Le sfide del sindacato al tempo dei populismi

Interventi ADAPT

| di Francesco Seghezzi

Bollettino ADAPT 13 ottobre 2025, n. 35

Negli ultimi quarant’anni la densità sindacale nei paesi OCSE si è dimezzata: dal 30% circa nel 1985 è scesa al 15% nel 2023/24. La differenza di genere è minima, con il 14,9% degli uomini e il 14,2% delle donne iscritti a un sindacato. Il divario più rilevante si osserva invece tra pubblico e privato: nel primo la quota di iscritti è pari al 41,3%, mentre nel secondo si ferma al 10,1%.

Per quanto riguarda le imprese, circa il 55% dei lavoratori del settore privato opera in aziende affiliate a un’organizzazione datoriale. Anche la copertura della contrattazione collettiva ha seguito una tendenza discendente, passando dal 47% nel 1985 al 33,5% nel 2023/24. In questo quadro, aggiornato nei giorni scorsi dall’OCSE, qual è lo stato di salute degli attori delle relazioni industriali in Italia? I dati ci dicono che la situazione è stazionaria se guardiamo agli ultimi vent’anni. La percentuale dei lavoratori iscritti al sindacato è fissa ormai da tempo intorno al 30%, i lavoratori che operano in aziende iscritte a organizzazioni datoriali sono circa il 70% e la contrattazione collettiva, secondo OCSE, copre la totalità dei lavoratori.

Il declino della rappresentanza che si è osservato a partire dall’inizio degli anni Ottanta (quando in Italia era iscritto al sindacato più di un lavoratore su due) sembra essersi fermato, almeno dal punto di vista numerico. Questo è un elemento importante per giudicare molto del dibattito pubblico che spesso pare dare per scontato un declino costante e perdurante della rappresentanza collettiva dei lavoratori e delle imprese. Allo stesso tempo però è innegabile come vi sia ampio spazio di recupero rispetto ai fasti del passato, pur in un contesto largamente mutato. L’economia dei servizi impone modalità di organizzazione differente, non più basate sulle logiche della grande azienda industriale, così come la digitalizzazione del lavoro riduce molto quel rapporto fisico che ha per decenni alimentato le tessere sindacali. Di certo non mancano i bisogni sociali ed economici ai quali gli attori collettivi hanno sempre tentato di rispondere, tanto che il vero rischio oggi è quello dell’affermarsi in tutto il mondo di movimenti populisti e radicali quasi sempre originati da istanze sociali (pensioni, immigrazione, salari). Istanze che parrebbero, ad uno sguardo superficiale, rappresentate da movimenti collettivi, capaci di dare voce a un popolo contrapposto alle élite e di mobilitare energie sociali diffuse.

Al contrario, invece, la loro forza appare fondata più sulla somma di malesseri individuali che su forme solide di solidarietà organizzata. Se la retorica populista ricompone le frustrazioni in un “noi” compatto, l’infrastruttura reale resta quella di una società frammentata, dove prevalgono solitudini, precarietà e insicurezze vissute in termini individuali. Il populismo appare come una risposta surrogata e transitoria alla perdita dei canali tradizionali di rappresentanza. La sua capacità di intercettare frustrazioni individuali e trasformarle in un “noi” collettivo non si accompagna alla costruzione di nuovi strumenti democratici di partecipazione e decisione, rendendo questa collettività fragile, volatile e dipendente dal leader. L’assenza di una rinnovata democrazia economica rende evidente che il populismo non colma il vuoto lasciato dai vecchi soggetti collettivi, ma piuttosto lo occupa temporaneamente, senza però riuscire a risolverlo. In questo senso lo spazio per gli attori collettivi, che non siano solo una somma confusa di individualità, è ancora molto ampio, pensiamo solo a tutte le sfide aperte dal rinnovato dibattito sulla partecipazione dei lavoratori, con una legge voluta proprio dal sindacato.

L’urgenza è quella di riscoprire la dimensione collettiva di risposta ai bisogni sociali ed economici non solo come forma ma come metodo. Parlare di democrazia economica e democrazia industriale oggi potrebbe sembrare fuori tempo massimo, ma le conseguenze dell’indebolimento di questi istituti, nelle varie forme (imperfette) che si sono affermate nel corso del secolo scorso, sta portando con sé gravi conseguenze per tutti. Il rilancio del sindacato passa dalla capacità di trasformare malesseri individuali in solidarietà organizzata, riproponendo il collettivo come l’unica strada possibile. Certamente innovando modalità, forme e pratiche, ma ritornando alla sostanza.

Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
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*Articolo pubblicato anche su Domani il 9 ottobre 2025