Apprendistato: basta fare le cose “all’italiana”

Tanto tuonò che alla fine piovve. Si potrebbe sintetizzare così quanto è successo all’apprendistato in questi giorni: dopo mesi di attacchi più o meno evidenti, l’istituto è stato spogliato della sua mission.

 

Ma facciamo un passo indietro. Subito dopo l’accordo siglato la scorsa estate dai sindacati con Expo Spa (che, per propria natura, non poteva ispirarsi a principi di flessibilità) si sono rinvigorite le ambizioni di quanti da sempre sognano un’ampia e permanente “deregulation del lavoro” all’insegna della libertà economica. Qualcuno ricorderà come subito dopo la firma di quel patto, l’allora Ministro Giovannini convocò le parti sociali per invitarle a trovare una soluzione che rendesse più flessibile il mercato del lavoro apportando modifiche alle forme contrattuali vigenti. Oggetto della “riforma”, tra i vari istituti, anche l’apprendistato, contratto per cui sono notoriamente disponibili ingenti risorse “pubbliche” che la Ragioneria centrale non consentirebbe di spostare su altri istituti. La soluzione anche allora era di snaturare l’apprendistato, individuandone una nuova formulazione che consentisse alle imprese di fruire di vantaggiosi incentivi fiscali senza tuttavia nessun onere formativo. Una misura “praticona” dunque, che in realtà non mirava a tutelare l’inserimento nel mercato del lavoro dei nostri ragazzi salvaguardandone e qualificandone il percorso formativo, ma che intendeva solo dare una risposta (politica) a breve termine al problema dell’alto tasso di disoccupazione degli under 30, rimandandone (in concreto) gli effetti negativi.

 

La verità è che stiamo scaricando sulle forme contrattuali e soprattutto sull’apprendistato problemi che invece sono propri del sistema imprenditoriale italiano, caratterizzato da piccole e micro imprese, prevalentemente a conduzione familiare la cui logica economica è fortemente orientata al profitto a breve termine. Come dargli torto, considerato anche il peso fiscale che grava sulle imprese? Allora perché non partire, ad esempio, da un piano nazionale di sviluppo economico, indicando settori e priorità infrastrutturali sui quali orientare gli investimenti, l’innovazione tecnica e quindi i modelli contrattuali, invece di ridurre tutto ad una sempre maggiore ed esasperata semplificazione e liberalizzazione dei rapporti di lavoro, che non potranno da sole cambiare le sorti delle imprese italiane?

 

L’apprendistato non funziona per quelle imprese che cercano solo manodopera finanziata, senza nessun altro obbligo aggiunto. Non funziona in quelle imprese che non hanno una visione innovativa a prescindere dalle proprie dimensioni e dalla propria attività.

 

La decisione presa dunque non mi sorprende, anzi conferma quello che io e la mia organizzazione sindacale denunciamo da tempo: l’affannata ricerca di scorciatoie e la compressione dei luoghi di dibattito. Tanto più ho il timore che la scelta (non causale) di coinvolgere sempre meno le rappresentanze dei lavoratori porterà non solo ad un arretramento delle politiche economiche del Paese, ma anche ad un arretramento dei diritti del lavoro nel suo complesso, in cambio di promesse occupazionali per lo più a basso costo e a basso impegno sociale per le imprese.

 

È per questo motivo che non condivido il provvedimento varato dal Governo. La soluzione proposta è nel complesso peggiorativa, mentre l’alleggerimento dei contenuti formativi rischia di trasformare l’apprendistato in mero contratto di inserimento. Se di semplificazione vogliamo parlare, diciamo che è “d’interesse economico”, a favore delle imprese ma a danno dei giovani e delle loro competenze.

 

Le politiche a breve termine da sole non riusciranno ad abbattere l’elevata disoccupazione giovanile e a lenire le difficoltà sperimentate dai giovani italiani nella transizione verso il mercato del lavoro una volta concluso il percorso di studi: se si vuole rilanciare l’occupazione giovanile bisogna guardare anche ai difetti del nostro sistema di istruzione e formazione, ammettendo che necessita di una radicale trasformazione che deve investire anche il modo di pensare delle famiglie, spesso colpevoli di orientare i propri figli verso percorsi formativi che non trovano alcuna declinazione occupazionale rispondendo ad arcaici stereotipi e soprattutto di non stimolarli all’autoimprenditorialità.

 

Così come abbiamo bisogno di integrare maggiormente scuola e lavoro, abbiamo altresì bisogno di rilanciare l’apprendistato come strumento di programmazione e di facilitazione dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. È perciò fondamentale la fase dell’orientamento, veicolando l’importanza dell’alternanza scuola lavoro e la maturazione di una mentalità imprenditoriale che oggi appartiene solo a chi può vantare tale esperienza in famiglia.

 

L’apprendistato funziona in una economia che stimola l’innovazione, in un sistema politico che incoraggia il dibattito tra istituzioni e corpi sociali e che poggia il proprio sviluppo sulla qualità culturale e formativa dei propri cittadini. È su questa convinzione che dobbiamo cercare di lavorare, perché per costruire un nuovo apprendistato non basterà snellire le procedure burocratiche e abbassare il costo del lavoro. Se il Parlamento non provvederà a modificare il decreto legge n. 34/2014 ci troveremo di fronte non più ad uno strumento di promozione e qualificazione dell’occupazione giovanile e di integrazione tra i diversi sistemi (scuola, lavoro, formazione) ma all’ennesima forma contrattuale agevolata che perderà la sua efficacia quando i fondi pubblici saranno terminati.

 

Paolo Varesi

Vice Segretario generale UGL

@VaresiPaolo

 

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Apprendistato: basta fare le cose “all’italiana”
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