Primo Maggio, l’urgenza di ripensare la dimensione collettiva e il valore sociale del lavoro

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Il lavoro in Italia sta crescendo. Tutti i dati ce lo dicono, ormai mese dopo mese. E non solo dal punto di vista quantitativo, ma cresce anche il lavoro a tempo indeterminato, cresce il lavoro per i giovani così come quello per le donne, le due fasce cronicamente deboli nel nostro Paese. E il lavoro cresce, soprattutto a partire dal 2021, in un momento storico nel quale non si sono affacciate riforme o pacchetti significativi di incentivi economici (che pur sono annunciati in questi giorni, segno di un habitus che accompagna tutti i governi). Così come è notizia ormai quotidiana quella del rinnovo di un contratto collettivo di settore che porta con sé aumenti retributivi e innovazioni nelle tutele e nei diritti dei lavoratori, segno del fatto che le parti sociali sono tutt’altro che defunte, sebbene in molti casi siano state a lungo sopite a causa della congiuntura economica. Nel giorno della festa dei lavoratori è doveroso guardare a tutti questo, e festeggiarlo.
 
Allo stesso tempo non possiamo adagiarci su questi dati, per almeno due motivi. Il primo è che se allarghiamo anche di poco lo sguardo verso lo scenario europeo, di cui molto parleremo nel prossimo mese, siamo riportati alla realtà di un Paese che è agli ultimi posti per tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile e ai primi posti per tasso di inattività. Questo ci ricorda che la strada è ancora lunga e il divario da colmare ancora molto ampio. Il secondo è dato dal fatto che nel mercato del lavoro italiano sembrano emergere quelle dinamiche di polarizzazione tra lavori qualificati e non che molti paesi occidentali hanno vissuto negli ultimi decenni. Pesano così le basse competenze dei singoli e l’assenza di un sistema che aiuti le persone a riqualificarsi e formarsi davanti alle urgenze che il mercato del lavoro sollecita, e l’andamento del mercato è quindi il solo criterio di allocazione delle risorse, contribuendo a lasciare indietro le persone più fragili e deboli.
 
Ma vogliamo anche guardare ad un dato più profondo, che potrebbe essere annebbiato dall’attenzione eccessiva per gli aspetti economici o politici del lavoro. Da più fronti, e lo vediamo anche nella vita quotidiana a contatto con i più giovani, emerge come il lavoro sia sempre meno considerato un fattore centrale nella vita delle persone. Questo fatta salva la dimensione economica, che resta centrale ma che se unico aspetto positivo del lavoro rischia di ridurlo, appunto, a fattore di sussistenza e nulla di più. Non vogliamo aggiungerci alla schiera di coloro che davanti a questo fenomeno si stracciano le vesti e gridano all’impoverimento morale della nostra società. Vogliamo, in quanto studiosi e appassionati delle dinamiche del lavoro, interrogarci seriamente davanti a questo fenomeno per comprenderne la genesi e le prospettive future. Negli ultimi decenni si è parlato molto di uno scenario di società senza lavoro, riferendosi alla dimensione quantitativa. Ma tutto questo non si è avverato. Più nascosta però sembra essersi mossa una diversa dimensione, che allontana la società dal lavoro in modo più sostanziale.
 
Non siamo qui per dare risposte, ma vogliamo segnalare almeno una pista di lavoro che parte dalla constatazione che il lavoro sembra aver perso, nei fatti, la sua dimensione relazionale che si è espressa nella sua forma più matura, nel secolo scorso, mediante il fenomeno del “collettivo”. Oggi la dimensione collettiva nel lavoro sembra marginale e le imprese che non sanno più come attrarre e trattenere le persone e si affidano a volte a tutto un insieme di incentivi individuali che premiano le performance dei singoli e le loro capacità. Pensiamo che qui si annidi una delle origini di questa de-valorizzazione del lavoro nella vita delle persone, da un lavoro che ha perso il nesso con gli altri e quindi con la società. Di certo pesa in questa situazione l’indebolimento, almeno nella loro percezione sociale, dei corpi intermedi, che hanno oggi l’onere di rinnovarsi per non far sì che con loro si indebolisca anche la democrazia, che non può essere compiuta senza una vera democrazia economica che proprio le parti sociali hanno cercato di garantire nell’ultimo secolo.
 
In questo primo maggio, che ci ricorda come la dimensione collettiva del lavoro, anche nei drammi che l’anno accompagnata, avesse in sé radicata una dimensione di senso, di scopo, di obiettivo comune vogliamo richiamarla augurando in primo luogo a noi, e poi a tutti, di riscoprirla.

 
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT

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 Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
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