A proposito dell’attualità della categoria di “classe lavoratrice”. Spunti a partire da alcune recenti pubblicazioni europee

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Bollettino ADAPT 6 giugno 2022, n. 22
 
Davanti alle trasformazioni che interessano il mondo del lavoro contemporaneo sembra che alcune tradizionali categorie ereditate dal passato, come quella di “classe lavoratrice”, siano destinate a scomparire, ormai inefficaci nel loro obiettivo di rendere comprensibili le logiche e le dinamiche che contraddistinguono i mercati del lavoro. Come radunare, in un’unica classe, le tante diverse esperienze di lavoro rese possibili, ad esempio, dalla tecnologia? Cosa unisce, oggi, lavoratori e lavori tra loro così diversi?
 
Tentare di rispondere a queste domande non è certo un esercizio puramente teorico, dato che l’angolazione dalla quale scegliamo di studiare la realtà, e le teorie e le relative categorie che adottiamo per interpretarla, determinano non solo come la osserviamo, ma anche cosa riusciamo a vedere: Einstein nel 1926 ricordava infatti che «whether you can observe a thing or not depends on the theory which you use. It is theory which decides what can be observed». Sono stati recentemente pubblicati alcuni Working Papers, afferenti al progetto “DigClass – Social Classes in the Digital Age”, che possono essere d’aiuto in questo tentativo.
 
Uno di questi (Social classes in economic analysis. A brief historical account, curato da Rafael Muñoz de Bustillo Llorente, Fernando Esteve Mora), permette di comprendere l’evoluzione storica del concetto stesso di “classe sociale”. Gli autori ne rintracciano l’origine nei lavori di Smith, Ricardo, e ovviamente Marx. I primi due economisti identificano tre, distinti, gruppi sociali: i lavoratori, i mercanti – capitalisti, e i proprietari terrieri: gli individui vengono quindi ricompresi all’interno di una di queste e tre classi a partire dalla loro “funzione economica”. Il ruolo delle classi sociali acquisisce un ruolo ancora più decisivo nelle analisi di Marx, come è noto: egli individuia la stessa dinamica della storia nell’inevitabile conflitto presente tra lavoratori, da una parte, e capitalisti, dall’altra. Senza antagonismo, non è nemmeno concepibile il progresso. Un antagonismo che alimenta le disuguaglianze tra questi due gruppi, e che si basa sullo strutturale sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti, elemento necessario per lo stesso funzionamento della società industriale capitalistica. La classe è quindi una categoria necessaria per comprendere le dinamiche che sottostanno un determinato ordine sociale ed economico, in quanto funzionale a comprendere la natura, le origini e le finalità del conflitto presente tra capitale e lavoro.
 
Tale approccio metodologico viene superato sul finire dell’800 grazie alla scuola marginalista, che porta all’abbandono dello stesso concetto di classe: il sistema economico è pensato a partire dall’individuo e dalle sue relazioni con le istituzioni e i gruppi che compongono la società, e non più a partire da un gruppo omogeneo e dalle sue caratteristiche. Le criticità riguardanti la distribuzione del reddito e le disuguaglianze economiche e sociali non sono quindi ontologicamente connesse alla presenza di ben definite classi sociali, ma altro non sono che “imperfezioni” del mercato. Si passa quindi da una teoria oggettiva, basata sul tempo di lavoro quale elemento costituente il valore – e il plusvalore – di quanto prodotto, ad una teoria soggettiva dell’utilità individuale, dove ciò che determina il sorgere di differenze sono variabile tecniche, tecnologiche, di mercato, e non legate al conflitto latente la società industriale.
 
Gli autori notano però come dopo anni di abbandono (almeno in ambito economico), la categoria di “classe sociale” possa oggi tornare attuale. La (risalente) teoria della distribuzione funzionale, ad esempio, sembrerebbe andare in questa direzione, dato che considera i criteri distributivi riguardanti salari e capitali, alla base dei quali può essere pensata anche la presenza di un attrito tra gruppi sociali che ricorda la teoria classica sopra ricordata. Numerosi autori, più di recente, son tornati a parlare di classi, soprattutto per affrontare il tema delle disuguaglianze economiche e della polarizzante della nostra società.
 
Ovviamente, sono numerose le diverse variabili economiche rispetto al contesto storico di Marx: la crescita del lavoro autonomo (come considerarlo, tra capitale e lavoro?); la segmentazione del lavoro – e dei lavori – in base alla loro rispettiva autonomia, al controllo di cui gode il lavoratore sulla propria attività, al titolo di studi raggiunto e alle competenze possedute; il diffondersi di forme di lavoro non standard (il riferimento – inflazionato – è qui alla gig economy). Le categorie tradizionali sfumano, i concetti che la storia ci ha consegnato si spezzano in una miriade di frammenti: è quindi impossibile ricomporre ad unità, a classi sociali ben definite, l’attuale mondo del lavoro?
 
Gli autori sottolineano, in conclusione, come sia necessario costruire una nuova teoria economica: altrimenti, come recitava la citazione di Einstein prima ricordata, il rischio è quello di non riuscire nemmeno “a vedere” la realtà: «the problem now faced by the development of a new economic analysis of social classes is that nowadays we lack an economic theory suitable for the new economy» (p. 37).
 
Ulteriore aiuto ad approfondire tali questioni nell’orizzonte attuale è offerto da un altro Working Paper della stessa serie (Contemporary Class Analysis, curato da Daniel Oesch). In questa pubblicazione, l’autore critica quelle analisi che denunciano il declino – più o meno inevitabile – della middle class, sostenendo che tale declino ha invece investito la working class, una classe ben distinta dalla prima. Agli inizi del ventunesimo secolo, la middle class ha visto invece una sua espansione, in Europa come negli Stati Uniti.
 
Al centro della riflessione dell’autore è la critica al concetto di classe come unicamente collegato al criterio del salario. Le teorie che adottano tale criterio sembrano ridurre la società a tre classi: quella povera, quella ricca, e appunto la middle class. Molto più interessante – e utile – è ragionare invece per occupazioni, considerando le caratteristiche dei diversi lavori. In questo senso, si propone invece un approccio che valorizzi la dimensione verticale e orizzontale delle classi sociali: la prima dimensione riguarda la stratificazione sociale tra una upple-middle class (manager, professionisti), una lower-middle class (semi-professionisti, tecnici), una upper-working class (lavoratori qualificati), e infine una lower-working class (lavoratori non qualificati). A questi quattro strati corrispondo anche diversi livelli di istruzione: alla prima la formazione terziaria accademica e post-universitaria, alla seconda una formazione superiore, accademica e non, alla terza la formazione professionale, e alla quarta i titoli di studio più bassi, o addirittura la loro assenza.
 
La seconda dimensione riguarda invece le diverse modalità di organizzazione e realizzazione della propria prestazione lavorativa, che generano quattro, diverse, work logics: la logica indipendente (professionisti e lavoratori autonomi), la logica tecnica (tecnici esperti, lavoratori artigiani, lavoratori qualificati), la logica organizzativa (propria di manager, ma anche impiegati), la logica interpersonale (propria dei lavori maggiormente relazionali, come quelli nell’ambito dell’istruzione).
 
Combinando queste due dimensioni si ottiene la tabella di seguito riportata, con sedici differenti classi sociali, raccoglibili in quattro gruppi (i cui confini sono diversamente colorati): la upper middle class “tradizionale”, in viola, la middle class dei salariati, in rosso, la lower-middle class, in giallo, e infine la working class, in azzurro.
 
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È la working class, secondo l’autore, ad essere stata abbandonata quale categoria interpretativa della nostra società dal dibattito pubblico, concentrato invece esclusivamente sulla middle class. Ma è la prima ad aver osservato un maggior declino, al contrario della seconda: e alla base di questo processo, non ci sono esclusivamente ragioni puramente economiche o tecnologiche, come ad esempio l’aumento della richiesta di lavoratori qualificati, ma anche politiche e culturali. Sono cambiati, nell’ultima parte del Novecento, i riferimenti storici della working class, con i partiti di sinistra che sempre più frequentemente si sono orientati sulla promozione e rappresentanza della middle class, in costante espansione. E l’intervento combinato di questi fattori ha generato una spirale discendente dalla quale la working class sembra essere inesorabilmente risucchiata: scarsa rappresentanza politica, declino della rappresentanza sindacale, declino del valore sociale riconosciuto dai mestieri che rientrano in questa classe, crescita delle disuguaglianze.
 
In conclusione, gli studi qui brevemente richiamati sottolineano come la categoria di “classe lavoratrice”, e in generale l’utilizzo dell’espressione “classi sociali”, sia oggi particolarmente complesso, ma assolutamente necessario. Certo, la frammentazione del lavoro richiede di pensare a nuovi criteri di catalogazione, mentre la geografia dei confini tra gruppi sociali è soggetta a costanti mutamenti: ma parlare di classe significa adottare una teoria per la quale non è l’individuo, da solo, che si orienta nel mercato, spazio astratto e governato dall’economia, ma sono le relazioni tra gruppi sociali, e il potere e il conflitto che li caratterizza, a determinare le principali dinamiche economiche e a contribuire alla costruzione di un determinato ordine sociale. Tale sguardo risulta essere decisivo e richiede la costruzione di una nuova teoria economica che sappia guardare oltre all’imperfezione dei mercati del lavoro, per riscoprire le tensioni sociali, politiche, culturali che la determinano. Ma, se è possibile fornire un ulteriore spunto, anche evitare la funzionalizzazione del concetto di classe al servizio di un’univoca lettura della realtà, al fine di riscoprire come a questi segmenti e gruppi sociali che gli studi richiamati hanno cercato di descrivere corrispondano anche altrettante diverse forme di rappresentanza, istituzioni imprescindibili per leggere e governare la realtà del lavoro, le sue tensioni, i suoi conflitti e la loro ricomposizione, le sue trasformazioni.
 
Matteo Colombo

ADAPT Senior Research Fellow

@colombo_mat

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