La Direttiva europea sui salari minimi resiste al ricorso: la Corte UE ne delimita la portata

Interventi ADAPT

| di Silvia Spattini

Bollettino ADAPT 17 novembre 2025, n. 40

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata, in data 11 novembre 2025, sulla causa C-19/23 promossa dalla Danimarca e sostenuta dalla Svezia, volta all’annullamento della Direttiva (UE) 2022/2041 sui salari minimi adeguati nell’Unione Europea (sull’iter di approvazione della direttiva si veda, D. Porcheddu, La proposta di un salario minimo: le possibili iniziative comunitarie e le posizioni delle parti sociali europee, in Bollettino ADAPT, 21 settembre 2020, n. 34; sulla proposta di direttiva, v. S. Spattini, La proposta europea di salario minimo legale: il punto di vista italiano e comparato, in Bollettino ADAPT, 21 settembre 2020, n. 34 – aggiornato il 10 novembre 2020; sull’approvazione della direttiva, si veda, S. Spattini, Salari minimi adeguati: pubblicata la direttiva europea, in Bollettino ADAPT, 2 novembre 2022, n. 37 ).

Con la sentenza, la Corte ha confermato la validità complessiva della direttiva, disponendo tuttavia l’annullamento di alcune parti dell’articolo 5, relativo alla procedura per la determinazione dei salari minimi legali, per interferenza diretta con la competenza esclusiva degli Stati membri in materia di retribuzione.

Il ricorso per annullamento

Nel proprio ricorso la Danimarca sosteneva in particolare la direttiva eccedesse le competenze dell’Unione europea, violando l’articolo 153, par. 5, del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (TFUE), che esclude espressamente dall’intervento legislativo europeo le materie della retribuzione e del diritto di associazione. Infatti, secondo tali disposizioni, mentre il Parlamento e il Consiglio sono competenti ad adottare direttive che stabiliscono requisiti minimi per quanto riguarda le «condizioni di lavoro» (in applicazione dell’articolo 153, paragrafo 2, lettera b), TFUE, in combinato disposto con l’articolo 153, paragrafo 1, lettera b), TFUE), non possono legiferare, tra l’altro, in materia di retribuzioni o di diritto di associazione.

Le conclusioni dell’Avvocato generale

Nelle sue conclusioni dello scorso gennaio, l’Avvocato generale aveva suggerito l’annullamento integrale della direttiva, ritenendola incompatibile con l’articolo 153, paragrafo 5, TFUE. A suo avviso, infatti, la direttiva interferiva in modo diretta con le competenze degli Stati membri, compromettendo l’autonomia dei loro sistemi nazionali di determinazione salariale (si veda, S. Spattini, Verso l’annullamento della Direttiva europea sui salari minimi adeguati?, in Bollettino ADAPT, 20 Gennaio 2025, n. 3).

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea non ha condiviso tale impostazione, non pronunciandosi per l’annullamento integrale e limitandosi invece ad annullare solo alcune specifiche disposizioni dell’articolo 5.

L’analisi della Corte

La Corte ha esaminato se gli articoli da 4, 5 e 6 della direttiva impugnata comportassero un’interferenza diretta del diritto dell’Unione europea nella determinazione delle retribuzioni all’interno degli ordinamenti degli Stati membri, in violazione dell’articolo 153, paragrafo 5, TFUE.

Secondo la Corte, l’articolo 4, volto a promuovere la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e ad aumentarne la copertura, la Corte stabilisce che la direttiva non impone obblighi di risultato, ma soltanto obblighi di mezzi, consistenti in interventi per favorire la contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari. La “nota” soglia dell’80% di copertura della contrattazione collettiva indicata nella disposizione non costituisce un obiettivo da raggiungere. Come specificato anche dal considerando 25, tale soglia deve «essere interpretata solo come un indicatore che fa scattare l’obbligo di elaborare un piano d’azione». Pertanto, la sola previsione di obblighi di adottare alcune misure ed azioni non comporta un’ingerenza diretta del diritto dell’Unione nella determinazione delle retribuzioni.

Con riferimento, invece, all’articolo 5, relativo alla procedura per la determinazione di salari minimi legali adeguati, la Corte rileva, innanzitutto, che il paragrafo 1 garantisce agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità nella definizione della nozione di adeguatezza dei salari minimi legali. In particolare, la direttiva rinvia espressamente alle «prassi nazionali» per definire i criteri di tale adeguatezza. Pertanto, non si può ritenere che il riferimento al concetto di adeguatezza dei salari minimi legali si possa considerare come nozione autonoma del diritto dell’Unione e, pertanto, una interferenza diretta.

Per quanto riguarda l’articolo 5, paragrafo 2, esso imponeva di utilizzare come criteri per stabilire l’adeguatezza dei salari minimi legali almeno i quattro elementi elencati nel paragrafo stesso. La Corte evidenzia che tale disposizione incideva sugli elementi costitutivi dei salari, determinando una armonizzazione; di conseguenza, si trattava di una ingerenza diretta del diritto dell’Unione nella determinazione delle retribuzioni. Per tale motivo, il paragrafo 2 dell’articolo 5 è stato annullato dalla sentenza.

L’articolo 5, paragrafo 3, riguarda, invece, la possibilità di prevedere meccanismi automatici di indicizzazione dei salari minimi legali basati su criteri confromi al diritto e alle prassi nazionali. Tuttavia, la direttiva subordina il funzionamento di tale maccanismo alla «condizione che l’applicazione di tale meccanismo non comporti una diminuzione del salario minimo legale». Tale clausola di non regresso del livello dei salari minimi legali comporta un’ingerenza diretta del diritto dell’Unione nella determinazione delle retribuzioni al proprio interno. Anche in questo caso, pertanto, la sentenza ha annullato la frase citata.

La Corte esamina anche l’articolo 5, paragrafo 4, contenente l’indicazione per gli Stati membri di utilizzare indicatori di riferimento per valutare l’adeguatezza dei salari minimi legali. A tal fine, sono proposti come possibili valori di riferimento «il 60 % del salario lordo mediano e il 50 % del salario lordo medio». A differenza dell’articolo 5, paragrafo 2 dove si imponeva l’utilizzo degli elementi indicati tra i criteri da applicare, in questo caso si tratta di parametri esemplificativi di indicatori utilizzati a livello internazionale. Infatti, la direttiva prevede che gli Stati membri possono utilizzare «valori di riferimento indicativi utilizzati a livello nazionale» o altri valori di riferimento indicativi utilizzati a livello internazionale o anche delle loro combinazioni. Non prescrivendo l’utilizzo di specifici indicatori, l’articolo 5, paragrafo 4, non comporta alcuna ingerenza diretta del diritto dell’Unione nella determinazione delle retribuzioni. Pertanto, non c’è nessuna censura da parte della Corte.

La decisione della Corte

In sintesi, la Corte stabilisce l’annullamento:

– della parte di frase «compresi gli elementi di cui al paragrafo 2», contenuta nella quinta frase dell’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva impugnata;

– dell’articolo 5, paragrafo 2, integralmente;

– della parte di frase «a condizione che l’applicazione di tale meccanismo non comporti una diminuzione del salario minimo legale», contenuta nell’articolo 5, paragrafo 3.

L’impatto della sentenza

L’impatto della decisione sulle disposizioni nazionali dipende dalle modalità con cui gli Stati membri hanno recepito in particolare la disposizione oggetto di censura. Gli Stati membri potranno, ora, stabilire liberamente i criteri di adeguatezza dei salari minimi legali, senza utilizzare i criteri di cui all’articolo 5, paragrafo 2, oggetto di annullamento. Inoltre, il meccanismo di adeguamento automatico potrà anche comportare una riduzione del salario minimo legale.

L’eliminazione (necessaria) dei parametri vincolanti stabiliti a livello europeo tende a svuota la direttiva, poiché di fatto si chiede agli Stati membri di adottare procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali atte a garantirne l’adeguatezza, senza poter intervenire né sui livelli, né sui criteri o parametri di determinazione, altrimenti si tratterebbe di interferenza diretta del diritto dell’Unione nella determinazione delle retribuzioni, ambito di competenza nazionale.

Da un altro punto di vista, rimane intatto il richiamo a valori di riferimento quali il 60 % del salario lordo mediano e il 50 % del salario lordo medio, come esempio di indicatori internazionali. Pur non vincolanti, rappresentano chiaramente per Parlamento e Consiglio gli indicatori auspicati per garantire l’adeguatezza dei salari minimi legali.

Nulla cambia con riferimento alla promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari.

In generale, poi, la sentenza ha fissato anche un principio importante secondo il quale l’esclusione di competenze dell’Unione europea stabilite dall’articolo 153, paragrafo 5, TFUE non può coprire ogni questione o misura che sia in qualche modo connessa alla determinazione della retribuzione o al diritto di associazione, perché altrimenti l’Unione non potrebbe esercitare le sue competenze in materia di «condizioni di lavoro», ai sensi del paragrafo 1, lettera b), del medesimo articolo. L’Unione non può adottare disposizioni nelle materie escluse dalla sua competenza quando queste determinino una interferenza diretta del diritto dell’Unione sulle competenze nazionali.

Silvia Spattini 
Ricercatrice ADAPT
@SilviaSpattini