Il lavoro irregolare di cui nessuno parla*

Interventi ADAPT

| di Francesco Seghezzi

Bollettino ADAPT 27 ottobre 2025, n. 37

La notizia è passata abbastanza inosservata, ma nel 2023 (ultimi dati disponibili) il lavoro irregolare in Italia torna a crescere dopo cinque anni di flessione. Le unità di lavoro a tempo pieno non regolari sono ben 3,1 milioni, circa 145mila in più rispetto al 2022 (+4,9%). La gran parte di queste occupazioni “invisibili” riguarda lavoratori dipendenti, oltre 2,2 milioni di persone. Il tasso di irregolarità — la quota di lavoro nero sul totale — sale al 12,7%, dopo il 12,5% dell’anno precedente, segno che la ripresa economica non si è tradotta in maggiore regolarità. Quello che più colpisce è che la crescita del lavoro non dichiarato è doppia rispetto a quella dell’occupazione regolare (+4,9% contro +2,4%) e interessa sia i dipendenti (+4,9%) sia gli autonomi (+4,8%).

L’aumento dell’irregolarità attraversa quasi tutti i settori. Il terziario si conferma l’area più vulnerabile, con un tasso medio del 13,9% e picchi del 40,5% nei servizi alla persona, dove il ricorso a prestazioni non dichiarate da parte delle famiglie continua a rappresentare una valvola di flessibilità sommersa. Insieme al comparto del commercio e della ristorazione, questo segmento concentra oltre il 60% di tutto il lavoro irregolare del Paese. Si tratta di dati che potrebbero essere commentati e analizzati in molti modi e che, da soli, contribuiscono a spiegare molte delle difficoltà sia del mercato del lavoro italiano sia della precaria condizioni dei conti pubblici e degli squilibri previdenziali. Ma, onde evitare analisi eccessivamente ampie che non si traducono in azioni politiche adeguate, è utile concentrarsi sugli aspetti settoriali. In particolare, la quota di irregolarità presente nel settore dei servizi alla persona è enorme e diventa ancora più evidente se dalle percentuali passiamo ai numeri.

Considerando il lavoro domestico, secondo le stime di Domina, il numero di lavoratori irregolari, principalmente donne (88%) e straniere (69%) è di 742mila. Una moltitudine di lavoratrici senza tutele durante il rapporto di lavoro e senza alcuna prospettiva previdenziale, che si traduce in un lavoro che continua fino a tardissima età al termine del quale si può sperare in un assegno sociale che pesa sui conti pubblici. Siamo di fronte un problema che è sia vecchio che nuovo. Vecchio perché l’assenza di un vero e proprio mercato del lavoro domestico, soprattutto legato alla dimensione della cura, è una criticità cronica del nostro Paese, con quote di irregolarità in aumento da anni. Nuovo, e questo spiega l’aumento, perché le trasformazioni demografiche e l’aumento dell’occupazione femminile hanno accresciuto le esigenze di cura da un lato e diminuito chi se ne faceva carico dall’altro.

Il tema è delicato e complesso perché si fonda sul presupposto che siano le donne a ricoprire ruoli di cura, in un retaggio culturale che difficilmente riusciamo a lasciarci alle spalle ma, allo stesso tempo, questo innesca una competizione tra lavoratrici, effetto di un sistema che scarica i costi del lavoro di cura su chi dispone di minori risorse economiche e di tutela. In pratica, considerata sia l’assenza di un mercato del lavoro regolare e istituzionalizzato del lavoro di cura, sia la presenza di donne straniere disposte – o spesso costrette – a lavorare in nero, sia il pregiudizio che lega la cura alla dimensione femminile, affinché l’occupazione delle donne cresca, aumenta la quota di (altre) lavoratrici irregolari. Il tutto con le conseguenze negative, soggettive e sistemiche, già richiamate.

Le strade per l’emersione del lavoro nero sono diverse e non possono prescindere, in questo caso, da un supporto pubblico. Considerato, infatti, che i bisogni sono collocati nelle singole famiglie e che i costi di una regolare assunzione sono elevati, è difficile immaginare che tutto questo possa avvenire senza un aiuto da parte delle istituzioni, ai vari livelli sia territoriali che nazionali. Gli attori delle relazioni industriali possono supportare questo processo di regolarizzazione, ma occorre un sostegno che nasca dalla consapevolezza che il ritorno economico di una detassazione/decontribuzione importante di questo mercato porta con sé esternalità positive per tutto il sistema Paese. In fondo il nodo è tutto nella visione che abbiamo di questi lavori, ossia se li consideriamo unicamente come servizi a basso valore aggiunto o se iniziamo a concepire il valore con metriche differenti, legandole alle conseguenze positive che la cura può avere sulle persone e sulle famiglie, senza sottovalutarne gli effetti economici e sociali.

Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
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*Articolo pubblicato anche su Domani con il titolo Nessuno ne parla ma il lavoro nero cresce, nel settore della cura domestica serve un supporto pubblico, il 24 ottobre 2025