Appunti di viaggio /6. Rappresentare i lavoratori all’epoca della polarizzazione tra crisi e innovazione

Un recente studio dell’OCSE (riassunto qui: http://voxeu.org/article/productivity-slowdown-s-dirty-secret-growing-performance-gap) ha messo in luce come all’origine della stagnazione o declino della produttività nei paesi sviluppati si celi la combinazione di due importanti fattori: da un lato, la crescente difficoltà delle imprese in declino di recuperare margini di competitività, e dall’altro, una riallocazione inefficiente delle risorse, tale da impedire il dinamismo del mercato e una “distruzione creativa” del tessuto industriale.

 

In altre parole, gli esperti rilevano come tra il 2001 e il 2013 sia aumentata la forbice che separa le imprese che vantano gli standard produttivi più elevati da quelle che detengono i livelli più scarsi. Nel settore manifatturiero, si parla di un tasso di crescita medio annuale della produttività del 2,8% nelle imprese del primo gruppo, contro lo 0,6% nelle realtà produttive del secondo. Tale divario, secondo gli autori, sarebbe cresciuto nella prima decade del ventunesimo secolo, contribuendo alla stagnazione e talvolta al declino della produttività nei paesi dell’area OCSE.

 

Questo, non solo perché alcune imprese avrebbero accelerato il loro ritmo di crescita, beneficiando dei ritorni positivi degli investimenti in nuove tecnologie, ma anche perché per la restante parte (quella maggioritaria) delle realtà economiche sarebbe sempre più difficile recuperare margini di competitività. Da un lato, infatti, l’avanzamento tecnologico e la transizione da un’economia della produzione a una della conoscenza richiederebbe competenze manageriali e organizzative sempre più all’avanguardia e non facilmente acquisibili all’interno delle imprese tradizionali. Dall’altro, lo scarso dinamismo nel mercato dei beni e dei servizi offrirebbe alle imprese già insediate pochi incentivi per rinnovarsi, adottando nuove tecnologie e modalità organizzative. A ciò occorre aggiungere il rischio connesso all’investimento tecnologico che contribuirebbe a ridurre l’ingresso di nuovi competitors, contenendo ulteriormente il potenziale di recupero delle imprese in declino, così come le chance di una loro uscita dal mercato.

 

Emerge, allora, dal quadro appena descritto un tessuto imprenditoriale polarizzato tra poche imprese che macinano quote di competitività e tante realtà che sopravvivono pur in situazioni di decrescita costante. Uno scenario che sembra confermato, anche prendendo in considerazione il panorama industriale e produttivo della provincia di Brescia.

 

Dalla posizione di osservatrice del contesto metalmeccanico bresciano, ho infatti potuto riscontrare empiricamente l’attendibilità delle osservazioni dell’OCSE, alternando la mia presenza a tavoli di gestione di crisi pluriannuali con visite a stabilimenti automatizzati e in espansione. E a supporto delle percezioni avute intervengono poi alcuni dati. Se il 42° Rapporto semestrale sulla crisi e l’occupazione prodotto da Fim Lombardia consegna un’immagine ancora sconfortante di Brescia, dipingendola come una delle province più afflitte dal ricorso agli ammortizzatori sociali (e in particolare alla cassa integrazione straordinaria e ai contratti di solidarietà) negli ultimi mesi del 2016, l’Associazione Industriale Bresciana (AIB) ha recentemente portato all’attenzione gli importanti investimenti in tecnologie digitali di alcune multinazionali come Beretta, Camozzi, Feralpi e Lonati. Per i più rilevanti gruppi manifatturieri bresciani, recita infatti un Rapporto AIB di fine 2016 (disponibile qui: http://www.aib.bs.it/documento/60318), la propensione a investire non è stata alterata dagli anni della crisi e nel 2015 ha raggiunto una media del 20,7% del valore aggiunto. Tuttavia, solo il 10% di queste realtà ha investito oltre il 40% della ricchezza prodotta. Complessivamente, questi elementi contribuiscono a spiegare la situazione attuale della produzione industriale nella provincia lombarda, che registra variazioni positive benché ancora inferiori di 24 punti percentuali rispetto ai valori attestati nel primo trimestre 2008.

 

La divaricazione tra stadi di salute e sviluppo delle imprese bresciane presenta inevitabili implicazioni anche sul piano della rappresentanza dei lavoratori. Una duplice tensione sembrerebbe interessare il sindacato, spinto da un impulso ad innovare la propria azione per dimostrarsi all’altezza di un futuro 4.0 e al contempo trattenuto da logiche di produzione e dinamiche relazionali tra imprese e lavoratori appartenenti a un passato che non accenna a scomparire. Del resto, sono diversi gli autori che osservano come i processi di modernizzazione verso nuovi modelli produttivi e organizzativi configurino un fenomeno tuttora circoscritto, o comunque «tale da non poter sostenere l’incompatibilità del vecchio paradigma con il nuovo contesto competitivo» (Della Torre, 2006). Ma come evidenziato dallo studio OCSE, la resilienza dei vecchi modelli di produzione contribuirebbe a condannare diverse imprese tradizionali a uno stato continuativo di declino.

 

Questa situazione, nel contesto di relazioni industriali bresciano, si ripercuote in una contrattazione ancora spesso difensiva e nella gestione di situazioni di disagio individuale e collettivo, talvolta culminanti in manifestazioni di protesta. Oggi, mentre cerca di qualificarsi come interlocutore responsabile delle aziende nei processi di innovazione tecnologica e organizzativa, la Fim di Brescia rappresenta ben 4.344 lavoratori interessati da ammortizzatori sociali. E se da un lato, non è facile per i rappresentanti dei metalmeccanici cislini essere coinvolti nei processi decisionali sull’introduzione di nuove tecnologie e modalità organizzative, dall’altro è prassi quotidiana sedere ai tavoli di discussione di contratti di solidarietà e accordi di cassa integrazione.

 

Questa è ancora oggi la realtà del sindacato nel settore metalmeccanico, che merita di essere osservata con la stessa attenzione con cui si ipotizzano gli scenari evolutivi dell’economia digitale. C’è una porzione consistente dell’attività di rappresentanza che ha ancora a che fare con la staticità di contesti produttivi inalterati.

 

Eppure, ci sono mezzi per ricongiungere ciò che sembra stare agli antipodi: la crisi e l’innovazione. È possibile farlo, come è già avvenuto a Brescia, associando il contratto di solidarietà alla negoziazione di una commissione congiunta tra lavoratori e management per la rilevazione di problematiche e la discussione di possibili soluzioni in tema di organizzazione del lavoro, efficienza e produttività. O provando a cogliere e ad interpretare il disagio di un delegato che non accetta che la chiusura della propria azienda possa porre fine alla sua vocazione di rappresentante dei lavoratori. Da questa esigenza è possibile partire per ripensare la rappresentanza anche al di fuori dei luoghi di lavoro, nella costruzione di percorsi di formazione e riqualificazione professionale e nell’accompagnamento delle persone nella ricerca di una nuova occupazione. In fondo, crisi e innovazione non sembrano poi così diverse se concorrono entrambe ad indebolire la solidità degli spazi fisici e ad accrescere la brevità dei percorsi occupazionali.

 

Nell’attesa che, come sollecitato dagli esperti dell’OCSE, intervengano politiche pubbliche a sostegno di maggiori livelli di competitività e del trasferimento di buone pratiche tra le imprese, il carattere duraturo di certe crisi aziendali si trova allora a costituire un inedito banco di prova per un sindacato che voglia farsi promotore della prossima fase di crescita e di sviluppo, provando ad abbandonare l’approccio emergenziale dei primi anni di crisi per costruire un cambiamento, nella rappresentanza così come nel mercato del lavoro, che abbia i caratteri della sostenibilità.

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Junior Research Fellow

@ilaria_armaroli

 

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