Formazione e lavoro in Francia: il bilancio del Piano di Investimento nelle Competenze 2018-2023

Interventi ADAPT

| di Adelaide Fabbi

Bollettino ADAPT 1 settembre 2025, n. 29

Dal 2018 al 2023 la Francia ha avviato il Plan d’Investissement dans les Compétences (Piano di Investimento nelle Competenze – PIC), nato dalle raccomandazioni del rapporto Pisani-Ferry (2017). Questo programma è stato pensato come strumento per rafforzare l’occupabilità dei cittadini e modernizzare un sistema che sembrava mostrare limiti strutturali da tempo. I principali obbiettivi erano tre: offrire a più persone l’accesso ai percorsi di formazione, rispondere meglio al fabbisogno di competenze richieste dal mercato del lavoro, specialmente nei settori con difficoltà di reclutamento, e infine rinnovare il funzionamento e la struttura della formazione professionale. Nell’aprile del 2025, è stato un pubblicato un rapporto di monitoraggio volto a verificare l’efficacia del Piano, i cui contenuti sono di seguito presentati.

Prima del piano, spettava alle regioni la competenza principale sui programmi di formazione dei disoccupati. In seguito alla riforma, queste hanno ricevuto fondi aggiuntivi attraverso i Patti regionali per l’investimento nelle competenze, in un sistema di cofinanziamento: le regioni hanno continuato a garantire un livello minimo di spesa, mentre lo Stato ha coperto i costi supplementari legati agli obiettivi del programma. Il coordinamento centrale è stato assicurato dal Ministero del Lavoro, con il supporto di DARES (servizio statistico ministeriale), France Travail (l’ente pubblico responsabile dell’impiego) e l’infrastruttura dati del CASD.

L’impegno finanziario è stato considerevole: 16,2 miliardi previsti, di cui circa 12,1 miliardi effettivamente spesi (75%). La distribuzione dei fondi si è articolata in tre direzioni: oltre 6 miliardi alle risorse aggiuntive dei Patti regionali, poco più di 3 miliardi a nuovi programmi nazionali e una quota significativa a dispositivi preesistenti, che non sono stati considerati come “nuove azioni” dal consiglio scientifico di valutazione del programma.

Nonostante l’ingente impiego di risorse, una parte rilevante è stata riversata in spese non direttamente formative: fino a un terzo della spesa è stata assorbita da misure di sostegno necessarie per il corretto svolgimento delle formazioni, come la remunerazione dei tirocinanti (+48% dal 2019). Anche le spese direttamente collegate ai percorsi formativi sono cresciute (+22%), ma con un aumento dei costi unitari dovuto a inflazione, maggiore durata dei corsi, standard qualitativi più elevati (personalizzazione, riduzione delle classi, accompagnamento individuale), requisiti più stringenti e dinamiche di mercato legate agli enti formativi.

In questo senso, un nodo critico ha riguardato infatti la struttura del mercato della formazione, caratterizzato da una forte concentrazione di pochi grandi operatori privati che hanno visto crescere i propri profitti dal 3% al 10% tra il 2019 e il 2022, mentre numerosi organismi pubblici o non profit hanno continuato a registrare perdite.

Sul piano operativo, il PIC ha promosso sia programmi nazionali che sperimentazioni regionali. Tra i primi spiccano Prépa Compétences, mirato al rafforzamento delle competenze di base, e Valoriser Son Image Pro, focalizzato sulle competenze trasversali, comportamentali e dell’immagine professionale. Questi percorsi hanno coinvolto spesso lavoratori con basso livello di istruzione: nel 2023, il 63% dei partecipanti ai corsi preparatori non aveva conseguito un diploma di maturità. Sul versante sperimentale, hanno avuto rilievo Prépa Apprentissage (accesso ai percorsi di apprendistato per giovani vulnerabili), 100% Inclusion (programmi personalizzati per disoccupati di lungo corso) e Repérage des Invisibles (dedicato ai giovani NEET non intercettati dai servizi pubblici), oltre a diverse iniziative di integrazione dei rifugiati e richiedenti asilo.

I corsi si articolavano in due categorie principali: preparatori, orientati a fornire competenze di base e accompagnamento, e qualificanti, che rilasciavano certificazioni spendibili sul mercato del lavoro. Sebbene l’obiettivo iniziale fosse formare un milione di disoccupati poco qualificati e un milione di giovani con bassi titoli di studio, il target si è progressivamente allargato a gruppi eterogenei (beneficiari di sussidi, disoccupati anziani, persone con disabilità, residenti in quartieri svantaggiati). Questa evoluzione ha reso meno immediata la valutazione del raggiungimento degli obiettivi originari.

I dati mostrano comunque un generale aumento dell’accesso ai corsi di formazione: la probabilità che un disoccupato seguisse una formazione è passata dall’8,8% del 2017 all’11,4% del 2022. Il principale problema risiede nella difficoltà di accesso ai corsi qualificanti: i corsi preparatori si sono infatti rivelati più efficaci nel raggiungere i gruppi più lontani dal mercato del lavoro, ma solo una minoranza dei partecipanti è riuscita a progredire verso percorsi qualificanti (14% dopo un anno, 19% dopo due). Ciò ha spesso prodotto una successione di formazioni preliminari senza reale avanzamento, in contrasto con l’idea originaria di un percorso integrato di continuità.

Quando però i corsi qualificanti venivano portati a termine, gli effetti occupazionali risultavano significativi: il 45% dei partecipanti era occupato due anni dopo, con un vantaggio di 8-9 punti percentuali rispetto a chi non aveva seguito una formazione e con una più alta probabilità di ottenere un impiego stabile (un contratto a tempo indeterminato o determinato superiore ai 6 mesi). I lavoratori meno qualificati non hanno beneficiato di un vantaggio specifico nell’accesso ai training come sperato; tuttavia, proprio questa categoria ha registrato i maggiori benefici occupazionali grazie alle formazioni qualificanti, con un aumento fino a dieci punti percentuali nel tasso di occupazione, confermando che il PIC avrebbe potuto essere ancora più efficace con un targeting più mirato su questa popolazione. I benefici sono stati più marcati anche per i lavoratori senior, mentre risultavano più contenuti per i giovani. Non si sono però registrati miglioramenti sostanziali nei salari o nelle posizioni socioprofessionali: l’impatto principale è stato nella possibilità di riconversione verso mestieri diversi.

Un’altra fragilità del programma ha riguardato l’allineamento con i cosiddetti “mestieri in tensione”, cioè quelle professioni caratterizzate da forti difficoltà di reclutamento. Solo il 15% delle formazioni (il 22% per quelle qualificanti) era orientato verso questi settori, in leggero aumento rispetto al 2019 ma ben lontano da un obiettivo di riequilibrio sostanziale. Due anni dopo la formazione, meno della metà (il 46%) dei partecipanti formati per queste professioni lavorava effettivamente in quei mestieri.

Il bilancio del piano mette quindi in luce risultati contrastanti. Da un lato, si è registrato un aumento significativo degli ingressi in formazione: dal 2017 al 2023 si è passati da circa 800 mila iscrizioni a oltre 1,4 milioni, anche se buona parte di questo incremento è attribuibile al CPF autonomo (il conto personale di formazione, che ogni lavoratore può utilizzare direttamente per finanziare corsi a propria scelta, indipendentemente dai programmi pubblici) e non direttamente al PIC. Dall’altro lato, la governance del programma ha mostrato limiti strutturali. Il coordinamento tra Stato, regioni e attori locali è stato spesso debole, i sistemi informativi non sempre adeguati, e in molte aree i Patti sono stati percepiti come semplici strumenti finanziari, senza un vero pilotaggio strategico.

Le difficoltà organizzative si sono riflesse anche nella frammentazione dell’offerta, con sovrapposizioni e ridondanze. In alcune regioni, come Auvergne-Rhône-Alpes e Provence-Alpes-Côte d’Azur, la sostituzione del ruolo delle regioni con un pilotaggio centralizzato di France Travail ha garantito efficienza tecnica ma non ha prodotto una visione politica complessiva. In queste stesse aree, le spese regionali per la formazione sono persino diminuite, con una maggiore diffusione di percorsi preparatori a scapito di quelli qualificanti.

Ciò non significa che il PIC non abbia portato benefici. Ha permesso di ampliare l’accesso, migliorare le condizioni dei corsi, favorire l’occupabilità di una parte dei beneficiari e avviare alcune innovazioni, come progetti pilota sperimentali. Tuttavia, i cambiamenti strutturali restano ancora lontani: il limite non riguarda solo i contenuti pedagogici, ma soprattutto la segmentazione del sistema di formazione e la scarsa fluidità dei percorsi, che hanno ostacolato la costruzione di veri “parcours sans couture” tra preparazione e qualificazione. La formazione qualificante, pur dimostrando di fare la differenza soprattutto per i meno diplomati, non è stata orientata in modo deciso verso i settori in maggiore carenza di manodopera.

Il vero limite del PIC, quindi, è di aver migliorato le condizioni in cui avviene la formazione senza riuscire a trasformare in profondità la struttura del sistema. Gli effetti vanno però letti in una prospettiva di lungo periodo: molte innovazioni sono state avviate tardi e i loro risultati strutturali non sono ancora visibili. La sfida per il futuro sarà trasformare questi sforzi in un sistema maggiormente inclusivo e mirato, capace di accompagnare davvero chi è più lontano dal mercato del lavoro e di rispondere in maniera incisiva ai loro bisogni.

Adelaide Fabbi

PhD candidate CREST (Institut Polytechnique of Paris)