamente protegge le fattispecie criminose del caporalato.

 

Analogamente si prevede l’introduzione del nuovo art. 603-bis.2. (rubricato “Confisca obbligatoria”, per sancire l’obbligo di confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto (salvo che appartengano a persona estranea al reato) in tutti i casi di condanna, ma anche di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., per il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera di cui all’art. 603-bis c.p., estendendo in ciò ad una ipotesi di reato in materia di lavoro quanto già previsto dall’art. 20, comma 4, della legge n. 689/1981 per le violazioni amministrative gravi o reiterate, in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro (per effetto dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge n. 187/2010, convertito dalla legge n. 217/2010). Sono fatti espressamente salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno. La norma d’altra parte introduce anche la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato se non è possibile la confisca delle cose che furono destinate alla commissione del reato o ne furono prodotto o profitto.

 

Una prospettiva di efficacia e di effettività si coglie nell’art. 3 del ddl n. 2217/2016 AS il quale stabilisce che nei procedimenti per i reati di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera di cui all’art. 603-bis c.p., se l’interruzione dell’attività imprenditoriale può comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico dell’azienda, sia disposto dal giudice il controllo giudiziario dell’azienda (ex art. 321, comma 1, c.p.p.), anziché il sequestro, con contestuale nomina di uno o più amministratori giudiziari per la rimozione delle condizioni di sfruttamento, chiamati a regolarizzare i lavoratori che prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto e ad adottare adeguate misure, anche in difformità rispetto a quelle proposte dall’imprenditore, per impedire che le violazioni possano ripetersi.

Sempre in tema di confisca l’art. 5 del ddl n. 2217/2016 AS prevede una specifica modifica all’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge n. 306/1992, convertito dalla legge n. 356/1992, per estendere la confisca anche al denaro, ai beni o alle altre utilità di cui il condannato per il delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta  persona  fisica o  giuridica, risulta essere titolare o avere comunque la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica.

Sotto altro profilo, l’art. 4 del ddl n. 2217/2016 AS estende l’arresto obbligatorio, ai sensi dell’art. 380 c.p.p., anche al delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, per il quale l’articolo 6 del ddl n. 2217/2016 AS introduce anche la responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 (con modifica dell’elenco di reati previsto dall’art. 25-quinquies, comma 1, lettera a).

Infine, l’art. 7 del ddl n. 2217/2016 AS estende alle vittime del delitto di intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera le tutele del Fondo previsto dalla legge n. 228/2003 per le vittime della tratta, in considerazione della omogeneità dell’offesa ricevuta.

 

Infine, sono specificamente rivolti alla tutela del lavoro in agricoltura gli artt. 8 e 9 del ddl n. 2217/2016 AS: l’art. 8 interviene sulle disposizioni relative alla Rete del lavoro agricolo di qualità (di cui all’art. 6 del decreto-legge n. 91/2014, convertito dalla legge n. 116/2014), per la quale si prevedono sezioni territoriali, nonché sulle modalità di adattamento del sistema UniEmens al settore agricolo (da gennaio 2018) nelle more della attuazione del Libro unico del lavoro in modalità telematica (destinato a sostituire integralmente il sistema UniEmens); il successivo art. 9 detta norme idonee a supportare i lavoratori stagionali impegnati nella raccolta dei prodotti agricoli anche attraverso le sezioni territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità.

 

Una tutela non immediata e per via giudiziaria

 

Sul piano dell’effettivo ripristino delle tutele, d’altro canto, seppure col nuovo art. 603-bis c.p. si compiano degli importanti passi in avanti – rectius indietro – rendendo reale e concreto uno statuto di protezione per i lavoratori fraudolentemente somministrati, interposti, sfruttati, tuttavia ciò avviene esclusivamente attraverso un passaggio giudiziario, che si auspica quanto mai rapido e snello, rispetto all’immediatezza delle tutele che erano assicurate direttamente dagli Ispettori del Lavoro nella vigenza dell’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003.

Come rilevato, infatti, l’art. 603bis c.p., consente solo all’Autorità giudiziaria di punire (con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore) chi assume, utilizza o impiega lavoratori assoggettandoli a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno in funzione della reiterata corresponsione di retribuzioni difformi dai contratti collettivi o sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro, ovvero in base alla violazione delle norme sui tempi di lavoro e di riposo o ancora per violazione delle regole in materia di igiene e sicurezza o, infine, per aver sottoposto il lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o situazioni alloggiative degradanti.

Sempre e solo il Giudice, infine, può disporre il controllo giudiziario dell’azienda (ex art. 321, comma 1, c.p.p.) quando interrompere l’attività comporta ripercussioni negative sui livelli occupazionali, nominando un amministratore giudiziario per rimuovere le condizioni di sfruttamento e regolarizzare i lavoratori occupati senza regolare contratto, mentre prima del Jobs Act, in forza dell’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003, la regolarizzazione dei lavoratori era imposta al datore di lavoro utilizzatore direttamente dagli Ispettori del Lavoro (con la prescrizione obbligatoria ex art. 15 del D.Lgs. n. 124/2004).

 

Pierluigi Rausei

ADAPT Professional Fellow e Docente di Diritto sanzionatorio del lavoro (*)

@RauseiP

 

(*) Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione alla quale appartiene.

 

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A contrasto del caporalato ripristinate solo in parte le tutele cancellate da Jobs Act e depenalizzazione
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