Le origini della previdenza sociale in Italia. Precisazioni storiche

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In una recente intervista radiofonica – ripresa da tutti gli organi di stampa – un importante leader politico italiano ha dichiarato che “la previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani” e che il fascismo, a parte le leggi razziali e l’entrata in guerra dell’Italia (che, oltre ai lutti – ci permettiamo di dire – ha portato anche la distruzione di un gran numero di opere d’arte) ha fatto cose meritorie come, appunto, le pensioni o le bonifiche.

 

Sul mito del fascismo buono ha già autorevolmente risposto il nostro Presidente della Repubblica, in occasione della celebrazione del “Giorno della Memoria”, tanto è vero che non sarebbero sufficienti altri commenti. Riguardo al tema delle pensioni, tuttavia, quello che stupisce – a parere dello scrivente – è che siano mancate puntualizzazioni proprio da parte degli storici, soprattutto quelli di tradizione liberale o socialista, per confutare questa affermazione, quasi asseverando tacitamente una sorta di primogenitura operata dallo Stato corporativo in tale materia. In effetti, dopo le grandi opere storiografiche degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso (ricordiamo, tra gli altri, i lavori di Arnaldo Cherubini, Stefano Merli, Dora Marucco, Tito Lucrezio Rizzo) oggi il tema delle origini dello Stato sociale in Italia è assai negletto e questo stupisce non poco soprattutto perché l’argomento di cui parliamo, scolpito a chiare lettere nell’art. 38 della nostra Costituzione, è di stringente attualità. Non mancano infatti nei talk show delle reti generaliste sezioni rivolte settimanalmente ai temi della previdenza sociale (ad esempio come riformare la c.d. legge Fornero, cos’è l’Ape social, i vitalizi ecc.) ma – come molti avranno notato – neanche un minuto viene dedicato a coloro che ne furono gli artefici o, quantomeno, aprirono un dibattito per toglierla dall’alveo della beneficenza e inserirla in quello della giustizia sociale.

 

A questo proposito ho un sogno, da semplice cultore della materia: così come tutti noi abbiamo sentito parlare almeno una volta nella vita dei nostri Padri dell’Unità d’Italia, e in ogni città della penisola c’è una via o una piazza intitolata a Cavour, Vittorio Emanuele II, Mazzini e Garibaldi, così vorrei un accenno sui libri di scuola o una segnalazione toponomastica, non solo locale ma nazionale, anche per Luigi Luzzatti, Carlo Francesco Ferraris, Mario Abbiate, Rinaldo Rigola, Angiolo Cabrini, il beato Giuseppe Toniolo – “marziani” è vero, alzi la mano chi ne ha sentito parlare in una qualche trasmissione televisiva – e molti altri, eroi sconosciuti di battaglie non meno violente tra interventismo statale e il “laissez faire” caro ai liberisti. I primi, nonostante mille difficoltà, riuscirono a farci riscoprire fratelli dopo secoli di servitù straniera, i secondi, grazie anche al movimento sindacale e alla dottrina sociale della Chiesa, ci hanno “regalato” lo Stato sociale. Come trait d’union vorrei prendere la data simbolo del 17 marzo: in quel giorno del 1861 nacque ufficialmente l’Italia, in quello del 1898 vide la luce il nostro welfare, con l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro degli operai (legge n. 80 del 17/3/1898). In quest’ottica è solo il caso di accennare che la Cassa nazionale infortuni, progenitrice dell’attuale Inail, nacque nel 1883 (quarant’anni prima della marcia su Roma) da una convenzione tra il ministero di Agricoltura, industria e commercio e un pool di banche, con capofila la Cassa di Risparmio di Milano (oggi Intesa Sanpaolo) con sede a Ca’ de Sass. La piccola Vercelli, allora sotto la provincia di Novara, ebbe nel 1898, grazie all’intuizione di Angelo Bosso e Giovanni Bona, la prima Cassa consorziale in Italia contro gli infortuni sul lavoro nelle industrie e, nel 1904, auspici il senatore Vincenzo Ricci ed Eusebio Saviolo, la prima Cassa mutua contro gli infortuni in agricoltura.

 

Non sto a elencare un insieme di norme prodotte dalla legislazione sociale d’età giolittiana perché annoierei il lettore (per le donne si ricordi almeno la Cassa Maternità introdotta nel 1910) ma, ritornando al tema delle pensioni, anche in questo caso lo Stato liberale ha preceduto il fascismo. La Cassa nazionale di previdenza (antenata dell’attuale Inps) in regime volontario nacque nel 1898 e già nel 1907 pagò le prime pensioni a quattro operai del Vercellese divenuti inabili al lavoro: a beneficiarne furono due uomini e due donne, Giovanni Battista Rosso di Pertengo, Clemente Balzaretti di Vercelli, Vittoria Burocco e Apollonia Loreo di Asigliano (si veda “La Sesia” del 22 gennaio 1907). L’introduzione obbligatoria della contribuzione per le pensioni di invalidità e vecchiaia, così come il sussidio di disoccupazione, ebbe vita subito dopo la Prima guerra mondiale, nel 1919. Né si dimentichi l’importantissimo decreto legge sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni dei contadini emanato nel 1917, l’anno di Caporetto: per la prima volta venne introdotto in Italia il principio dell’automaticità della tutela, dando pieno carattere pubblicistico all’assicurazione, principio poi recepito nel Codice Civile del 1942.

 

Certo, una volta preso il potere, il fascismo – come ogni altro tipo di regime, di destra o di sinistra – fece della previdenza sociale un perno del proprio consenso, trasformando le ottocentesche Casse in Istituti nazionali, ampliando le tutele e la platea degli assicurati, in alcuni casi recependo le direttive dell’Organizzazione internazionale del lavoro (come l’assicurazione contro le malattie professionali) ma sempre nel solco di quello jus novum che già la tradizione giuslavoristica di fine Ottocento, uscendo dai canoni del diritto comune, aveva individuato come strumento efficace per fornire una soluzione alla questione sociale, ravvisando nell’assicurazione obbligatoria il mezzo tecnico, non politico, per mitigare i conflitti tra capitale e lavoro.

 

A conclusione di queste noterelle storiche, buona cosa sarebbe rimettere in agenda il tema previdenziale ripartendo dal mondo della scuola, se non dalle elementari, almeno dalle medie. Non tutti sanno che in età giolittiana, ad esempio, sulla base di una legge poco conosciuta, la n. 521 del 17 luglio 1910 sulla “mutualità scolastica”, le maestre delle scuole elementari dovevano insegnare agli alunni, dai 6 agli 11 anni, le virtù della previdenza. Ora, come facesse una maestra illustrare a un bambino questa materia, per certi versi simile al risparmio ma sul lungo periodo, è sempre rimasto un mistero per il sottoscritto: in un’età in cui per i fanciulli tutto è gioia di vivere e speranza per il futuro, infatti, poteva veramente apparire qualcosa di strano parlare della povertà lontana, quanto meno mezzo secolo, che avrebbe potuto colpirli se poco previdenti. Ma se ci sono riuscite le maestre dei nostri nonni a inizio Novecento a creare una coscienza in tema di pensioni nelle giovani generazioni, con i pochi mezzi a loro disposizione, non potrebbe la scuola ripetere quell’esperienza per far sì che la previdenza non diventi una materia per soli addetti ai lavori, legata ad aridi calcoli statistico-attuariali o sterile propaganda politica? Tutto ciò, ovviamente, con gli strumenti che offre oggi la moderna Pedagogia che, come la Storia, è una cosa seria.

 

Flavio Quaranta

INAIL

 

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