Salute, sicurezza e pandemia da COVID-19: un quadro legale

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Bollettino ADAPT 26 aprile 2023, n. 16
 
Il Rapporto dell’ILO “OSH and Covid Pandemic: a legal analysis”, oggetto del presente commento, fornisce un quadro delle misure adottate dagli Stati del mondo per la gestione della pandemia da covid 19 – in relazione all’obiettivo di tutela della salute dei lavoratori – e fornisce una valutazione anche del metodo utilizzato per l’adozione delle misure stesse.È noto che tutti i Paesi del mondo hanno dovuto adattare rapidamente le proprie politiche, sistemi e programmi di organizzazione della salute e sicurezza per affrontare il COVID-19. Purtroppo, i processi metodici e deliberativi previsti dalle Convenzioni dell’ILO n. 155 e n. 187 non sono stati pienamente applicabili nelle condizioni di emergenza causate dal virus. Oltre alla necessità di agire rapidamente, diverse circostanze hanno impedito una risposta efficace.
 
In primo luogo, i quadri in materia di tutela della salute e sicurezza non erano generalmente ben preparati a fronteggiare una pandemia. Sebbene fossero state prese in considerazione misure di sanità pubblica sulla scia delle epidemie di influenza suina, Ebola e Zika, queste non si estendevano alla sicurezza e alla salute sul lavoro. In Italia, poi, ad esempio, il Piano nazionale per le malattie respiratorie non veniva aggiornato dal 2006 (ne è stato formulato uno nuovo nel 2021).Il Giappone ha adottato misure, tra cui lo stoccaggio di DPI, per far fronte alle pandemie, dopo l’epidemia di influenza suina nel 2009. Ha anche approvato un’importante legge – la legge sulle misure speciali contro la nuova influenza del 2012. Questo intervento normativo inizialmente non copriva il COVID-19, ma è stato modificato nel marzo 2020 per comprenderlo temporaneamente. Altri paesi, invece, avevano un quadro giuridico direttamente applicabile. Il Brasile aveva una norma di regolamentazione che si occupava di attività malsane inclusa l’esposizione a virus.  La California (ma non gli Stati Uniti federali) aveva uno standard preesistente relativo alle malattie trasmesse per via aerea, su cui si è basata per redigere una specifica misura relativa al COVID-19 che garantiva ampia copertura e affrontava anche questioni come la necessità della ventilazione.
 
2. In tutte le giurisdizioni, c’è stata un’ondata di misure legali e amministrative in risposta alla pandemia; si è trattato spesso di provvedimenti provvisori, emessi da più autorità. Questa ondata era forse inevitabile, ma non sempre ha prodotto una struttura coesa e globale per affrontare il COVID-19 che riducesse al minimo la confusione pubblica.I paesi con sistemi di salute e sicurezza decentralizzati erano particolarmente a rischio di risposte incoerenti e caotiche. Con il progredire della pandemia, i paesi hanno iniziato a sviluppare nuove leggi complete per consolidare le lezioni apprese dalle misure temporanee.
 
La maggior parte delle giurisdizioni ha resistito a classificare sistematicamente il COVID-19 come malattia professionale ai fini generali del diritto in materia di salute e sicurezza sul lavoro. L’elenco delle malattie professionali dell’ILO non è stato rivisto dal 2010 e quindi non include il COVID-19.  Per quanto riguarda gli Stati, La Cina ha una legge autonoma sulla prevenzione e il controllo delle malattie professionali che fornisce un quadro completo per la diagnosi, la segnalazione, la formazione, i servizi di medicina del lavoro e -cosa più importante- l’azione sistematica sul posto di lavoro per valutare il potenziale rischio di malattie e per prevenirle (anche tramite DPI). Nei casi in cui a un lavoratore venga diagnosticata una malattia professionale, questi ha diritto all’indennità e alla riabilitazione.
 
Tuttavia, al momento in cui scriviamo, il COVID-19 non è stato classificato come malattia professionale ai fini della legge. Le misure relative al COVID-19 hanno invece assunto la forma di ampie linee guida emanate dal Consiglio di Stato con scarso o nessun riferimento alla legge.La Commissione Europea si sta muovendo per aggiornare la sua Raccomandazione sulle malattie professionali e per riconoscere il COVID-19 nella “assistenza sanitaria e sociale e, in un contesto pandemico, nei settori in cui vi è un focolaio in attività a comprovato rischio di infezione». La Spagna, come molti altri Stati membri, ha già classificato il COVID-19 come una malattia per quanto riguarda gli operatori sanitari e di assistenza agli anziani. L’Italia ha adottato una misura simile sia per il personale sanitario che per quello non sanitario operante in ambito sanitario. Sviluppi simili si stanno verificando al di fuori dell’UE. In Colombia, il COVID-19 è ora considerato una malattia professionale per quanto riguarda i lavoratori del settore sanitario. La legislazione californiana contiene ora la presunzione che il COVID-19 sia correlato al lavoro ai fini della compensazione dei lavoratori.
 
Poiché il COVID-19 sembra essere endemico e avere conseguenze a lungo termine per molte persone, e poiché i numerosi pacchetti di assistenza finanziaria temporanea sono scaduti, sembra opportuno rivedere la questione della classificazione e considerare se comprendere nella tutela tutti i lavoratori che svolgono lavori in settori critici, e non solo gli operatori sanitari. Nei paesi con dati disponibili, i tassi di morbilità sono stati più alti tra i lavoratori dei trasporti e elevati anche per i lavoratori del commercio al dettaglio, oltre agli operatori sanitari. Pertanto, la situazione di questi altri lavoratori potrebbe essere alleviata classificando il COVID-19 come malattia professionale. Negli Stati Uniti, un numero sproporzionatamente elevato di lavoratori in settori critici, specialmente in settori come l’assistenza personale, sono immigrati e persone di colore che hanno svolto lavori poco pagati e in cattive condizioni. Questi lavoratori, che spesso avevano un’assicurazione sanitaria inadeguata, hanno registrato tassi particolarmente elevati di infezione da COVID-19.
 
In Spagna, mentre misure speciali sono state rivolte a determinati lavoratori vulnerabili (immunocompromessi, donne incinte e lavoratori anziani), lo status di lavoro temporaneo di molti di loro, anche nel settore pubblico, ha minato la formazione sistemica e la partecipazione ai sistemi di salute e sicurezza. In un focolaio in un aeroporto cinese, le lavoratrici interinali delle zone rurali sono state infettate in modo elevatissimo.  Nella Repubblica di Corea, i lavoratori immigrati poveri e clandestini e i lavoratori impegnati per orari di lavoro estremamente lunghi hanno avuto difficoltà ad accedere alla sanità pubblica. Anche gli immigrati (soprattutto in agricoltura) si sono rivelati una categoria particolarmente vulnerabile in Italia, così come i lavoratori dell’orticoltura in RuandaE in generale i lavoratori delle imprese più piccole sono stati più vulnerabili perché tali imprese non disponevano dell’infrastruttura a tutela della salute e sicurezza di cui disponevano invece le imprese più grandi (come il personale con formazione medica e i comitati di salute e sicurezza di gestione dei lavoratori).
 
3. Almeno nei primi giorni della pandemia, le imprese e i lavoratori hanno affrontato notevoli sfide nel determinare quali misure preventive si dovessero applicare nei loro luoghi di lavoro. L’esatta natura del virus e la minaccia che esso ha imposto sono emerse solo nel corso del 2020-2021; Non è stato quindi possibile per le imprese e i lavoratori determinare da soli e da subito le migliori forme di protezione contro la pandemia di COVID-19 attraverso i consueti processi di valutazione dei rischi e di consultazione. Dal punto di vista della gerarchia in linea di principio dei controlli, l’incapacità di attuare misure di minimizzazione del danno, in particolare nei primi giorni della pandemia quando i vaccini non erano disponibili, suggerisce che le imprese avrebbero dovuto adottare una strategia di eliminazione, come la cessazione delle operazioni fino a quando i DPI non fossero stati disponibili. Tuttavia, per i lavoratori in prima linea, come gli operatori sanitari e gli autisti dei trasporti, che avevano bisogno di mantenere le società in funzione, questo non era fattibile.  Sfortunatamente, questo ha significato che in molti paesi un numero enorme di lavoratori in prima linea è stato infettato dal virus. Come accennato in precedenza, poiché una piena comprensione della natura della malattia non è emersa fino a diversi mesi dall’inizio della pandemia, le raccomandazioni date inizialmente sono risultate contraddittorie. In Spagna, le raccomandazioni inizialmente adottate di non sottoporre a test gli operatori sanitari con sintomi assenti o lievi si sono rivelate errate e hanno dovuto essere riviste. C’erano delle eccezioni: in Cina, linee guida del Consiglio di Stato abbastanza complete dirette alla valutazione del rischio e alla prevenzione dei pericoli sono state prodotte all’inizio del la pandemia ma anche lì, queste misure non si estendevano alla classificazione del COVID-19 come malattia professionale.
 
Con il progredire della pandemia, i paesi hanno gradualmente iniziato a definire misure relative ai principi di prevenzione e alla gerarchia dei controlli. In Spagna, ad esempio, a metà del 2020 il ministero della Salute è andato strutturando attentamente le sue linee guida per il COVID-19 attorno a concetti familiari come la gestione del rischio e le procedure di notifica appropriate. In Brasile, nel 2020 sono state adottate due leggi abbastanza complete che hanno chiarito una serie di questioni che affliggevano molte giurisdizioni: le mascherine sono state definite DPI e quindi da fornire gratuitamente; e i lavoratori della sanità e dei trasporti sono stati rapidamente identificati come gruppi prioritari. Tuttavia, permangono ancora alcune incertezze e appare necessario un nuovo testo unico che comprenda le disposizioni in corso.
 
Un’ulteriore questione riguarda la forma giuridica delle norme in materia di salute e sicurezza in caso di pandemia. Questa variavano da raccomandazioni e suggerimenti a norme esecutive delegate. In molti paesi si è preferito che le misure fossero provvisorie e sotto forma di comunicazioni consultive e materiale di orientamento. Tali comunicazioni relative al COVID spesso non erano giuridicamente vincolanti, o potevano avere solo conseguenze legali limitate, contrariamente a un decreto o a una norma statutaria.L’ovvio rischio delle misure non vincolanti è che possono essere semplicemente ignorate, a meno che non vi sia una forte pratica nazionale di adempimento delle misure, come nel caso del Giappone. A lungo termine sembrerebbero necessari standard vincolanti permanenti, in combinazione con materiale di orientamento complementare.
 
Abbiamo visto che il diritto di allontanarsi da una situazione pericolosa è stipulato nella Convenzione dell’ILO n. 155. La misura in cui questo diritto può essere esercitato nel contesto del COVID-19 ha preoccupato le autorità di regolamentazione e i tribunali in molti paesi. Nel Regno Unito, la normativa pertinente è stata modificata per rafforzare il diritto del lavoratore a non essere soggetto a pregiudizio a causa dell’esercizio del diritto. Tuttavia, i tribunali del Regno Unito hanno ritenuto che la mera esistenza della pandemia non sia sufficiente a giustificare un rifiuto di lavorare se il rischio non è ragionevolmente legato alla natura del posto di lavoro; pertanto un lavoratore potrebbe non essere in grado di rifiutarsi di lavorare, se il datore di lavoro ha istituito adeguate misure di sicurezza contro il COVID-19.
 
Uno dei problemi più rilevanti durante la pandemia da COVID 19 è stato rappresentato dalla attuazione del metodo del tripartitismo. In diverse giurisdizioni in cui erano in atto procedure tripartite per la consultazione sulla nuova regolamentazione in materia di salute e sicurezza, queste sono state aggirate, apparentemente a causa dell’urgenza di rispondere alla pandemia. Ciò è avvenuto in Brasile, ad esempio, e anche in Cina, dove il Consiglio di Stato ha agito senza invocare la legge sulle malattie professionali con i suoi meccanismi tripartiti. In alcuni casi, i lavoratori hanno intrapreso azioni di sciopero per sollecitare l’assistenza del governo; ciò è avvenuto nella Repubblica di Corea quando i corrieri sindacalizzati hanno scioperato a sostegno della riduzione dell’orario di lavoro. Un’eccezione è stata l’Italia, dove all’inizio del 2020 sono stati conclusi protocolli nazionali “anti-contagio” tra le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori e il governo. Nel Regno Unito, il National Health Service Staff Council, che ha rappresentanti sia delle imprese, sia dei sindacati, ha pubblicato ampio materiale sulla gestione del rapporto di lavoro durante il COVID.
 
In Spagna, un nuovo quadro normativo per il lavoro da casa è stato concluso dopo discussioni tripartite e implementato attraverso l’autorità di regolamentazione nazionale per la salute e sicurezza. Il ministero cinese delle risorse umane e della previdenza sociale ha incoraggiato un ruolo attivo per i sindacati a livello aziendale su questioni come il ritorno al lavoro dei dipendenti e l’estensione dell’orario di lavoro. E in Australia c’è stata per un certo tempo la cooperazione tra governo, imprese e sindacati sulle modifiche alle condizioni di lavoro e il tribunale nazionale ha reso obbligatorio il dialogo sociale su questioni come l’obbligo dei vaccini.
 
Nel Regno Unito ad esempio, è stato evidente che il coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori ha contribuito a definire migliori misure per fronteggiare il COVID. Tuttavia la pandemia ha anche rivelato le fragilità del metodo collaborativo ed è sicuramente opportuno rivedere il suo funzionamento per garantire una migliore operatività di questo metodo anche nei tempi di crisi.
 
Paola de Vita

ADAPT Professional Fellow

Salute, sicurezza e pandemia da COVID-19: un quadro legale