Tre indizi fanno una prova (per l’apprezzamento di un appalto genuino)

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Bollettino ADAPT 2 maggio 2022, n. 17
 
Nella pletora di pronunce emesse dagli organi giudiziari, tanto di legittimità quanto di merito, sulla legittimità di un appalto di servizi, l’ordinanza della Cassazione del 16 marzo 2022, n. 8567, merita un’attenzione particolare per alcuni interessanti passaggi interpretativi.
 
Riassumendo la vicenda oggetto di disamina, il ricorso di legittimità ha fatto seguito al doppio mancato accoglimento, nei due precedenti gradi di giudizio, della domanda di riconoscimento, in favore del ricorrente, di un rapporto di lavoro di tipo subordinato, ovvero in subordine di un contratto a progetto, in luogo del contratto di appalto per la manutenzione ordinaria, la pulizia e la custodia dell’impianto sportivo di proprietà del committente, con ogni conseguenza patrimoniale in ordine alle spettanze retributive dovute, in caso di subordinazione ovvero di collaborazione riconosciuta.
 
In particolare, a giudizio del ricorrente, il contratto di appalto in essere tra le parti avrebbe in realtà dissimulato un contratto di lavoro subordinato, ovvero, in mancanza, una collaborazione, adducendo a sostegno di tale tesi l’utilizzo pressoché totale di attrezzature di lavoro del committente e l’impiego di una propria dipendente per il loro uso.
 
Nella pur stringata motivazione sottesa all’ordinanza, il Supremo Collegio ha stabilito alcuni punti fermi di rilevanza lavoristica, i quali, assieme ai pur decisivi profili più strettamente processuali, hanno indotto al rigetto del ricorso. Infatti, accanto al rifiuto di un riesame di merito in sede di legittimità della vicenda in mancanza di una puntuale allegazione delle diverse e decisive circostanze fattuali disattese dalla Corte di Appello – così forzatamente sintetizzati i rilievi di rito – il giudice di legittimità ha ritenuto tre elementi sufficienti al fine della conferma dell’esito del secondo gravame.
 
Innanzitutto, la Corte di Appello, secondo l’organo nomofilattico, ha in modo convincente e condivisibile accertato e valorizzato l’esistenza di un’organizzazione dei mezzi in capo all’appaltatore, consistente, secondo l’art. 29, comma 1 del d.lgs. n. 276 del 2003, nella capacità di coordinare ed impiegare i fattori produttivi – attrezzature, manodopera e capitali – per il conseguimento del risultato autonomo concordato e per cui matura il diritto al compenso. Infatti, a norma del diritto positivo, l’organizzazione dei mezzi costituisce un requisito imprescindibile dell’essere un genuino imprenditore e distingue un contratto di appalto da una somministrazione, in cui il servizio, appunto, configura una mera fornitura di manodopera – uno dei fattori produttivi – senza, tuttavia, alcuna organizzazione economicamente sostenibile della medesima, che spetta all’utilizzatore.
 
A riguardo, né dalla ricostruzione della vicenda, né dalla motivazione è dato comprendere a quale titolo – se gratuito ovvero oneroso – sia avvenuto l’utilizzo quasi integrale delle attrezzature del committente ad opera dell’appaltatore, apparendo intuitivo come una mancata esposizione economica dell’appaltatore in relazione agli strumenti del committente – tramite un contratto di affitto/noleggio dei medesimi, redatto a latere del contratto di appalto ma al medesimo collegato, ovvero attraverso un apprezzamento economico di tale costo da scomputare dal corrispettivo pattuito per il servizio negoziato – avrebbe potuto far pendere la valutazione di merito verso una non genuinità dell’appalto, non sostenendo l’appaltante, nei fatti, alcun costo per tali fattori produttivi.
 
Altresì, un ulteriore elemento circostanziale – non riportato in sede di legittimità benché auspicabilmente indagato nei primi due gradi di giudizio – avrebbe dovuto consistere nella verifica del rapporto tra i due fattori produttivi oggetto di organizzazione imprenditoriale, ovverosia la dipendente dell’appaltatore, impiegata per l’esecuzione dell’appalto, e le attrezzature del committente, al fine di verificare se ed in quale misura il servizio dedotto nel contratto fosse inquadrabile come labour intensive. Sul punto è ragionevole ipotizzare che, in forza di quanto concordato – la manutenzione ordinaria, la pulizia e la custodia dell’impianto sportivo di proprietà del committente – il fattore produttivo umano prevalesse sull’omologo strumentale.
 
Ove così fosse stato, l’organizzazione imprenditoriale dei mezzi quale indefettibile elemento di liceità dell’appalto non solo non sarebbe venuta meno ma semmai sarebbe stata esaltata da un appalto in cui il fattore umano risulta decisivo, per non dire esiziale: peraltro, da quanto è possibile comprendere nell’ordinanza, le evidenze istruttorie avrebbero deposto in favore di una pacifica direzione della dipendente dell’imprenditore ad opera di quest’ultimo, con conseguente assenza di dubbio in merito a chi coordinasse il principale fattore produttivo.
 
La seconda circostanza valorizzata dalla Corte di Appello che, a mente dell’ordinanza della Cassazione, soddisfa i requisiti di logicità della motivazione afferisce all’esistenza del rischio d’impresa in capo all’appaltatore. In merito, è opportuno rilevare che se pochi dubbi sussisterebbero in relazione al fattore produttivo umano – come detto, pacificamente riconducibile al ricorrente – il ragionamento avrebbe potuto esser differente ove, per esempio, fosse emersa la natura gratuita dell’utilizzo delle attrezzature del committente, nei fatti adombrando una fattispecie interpositoria in cui il compenso dell’appaltatore sarebbe stato funzionale al rimborso del mero costo della manodopera e, pertanto, del tutto svincolato al risultato da ottenere.
 
Quest’ultimo, infatti, presuppone che l’appaltatore sia un imprenditore genuino e che, pertanto, soffra del cd. rischio di impresa, declinato sia in senso giuridico, ove risulti inadempiente rispetto all’utilità da conseguire, sia in chiave economica, allorché il risultato sia conseguito ad un costo economico superiore al compenso pattuito, e quindi al guadagno sperato dall’appaltatore.
 
Non da ultimo, il Supremo Collegio ha ritenuto decisiva l’istanza di certificazione del contratto presentata, alla presenza dei rispettivi legali, dalle parti. Anche in questo caso, al netto dell’esiguità delle informazioni in fatto ed in diritto estraibili dalla motivazione dell’ordinanza, la circostanza dell’assistenza qualificata nel corso della procedura di certificazione costituisce un indubbio elemento di consapevolezza, in capo al ricorrente, sul significato giuridico, ed a fortiori sulle conseguenze, che tale contegno avrebbe prodotto in ordine all’impossibilità e/o difficoltà di contestazione postuma della genuinità del contratto di appalto.
 
Cionondimeno, almeno in linea teorica andrebbe distinta l’ipotesi del contratto certificato dalla sua esecuzione nel senso che ad un contratto di appalto certificato perché in linea astratta soddisfacente tutti i requisiti di legge potrebbe far seguito una sua applicazione pratica difforme dall’archetipo legislativo, come peraltro previsto dagli articoli 75 ss. del d.lgs. n. 276 del 2003. Se detta ultima circostanza si fosse verificata nel caso concreto – fermo restando che, ancora una volta, dal testo dell’ordinanza non è possibile ricavare alcun indizio a riguardo – il rilievo dell’assistenza legale in sede di certificazione si sarebbe senz’altro scolorito, posto che in tal caso la realtà si sarebbe imposta sull’osservanza formale dei requisiti di legge.
 
Al pari degli indizi, tre sono le riflessioni conclusive che l’ordinanza ispira. La prima riguarda la tenuta, a distanza di quasi un ventennio, della formulazione dell’articolo 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, in relazione agli esposti presupposti fondativi un appalto genuino e discretivi il medesimo dalla somministrazione.
 
La seconda osservazione, nient’affatto scontata al pari della precedente, afferisce all’indefettibilità di detti elementi che vanno tenuti presenti ed indagati, tanto in fase di eventuale certificazione del contratto quanto in esito giudiziario – se del caso preceduto da un controllo da parte degli ispettori del lavoro – al fine di acclarare quantomeno l’esistenza di un negozio giuridico conforme alla voluntas legis.
 
Infine, la certificazione dei contratti in cui è dedotta una prestazione di lavoro costituisce un efficace strumento di regolamentazione del mercato del lavoro, e conseguente selezione di affidabili partners commerciali, a patto – va da sé – di osservare i presupposti normativi e di compiere una scrupolosa indagine sul merito dell’accordo negoziale sottoposto al vaglio di conformità.
 
Giovanna Carosielli 

Funzionario ispettivo ITL Bologna*

@GiovCarosielli
 
*Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.

Tre indizi fanno una prova (per l’apprezzamento di un appalto genuino)
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