Territori, digitalizzazione e lavoro agile: il caso del Friuli-Venezia Giulia

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 19 aprile 2022, n. 15
 
Lo scorso 11 aprile, il Laboratorio Lavoro (Dipartimento di Scienze Giuridiche) dell’Università degli Studi di Udine ha organizzato il webinarTrasformazione digitale e lavoro agile” (reperibile qui): una importante occasione per riflettere – anche in chiave interdisciplinare – sulla digitalizzazione del lavoro e sulle relative potenzialità nel (e per il) territorio del Friuli-Venezia Giulia.
 
All’introduzione della Professoressa Marina Brollo, Coordinatrice scientifica dell’evento, hanno fatto seguito i saluti istituzionali del Magnifico Rettore dell’Università di Udine, Professor Roberto Pinton, della Direttrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Professoressa Elena D’Orlando, e dell’Assessora regionale al lavoro, formazione, istruzione, ricerca, università e famiglia, Alessia Rosolen. La parola è poi passata al Direttore della sede di Trieste della Banca d’Italia, Marco Martella, che, in veste di moderatore dell’incontro, ha, sin da subito, presentato il rapporto tra le trasformazioni digitali in atto e il lavoro da remoto (latamente inteso), illustrando altresì le domande a cui il dibattito avrebbe tentato di dare risposta: qual è il grado di digitalizzazione del Friuli-Venezia Giulia? Quanto incide la digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro? Come agisce la digitalizzazione sullo smart working e sulle professionalità dei lavoratori agili?
 
La prima questione, affrontata dal dottor Andrea Benecchi (ricercatore presso la Divisione analisi e ricerca economica territoriale della sede triestina della Banca d’Italia), è stata la digitalizzazione, quale fattore abilitante per introdurre (stabilmente) il lavoro da remoto nei contesi di impiego. La relazione si è sviluppata attraverso l’accurata analisi di una indagine empirica promossa della stessa Banca d’Italia, volta a misurare il livello di digitalizzazione del Friuli-Venezia Giulia.
 
Come chiarito dal dottor Bennecchi, nella ricerca sono stati adottati i parametri comunemente applicati dalla Commissione Europea per il calcolo del “Digital Economic and Society Index (DESI)” dei singoli Stati membri dell’Unione. Sul punto, giova ricordare come, al fine di monitorare il grado di digitalizzazione di un determinato Paese, il DESI prenda in considerazione diversi indicatori, quali: i) il livello di competenze digitali della popolazione interessata (c.d. “capitale umano”), ii) il livello di connettività del territorio, iii) l’integrazione delle tecnologie digitali, iv) la digitalizzazione dei servizi pubblici e v) la ricerca e sviluppo per quanto riguarda le tecnologie informatiche.
 
Lo studio condotto dalla Divisione triestina della Banca d’Italia ha, anzitutto, evidenziato il generale ritardo del grado di digitalizzazione italiano rispetto al resto dell’Europa.
 
Volgendo l’attenzione alla Regione oggetto dell’analisi, è stato rilevato come il Friuli Venezia-Giulia si collochi solamente intorno alla metà della classifica nazionale. Ciononostante, isolando alcuni parametri dell’indice, il dottor Bennecchi ha osservato come il Friuli-Venezia Giulia tenda a posizionarsi in modo significativamente differente rispetto alla media italiana: se la conformazione geografica del territorio rende complesso il raggiungimento di un grado soddisfacente di copertura della rete internet, i dati relativi al livello di competenze digitali della popolazione risultano particolarmente positivi.
 
Per quanto concerne poi il lavoro agile, l’indagine ha mostrato che il crescente ricorso all’istituto da parte dei lavoratori friulani nel 2020 (12,3%) è risultato inferiore rispetto alla media nazionale in quasi tutti i comparti. Tuttavia, con specifico riguardo alle caratteristiche dei prestatori che hanno lavorato più frequentemente da remoto durante il primo anno dell’emergenza, le risultanze dell’indagine sono apparse perfettamente in linea con gli studi che si sono occupati del fenomeno su scala nazionale (cfr., per tutti, D. Depalo, F. Giorgi, Il lavoro da remoto in Italia durante la pandemia: i lavoratori del settore privato, Banca d’Italia, Note Covid-19, 2021): l’archetipo del lavoratore agile nel 2020 è una donna, con un elevato titolo di studio, impiegata in una grande azienda del settore dei servizi ovvero presso una pubblica amministrazione.
 
Il dottor Andrea Benecchi ha concluso segnalando come le ambizioni del recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) lascino comunque sperare in una inversione di tendenza rispetto al digital divide italiano (e friulano), da realizzarsi con investimenti mirati sulle imprese, sulle persone e sul miglioramento delle competenze digitali.
 
I temi della digitalizzazione e del lavoro da remoto, da una prospettiva gestionale e organizzativa, sono stati ulteriormente approfonditi grazie al contributo della Professoressa Francesca Visintin, ordinaria di Organizzazione Aziendale presso l’Ateneo friulano. L’intervento si è concentrato sui profili organizzativi delle trasformazioni tecnologiche in atto e, in particolare, delle modalità ibride di esecuzione della prestazione lavorativa, con l’idea di comprendere quali siano i benefici per imprese e lavoratori e quali siano le condizioni organizzative per ottenere, al meglio, tali vantaggi.
 
La Professoressa Visintin ha illustrato come la transizione digitale – benché, in Italia, ancora in fase embrionale – stia favorendo l’emergere di nuove forme di organizzazione, auspicabilmente in grado di recuperare competitività sul mercato. Seppur, nel nostro Paese, si lavori (quantitativamente) più che in altri, i livelli di produttività sono assai più bassi della media mondiale, complici anche le ridotte dimensioni delle imprese (che ostacolano il raggiungimento di economie di scala), gli scarsi investimenti nel digitale e la generale insoddisfazione dei lavoratori.
 
In questo scenario, le tecnologie rappresentano certamente un mezzo idoneo a snellire le ridondanze e ottimizzare i tempi di lavoro, nonché a ottenere una importante massa critica di dati, per poter valutare efficacemente i processi e l’operato dei prestatori.   A parere della Professoressa Visintin, però, il vero valore aggiunto risiede nella possibilità di abbandonare un approccio alle risorse umane di tipo paternalistico – che non permette ai lavoratori di usare la propria creatività e di metterla al servizio dell’azienda – abbracciando, al contrario, una gestione tesa ad aumentare la soddisfazione dei lavoratori e, di conseguenza, la loro produttività.
 
In questa direzione, è stato poi chiarito come lo smart working possa costituire una leva per motivare e responsabilizzare il personale e, laddove correttamente disegnato, anche un efficace strumento di retention dei talenti e di incremento della competitività aziendale. Interessante, a tal proposito, il richiamo al Job Characteristics Model di J. R. Hackman e G. R. Oldham (descritto all’interno di Motivation through the design of work: test of a theory, Organizational Behaviour and Human Performance, 1976, 16 (2), pp 250-279), volto a evidenziare quali siano i fattori utili ad aumentare il livello di motivazione dei lavoratori durante la loro attività professionale.
 
La Professoressa Visintin ha, così, dimostrato che i fattori inseriti all’interno del modello, quali la varietà delle mansioni da svolgere, la possibilità di contribuire agli obiettivi aziendali, gli elevati livelli di autonomia e la ricezione di puntuali feedback sulle proprie attività siano, a tutti gli effetti, comuni alla filosofia manageriale dello smart working, così come descritta dalla letteratura organizzativa prevalente.
 
La relazione conclusiva, tenuta dalla Professoressa Marina Brollo, ordinaria di Diritto del Lavoro nell’Università di Udine, si è incentrata, infine, sugli aspetti prettamente giuslavoristici e di relazioni industriali attinenti al lavoro da remoto (in prospettiva, oltre l’emergenza). L’idea è stata quella di rileggere le lezioni apprese dall’esperienza pandemica, al fine di comprendere come il mondo del lavoro stia cambiando e, in particolare, come debba cambiare, per rispondere efficacemente alle (mutate) esigenze di prestatori, imprese e territori.
 
Dopo una breve rassegna dei molteplici istituti ascrivibili allo smart working presenti nell’ordinamento nazionale, consapevole della confusione terminologica e concettuale, la Professoressa Brollo ha sostenuto l’esigenza di una regolamentazione organica, sì da delimitare i confini delle singole fattispecie, considerato che le caratteristiche di tali modalità di esecuzione della prestazione[1] concorrono a rendere maggiormente sfumati i confini tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. È stata, poi, ravvisata un’ulteriore distinzione tra i rapporti di lavoro che, in corso di esecuzione, mutano verso l’agilità (in forma alternata) e i rapporti che, invece, nascono e si sviluppano a distanza, focalizzando l’attenzione sui secondi, quale leva per attrarre e trattenere risorse umane ritenute preziose (financo sulla scorta delle recenti previsioni fiscali in materia di c.d. nomadi digitali).
 
Successivamente, sono stati ricostruiti i profili derogatori, emersi nelle diverse fasi della contingenza pandemica, della disciplina generale sul lavoro agile (artt. 18 e ss., L. n. 81/2017), rilevando, in questo, come la legislazione di calamità abbia celato l’importanza degli accordi individuali, destinati a (ri)affiorare nella trama disegnata dalla contrattazione collettiva, a cui il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile affida un ruolo cruciale.
 
Del pari, la Professoressa Brollo ha chiarito come la diffusione su larga scala dello smart working stia comportando un evidente mutamento di paradigma circa la professionalità dei lavoratori, allorché, oltre al dove e al quando, sta cambiando anche il come si lavora. Un indizio della trasformazione del concetto di professionalità per i lavoratori agili è stato rintracciato all’interno della stessa normativa emergenziale. Come è noto, l’art. 39, D.L. n. 18/2020 prevedeva che, sino al termine dello stato di emergenza, i c.d. lavoratori “fragili” (ossia quei prestatori maggiormente esposti al rischio di contagio, sia per ragioni personali, sia per ragioni familiari) disponessero di un vero e proprio diritto all’agilità: laddove l’adibizione a tale modalità di lavoro non si rendesse possibile, gli stessi avrebbero dovuto essere assegnati a mansioni diverse, ricomprese nella stessa categoria o area di inquadramento, così come definita dai contratti collettivi vigenti, ovvero allo svolgimento di specifiche attività di formazione (art. 26, c. 2-bis, D.L. n. 18/2020).
 
Proprio quest’ultima disposizione, benché, a oggi, non più in vigore, causa la cessazione dello stato di emergenza, è stata interpretata quale sintomo di un potenziale ampliamento del concetto di professionalità dei lavoratori agili, per la definizione del quale la contrattazione collettiva – mezzo principe nella definizione delle categorie e dei sistemi di inquadramento – giocherà un ruolo fondamentale. Se, quindi, da un punto di vista formale, lo stato di calamità è terminato, nel concreto, le fragilità permangono e, con queste, le esigenze di tutela dei soggetti vulnerabili. Pertanto, le criticità connesse agli impatti di lungo periodo del Covid-19 dovranno essere intercettate dal legislatore (auspicabilmente, in sede di conversione del D.L. n. 24/2022), ovvero dalle parti sociali, tenendo conto altresì di come la recentissima modifica dell’art. 41, c. 2, Cost. statuisca che la libertà di impresa non può recare danno, non solo alla sicurezza, alla libertà e alla dignità delle persone, ma anche alla salute (individuale e collettiva) e all’ambiente (interno ed esterno).
 
La chiave di lettura proposta dalla Professoressa Brollo aiuta, allora, a riflettere su come il nodo centrale della digitalizzazione risieda nelle modalità con cui questa trasforma i rapporti e, soprattutto, i contenuti del lavoro, da comprendere pienamente al fine di apprestare opportuni accomodamenti, ragionevoli e sostenibili.
 
La varietà delle relazioni descritte mette in evidenza come l’incontro organizzato dal Laboratorio Lavoro dell’Università di Udine costituisca un ottimo esempio di come le ricerche del mondo accademico e istituzionale possano fruttuosamente convergere, per indicare la strada da percorrere nella gestione dei processi di trasformazione del lavoro, a beneficio di persone, imprese e territori.
 
[1] In particolare, è stato osservato come gli elevati livelli di autonomia e di flessibilità spazio-temporale caratterizzanti tali forme di lavoro, nonché il fatto che l’adempimento della prestazione non sia valutato meramente tramite la misurazione del tempo di lavoro, ma in funzione del raggiungimento di determinati obiettivi, tendano ad assottigliare la linea di confine tra autonomia e subordinazione.
 

Massimiliano De Falco

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@M_De_Falco
 
Diletta Porcheddu

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@DPorcheddu

Territori, digitalizzazione e lavoro agile: il caso del Friuli-Venezia Giulia
Tagged on: