Salari, costo del lavoro, tutela del potere di acquisto dei lavoratori: verso una buona legge di bilancio?
| di Giorgio Impellizzieri, Silvia Spattini, Michele Tiraboschi
Bollettino ADAPT 20 ottobre 2025, n. 36
«La dinamica salariale negativa dell’ultimo decennio vede ora segnali di inversione di marcia. Ben sappiamo come i salari siano stati lo strumento principe nel nostro Paese per ridurre le disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso. È una questione che non può essere elusa perché riguarda in particolare il futuro dei nostri giovani, troppi dei quali sono spinti all’emigrazione». Sono le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della cerimonia al Quirinale per la consegna delle Stelle al Merito del Lavoro 2025.
Di estremo interesse è allora valutare se la manovra di bilancio per il 2026 si sia fatta carico di aggredire la questione salariale ad integrazione e completamento di quanto già previsto dalla legge delega, approvata dal Senato lo scorso 23 settembre, che affida al Governo un robusto pacchetto di deleghe in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva tra cui la questione dei ritardi nei rinnovi contrattuali e le misure economiche di sostegno alla contrattazione decentrata di produttività (vedi M. Tiraboschi, Le deleghe su salari e contrattazione collettiva tra analisi tecnica e valutazione politica, in Bollettino ADAPT del 6 ottobre 2025, n. 34). Ed infatti, nonostante gli indubbi miglioramenti del quadro complessivo dei rinnovi contrattuali degli ultimi anni, le tensioni inflazionistiche che hanno caratterizzato il triennio 2022-2024 hanno determinato una perdita del potere d’acquisto stimata intorno al 7% (si veda J. Sala, S. Spattini, La (lenta) ripresa delle retribuzioni contrattuali, Working Paper ADAPT, n. 1/2025).
Dalla conferenza stampa di presentazione della manovra dello scorso venerdì 17 ottobre emerge in effetti l’intenzione del Governo di introdurre, per il prossimo anno, un regime fiscale agevolato per gli aumenti retributivi stabiliti con il rinnovo dei contratti collettivi nazionali e per i redditi derivanti dalla contrattazione di produttività. In particolare, al fine di «intervenire sul lavoro povero, cioè sui redditi più bassi, stimolando i rinnovi contrattuali», si prevede, una aliquota fiscale ridotta al 5%, a favore dei lavoratori con redditi fino a 28.000 euro, sugli aumenti retributivi stabiliti con il rinnovo dei contratti collettivi nazionali. Dall’altro lato, si delinea una nuova riduzione dell’aliquota sostitutiva applicata ai premi di risultato, dal 5% all’1%, fino ad un importo massimo che passerebbe da 3.000 a 5.000 euro.
In uno scenario di diffusa perdita del potere di acquisto, ogni intervento di sostegno ai salari è indubbiamente da valutare in termini positivi, come fanno, in parte, le stesse organizzazioni sindacali, in particolare Cisl e Uil ma anche Cgil ha parlato di “buone notizie”(si veda: Manovra, Landini, “buona notizia” la detassazione dei rinnovi contrattuali, la priorità assoluta è aumentare salari e pensioni, in Il diario del lavoro, 16 ottobre 2025). Per comprendere l’impatto e la reale portata delle misure prospettate dal Governo, pare in ogni caso necessario svolgere qualche ulteriore considerazione.
Rispetto alla incentivazione dei rinnovi contrattuali è chiara l’intenzione del Governo di far fronte a una delle criticità emerse ad inizio legislatura, quando al centro del dibattito pubblico e di quello politico dominava la proposta promossa dai partiti di opposizione di una legge per la fissazione del salario minimo legale; questo anche in ragione dei notevoli ritardi accumulati nel rinnovo di alcuni dei contratti di maggiore applicazione, in particolare quelli del terziario di mercato relativi a milioni di lavoratori.
Tuttavia, se guardiamo ai dati più recenti la situazione è profondamente cambiata, fatta eccezione per il settore pubblico dove i ritardi al 31 dicembre 2024 sono stati mediamente di 36 mesi. Nel settore privato, sempre al 31 dicembre 2024, i ritardi nei rinnovi erano invece stimati in 4 mesi di media. Non una emergenza, dunque.
Una fotografia più aggiornata dell’indice di tensione contrattuale (numero di lavoratori scoperti e mesi di ritardo nei rinnovi) si può avere dalle periodiche rilevazioni di ISTAT sulle retribuzioni contrattuali e, soprattutto, dall’archivio nazionale dei contratti del CNEL che pure non segnalano, allo stato, particolari criticità fatta eccezione, come vedremo, per il caso della metalmeccanica.
Tra i 46 contratti nazionali più grandi (quelli che si applicano a più di 50.000 dipendenti) solo 7 risultano già scaduti e 4 arriveranno a scadenza entro la fine del 2025. Tra questi ultimi figurano i contratti della gomma-plastica (codice B371), del settore socio-assistenziale (T141), del legno-arredo (F051) e delle cooperative sociali (T151), che interessano 465.328 lavoratori. Sono invece 2.645.705 i dipendenti coperti da contratti già scaduti: tra i principali figurano quelli dell’industria metalmeccanica (C011) e della piccola e media industria meccanica (C018), dei servizi ambientali (T011), delle imprese artigiane di pulizia (K521), delle farmacie private (H121), dell’industria della carta (G022) e delle assicurazioni (J121).
Il numero di lavoratori interessati non è certamente residuale ma il quadro è più sfaccettato di quanto sembri. Il dato aggregato, infatti, è fortemente condizionato dal peso della metalmeccanica, il secondo contratto collettivo più applicato in Italia dopo quello del commercio, le cui trattative sono in corso proprio in queste settimane – e forse persino rallentate in attesa di un chiarimento dei contenuti della legge di bilancio. Inoltre, molti contratti formalmente scaduti sono dotati di meccanismi di salvaguardia del potere d’acquisto che consentono adeguamenti più o meno automatici in base all’inflazione, come nel caso dei CCNL dell’industria del legno e della metalmeccanica (vedi M. Tiraboschi, La contrattazione collettiva alla prova dell’inflazione, in Bollettino ADAPT, n. 25/2025). In altre categorie, ad esempio nella piccola e media industria metalmeccanica, le parti sociali hanno siglato intese di natura esclusivamente economica, volte ad aggiornare i minimi retributivi senza rivedere l’intero testo contrattuale.
Tutti questi elementi ridimensionano l’allarme sul presunto “blocco” dei rinnovi e, pertanto, rendono meno urgente la necessità di misure specifiche di incentivazione, che ben potevano essere invece dirottate sul livello decentrato che ancora non registra tassi di copertura adeguati tanto a livello aziendale che territoriale. Anche i dati ISTAT, secondo cui circa la metà dei lavoratori dipendenti sarebbe coperta da contratti scaduti, vanno interpretati con cautela poiché risentono fortemente, come detto, delle criticità croniche del settore pubblico.
Occorre in ogni caso precisare che la misura della detassazione degli aumenti contrattuali riguarderà sia i rinnovi che saranno sottoscritti nel 2026, sia quelli già firmati nel 2025 (allo stato, se si contano i soli contratti firmati da organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative, sono stati rinnovati nel corso dell’anno ben 44 CCNL). Questo chiarimento consente di superare le criticità evidenziate alla luce delle prime informazioni circolate sulla misura, in particolare il rischio di escludere i rinnovi sottoscritti nel 2025, che avrebbe innescato strategie attendiste anche nelle trattative in stato più avanzato.
Tale intervento rappresenta certamente un sostegno ai redditi più bassi, anche se l’effetto sui salari reali è minimo, poiché riguarda soltanto gli incrementi retributivi tabellari, quindi quote ridotte della retribuzione complessiva (come abbiamo cercato di chiarire in F. Alifano, M. Dalla Sega, F. Lombardo, G. Piglialarmi, S. Spattini, M. Tiraboschi, Salari minimi contrattuali: contributo per una verifica empirica, in Professionalità Studi, n. 2, 2023), peraltro solo con riguardo alla tranche erogata nell’anno 2026. Più difficilmente può essere ricondotto all’obiettivo dichiarato di «intervenire sul lavoro povero», poiché tale misura non affronta le cause strutturali del fenomeno, riconosciute nella scarsa intensità (numero limitato di ore di lavoro) e continuità del lavoro (pochi mesi di lavoro in un anno) (si veda S. Spattini, Verso un piano di azione nazionale a sostegno della contrattazione collettiva?, in Bollettino ADAPT, 9 ottobre 2023, n. 34).
Invero, un intervento così configurato rischia di produrre disomogeneità di trattamento, se non vere iniquità. Restano infatti esclusi dalla tassazione ridotta i lavoratori coperti da CCNL rinnovati negli anni precedenti che, peraltro, appartengono in larga parte ai settori del terziario (commercio, pubblici esercizi, turismo, ecc.), mentre ne beneficeranno i settori industriali, notoriamente “più ricchi” e con aumenti contrattuali più generosi (metalmeccanica, chimica, gomma-plastica, legno-arredo sono solo alcuni tra i contratti collettivi da poco rinnovati o prossimi al rinnovo).
Occorre inoltre considerare il profilo applicativo e gestionale di tali misure. Benché i software per l’elaborazione delle buste paga possano essere adeguatamente aggiornati per gestire la detassazione, si ipotizza un significativo aggravio procedurale a carico dei consulenti e degli addetti all’amministrazione del personale, chiamati a effettuare ulteriori verifiche, adempimenti e aggiornamenti normativi. Basti pensare al caso dello sforamento a fine anno della soglia dei 28.000 euro, che comporterebbe la necessità di conguagli sulla tassazione degli elementi oggetto di detassazione.
Non presenta queste difficoltà procedurali, se non altro perché già presente nell’ordinamento, l’agevolazione fiscale relativa all’aliquota sostitutiva applicata ai premi di risultato ai sensi della legge di bilancio per il 2016.
La novità, in questo caso, è rappresentata dalla riduzione dal 5% all’1% dell’aliquota e dall’innalzamento del limite da 3.000 a 5.000 euro. Questo significa che la misura può produrre, su un premio di risultato di 5.000 euro (la cifra massima) un prelievo fiscale di soli 45,4 euro di Irpef, invece di 227 euro.
Tuttavia, la criticità è rappresentata ancora una volta dal carattere selettivo della misura, poiché soltanto una minoranza di lavoratori è coperta da contratti aziendali di produttività. Inoltre, nonostante tale tipologia di misura sia applicata da 10 anni, manca di fatto un adeguato monitoraggio qualitativo rispetto alle risorse stanziate e all’impatto che dette misure hanno avuto in termini effettivi di maggior diffusione della contrattazione decentrata di qualità e di incremento della produttività, benché siano note le criticità relative alla disomogeneità dei territori e dei settori interessati (tanta manifattura, prevalentemente nel Nord Italia, e poco o nulla nel terziario di mercato) e al numero di aziende di coinvolte (grossomodo le stesse ogni anno) (sul punto di veda, G. Comi, M. Menegotto, J. Sala, F. Seghezzi, S. Spattini, M. Tiraboschi, Incentivi pubblici e contrattazione di produttività. Cosa emerge dai report del Ministero del lavoro (2016-2024)?, Working Paper n.10/2025, ADAPT University Press).
L’ulteriore abbassamento dell’aliquota sostitutiva sul premio di risultato rischia anche di spiazzare l’opzione della sua conversione in welfare. La differenza tra il valore del premio di risultato conservato in toto in caso di welfarizzazione e l’importo netto che rimane al lavoratore tolti i contributi sociali e l’IRPEF all’1% diventa minima.
Diverso è l’impatto per il datore di lavoro. Nel caso di conversione del premio in welfare, il datore di lavoro non deve versare contributi sociali su quell’importo, poiché non costituisce reddito, comportandogli un risparmio di oltre il 30% l’importo del premio.
In altre parole: se il lavoratore decide di ricevere il premio di risultato in denaro, il datore di lavoro dovrà pagare i contributi sociali. La riduzione della tassazione non ha nessun vantaggio per il datore di lavoro.
Anche i c.d. bonus di conversione, ossia le quote aggiuntive di welfare riconosciute dal datore di lavoro al lavoratore in caso di conversione del premio di risultato in welfare per incentivare la welfarizzazione potranno essere scarsamente efficaci, appunto perché la differenza di valore tra ricevere il premio in busta e il controvalore in welfare diventerebbe minima.
Oltre ai mancati vantaggi in termini di costi per i datori di lavoro, l’abbassamento ulteriore dell’aliquota sostitutiva sul premio di risultato riduce la leva moltiplicatrice innescata dalla conversione del premio in welfare.
In questo quadro, se le misure fin qui descritte hanno per lo più il carattere della frammentarietà e dell’applicazione selettiva, risulta più coerente all’obiettivo, la proposta, del tutto sganciata dalle dinamiche contrattuali, di ridurre il cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori la riduzione dell’aliquota IRPEF dal 35% al 33% per lo scaglione di reddito oltre i 28.000, che segue la riduzione dell’aliquota sul primo scaglione di reddito introdotta quest’anno.
Misure strutturali e universali, anche se introdotte gradualmente, paiono infatti più adeguate a sostenere il reddito dei lavoratori, più di interventi che sembrano produrre benefici marginali e senza incidere sulle determinanti strutturali dei bassi salari.
In termini di valutazione complessiva è noto come il Governo abbia agito in un contesto di risorse alquanto limitato. Per non eludere la questione salariale, come autorevolmente richiesto dal Presidente della Repubblica, il Governo potrebbe comunque mettere in campo, a costo zero, un piano straordinario di vero sostegno alla contrattazione collettiva.
È ancora una volta il Presidente della Repubblica a indicare la strada. Sempre in occasione della cerimonia al Quirinale per la consegna delle Stelle al Merito del Lavoro 2025 Sergio Mattarella ha infatti richiamato un tema solo apparentemente tecnico ma che in realtà è tutto politico e cioè «il preoccupante fenomeno della crescita dei cosiddetti «contratti pirata», (…) contratti firmati da rappresentanze sindacali e datoriali scarsamente rappresentative, con vere e proprie forme di dumping contrattuale che hanno l’effetto di ridurre i diritti e le tutele dei lavoratori, di abbassare i livelli salariali, di provocare concorrenza sleale fra imprese».
Ora, sappiamo bene che sulla questione salariale partiti politici e sindacati marciano da lungo tempo divisi. E tuttavia, come è stato sottolineato dal Presidente del CNEL, Renato Brunetta (qui), quello del contrasto al dumping salariale e contrattuale è «un tema che deve vedere unite, e non solo a parole, tutte le forze politiche e sociali del nostro Paese” perché “non è degno di un Paese civile tollerare la prassi di contratti collettivi sottoscritti da sigle sindacali e datoriali poco o nulla rappresentative, che hanno come unica finalità quella di abbattere il costo del lavoro attraverso la riduzione del salario».
Come ADAPT abbiamo già ampiamente documentato, con riferimento alle 50 figure professionali più diffuse nel terziario di mercato le rilevanti decurtazioni salariali (tra 3.000 e 8.000 euro annui su salari con una RAL tra i 18.000 e i 25.000 euro) e i conseguenti minori contributi previdenziali e assistenziali dovuti allo Stato che si ingenerano dalla applicazione di alcuni contratti siglati da attori non rappresentativi, sul piano comparato, e che tuttavia stanno conquistando terreno in alcune aree del Paese (G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, Fare contrattazione nel terziario di mercato, ADAPT University Press, 2025, vol. I e II).
Una attenta analisi dei contratti presenti nell’archivio del CNEL consente tuttavia di capire meglio il fenomeno della proliferazione dei contratti nazionali di lavoro. Se guardiamo alla c.d. contrattazione di minore applicazione (ben 632 CCNL su poco più di 1.000) sono infatti solo 4 i contratti nazionali che vengono effettivamente applicati in dumping (vedi la mappatura contenuta in A. Feri, M. Tiraboschi, L. Venturi, La contrattazione collettiva di minore applicazione: una prima esplorazione dell’archivio dei contratti del CNEL, in CNEL, Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, n. 31/2025).
La verità è che il grosso di questi contratti non sono firmati con l’aspirazione ad una loro applicazione diffusa, ma semplicemente per ottenere “autorizzazioni” da istituzioni pubbliche ad operare in ambiti centrali per il lavoro e l’impresa come la formazione, il welfare, la sicurezza del lavoro, la vasta gamma di servizi offerti dai patronati.
Insomma, contratti corsari più che contratti pirati perché non operano nella piena illegalità ma con più o meno chiare “patenti” ottenute dallo Stato nel corso degli ultimi venti anni grazie all’appoggio di esponenti politici di varia estrazione. Tutto questo a conferma del fatto che la questione salariale, evocata autorevolmente dal Presidente Mattarella, è ampiamente nelle mani dei decisori politici a cui spetta ora decidere, al di là delle solite dichiarazioni di rito, da quale parte effettivamente stanno rispetto alle istanze di sostegno a lavoratori, famiglie ed imprese che emergono a gran voce dal Paese reale.
Assegnista di ricerca Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Ricercatrice ADAPT
Università di Modena e Reggio Emilia
Condividi su:

