Dalla questione sociale a quella umanitaria, nuove grammatiche del collettivo
| di Francesco Seghezzi
Bollettino ADAPT 6 ottobre 2025, n. 34
Negli ultimi anni non si erano viste mobilitazioni di questa intensità e di questa composizione generazionale come quelle che si sono sviluppate attorno alla Global Sumud Flotilla. Soprattutto tra i più giovani, la capacità di occupare lo spazio pubblico, di rendere visibile un posizionamento politico e morale, sembra avere trovato in questo evento un catalizzatore inedito. Questo fatto, di per sé, sollecita alcune domande. Perché, a fronte di tematiche molto più prossime e tangibili – i salari stagnanti, lo sfruttamento dei tirocini, la discontinuità occupazionale, il sottofinanziamento di servizi essenziali come la scuola e la sanità – la mobilitazione resta spesso scarsa, frammentata, marginale? Perché su ciò che tocca il vissuto quotidiano di milioni di persone si produce una risposta pubblica debole, mentre una questione internazionale e apparentemente lontana, come il dramma di Gaza, riesce invece a mettere in movimento intere fasce di popolazione?
Storicamente, la separazione tra il piano delle lotte internazionali e quello delle rivendicazioni sociali non era così netta. Durante la stagione dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, ad esempio, la protesta contro la guerra in Vietnam si intrecciava strettamente con le battaglie per i diritti del lavoro, i rinnovi contrattuali, la democratizzazione dei luoghi di studio e di produzione. Le lotte erano “convergenti”, in parte perché si nutrivano di un immaginario comune – quello della liberazione, dell’emancipazione, della giustizia sociale – in parte perché esistevano strutture collettive, come i sindacati e i partiti, capaci di fungere da ponte tra le diverse dimensioni del conflitto. Oggi, almeno in parte e nonostante la teorizzazione di approcci intersezionali, questa connessione sembra essersi smarrita, quanto meno in queste più recenti manifestazioni. Anche dentro i sindacati promotori, che peraltro segnano una inedita convergenza che richiama il motto di Renoult “pas d’ennemis à gauche”, la capacità di leggere insieme i fronti della mobilitazione internazionale e quelli della giustizia economico-sociale appare indebolita e il rischio che la prima non porti alla seconda ma resti una fiammata è elevato.
Si può ipotizzare che una delle ragioni di questa frattura risieda nella forza delle immagini e della comunicazione contemporanea. Gaza, con la sua dimensione tragica, immediatamente percepibile, offre una “plasticità” che le statistiche sulla disoccupazione giovanile o i dati sulla spesa sanitaria non riescono ad avere. L’ingiustizia economica, per quanto profonda e diffusa, appare spesso invisibile, diluita nei ritmi della quotidianità e soprattutto i bisogni sociali sono sempre più frammentati; la violenza bellica e l’immedesimazione in coloro che erano sulle barche in viaggio nel mediterraneo (quelle dirette verso Gaza, non quelle sulle quali muoiono quasi quotidianamente i migranti), al contrario, concentra e drammatizza in maniera lampante un conflitto che risulta perciò più mobilitante.
Ma non si tratta soltanto di un tema di immaginario e comunicazione. Il fatto che la dimensione politica e umanitaria riesca a muovere molto di più di quella economico-sociale indica un mutamento più ampio nelle forme di politicizzazione contemporanea. Le nuove generazioni sembrano rispondere a eventi che appaiono universali, moralmente “assoluti”, mentre faticano a riconoscersi in vertenze che riguardano interessi particolari o settoriali. Questo non significa, naturalmente, che i temi economici e sociali abbiano perso di importanza oggettiva: al contrario, continuano a strutturare la vita quotidiana di milioni di persone. Ma significa che la capacità di trasformarli in terreno di mobilitazione collettiva è oggi più debole, meno immediata.
Per questo, chi oggi cavalca queste mobilitazioni – da una parte o dall’altra dello schieramento politico – dovrebbe prestare attenzione. Perché il dato davvero rilevante non è soltanto la protesta per Gaza, ma il fatto che essa rivela e anticipa una trasformazione più profonda nei linguaggi, nelle sensibilità e nelle forme della mobilitazione. Comprendere le ragioni di questa trasformazione, anche criticandole, è una sfida che ci riguarda tutti, soprattutto chi ha a cuore la rinascita di un collettivo che sembra sempre di più marginale
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
@francescoseghezz
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