Riusciremo a superare la crisi demografica? Le prospettive occupazionali del Rapporto OCSE 2025

Interventi ADAPT

| di Jacopo Sala, Martina Zaccaria

Bollettino ADAPT 21 luglio 2025, n. 28

L’Employment Outlook dell’OCSE di quest’anno dedica particolare attenzione al tema della transizione demografica e al suo impatto sul mercato del lavoro. L’analisi condotta dall’organizzazione evidenzia una dinamica demografica comune alla maggior parte dei Paesi OCSE: da un lato, si registra un aumento sempre maggiore dell’aspettativa di vita che contribuisce in modo diretto all’innalzamento dell’età mediana e accelera l’invecchiamento generale della popolazione; dall’altro, si osserva un costante calo nei tassi di fertilità, che porta a una progressiva contrazione della struttura demografica. Secondo le previsioni, entro il 2060 la popolazione in età lavorativa (20-64 anni) residente nei Paesi OCSE si ridurrà in media dell’8%, con picchi di oltre il 30% in circa un quarto di essi. Parallelamente, il tasso di dipendenza degli anziani, cioè il rapporto tra le persone di età pari o superiore a 65 anni e la popolazione in età lavorativa, pari al 31% nel 2023, aumenterà fino al 52% nel 2060, arrivando a superare addirittura il 70% in alcuni Paesi. Come evidenziato nel report, ciò significa che un numero sempre più ristretto di lavoratori dovrà sostenere economicamente una quota crescente di persone non attive: nella media dei Paesi OCSE, ogni persona in età lavorativa dovrà provvedere al proprio sostentamento e contribuire per circa il 50% al reddito di una persona anziana in pensione. Per l’Italia, le proiezioni indicano una contrazione del 24% della popolazione in età lavorativa entro il 2060 e in un contestuale incremento del tasso di dipendenza degli anziani, che salirà dal 41% a un impressionante 76%.

Secondo le stime presentate nel rapporto, se il tasso di crescita della produttività del lavoro restasse invariato, la riduzione del rapporto tra occupati e popolazione comporterebbe un calo del 40% nella crescita del PIL pro capite a livello OCSE, che passerebbe dall’1% annuo registrato nel periodo 2006-2019 allo 0,6% annuo nel periodo 2024-2060. Per l’Italia, se la produttività del lavoro non dovesse aumentare, il tasso di crescita annuo si fermerebbe intorno allo 0,67%.

Gli effetti negativi della transizione demografica su produttività e crescita economica potrebbero però essere in parte mitigati valorizzando le risorse lavorative presenti ma ancora inutilizzate – tra cui giovani, migranti, donne e lavoratori più anziani – e che rappresentano oggi l’unica leva per una crescita quantitativa dell’offerta di lavoro. In particolare, i flussi migratori potrebbero contribuire in modo significativo a contrastare l’impatto dei cambiamenti demografici sull’attività economica (sul tema si veda A. Della Vecchia, Il contributo dei lavoratori stranieri alla crescita europea, Bollettino ADAPT). Nonostante le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro dei Paesi ospitanti, i migranti svolgono infatti un ruolo chiave nel colmare carenze di manodopera in determinati settori. Le stime mostrano che, in assenza di migrazione, il PIL pro capite riferito all’area OCSE si ridurrebbe, entro il 2060, di ulteriori 0,06 punti percentuali all’anno rispetto allo scenario di base. Al contrario, rispetto a uno scenario senza migrazione, un tasso di migrazione netto pari allo 0,61% entro il 2030 consentirebbe al Paese OCSE mediano di migliorare la crescita del suo PIL pro capite di 0,13 punti percentuali, con un potenziale di 0,25 punti in Italia. Tuttavia, l’impatto complessivo resterà modesto se i flussi migratori non aumenteranno oltre i livelli storicamente elevati registrati negli ultimi anni.

Anche la riduzione del divario occupazionale di genere costituisce un obiettivo con un potenziale significativo. Nonostante i progressi registrati negli ultimi anni, il ritmo della convergenza si è recentemente attenuato, lasciando ampi margini di miglioramento. Secondo le stime, colmare il gap occupazionale tra uomini e donne, mantenendo invariate le altre ipotesi dello scenario di base, potrebbe aumentare la crescita annua del PIL pro capite nell’area OCSE di 0,2 punti percentuali, e fino a 0,3 punti nei Paesi con una partecipazione femminile particolarmente bassa, tra cui l’Italia. In generale, ridurre i divari di genere richiederebbe sostanziali interventi di policy: in media, a livello OCSE, i tassi di occupazione femminili (20-64 anni) dovrebbero aumentare dal 67% del 2023 all’81,7% nel 2060 (un salto di circa 15 punti percentuali).

Un’altra risorsa ancora poco valorizzata nel mercato del lavoro attuale è rappresentata dalle persone anziane in buona salute. Favorirne la partecipazione lavorativa permetterebbe non solo di aumentare l’occupazione e sostenere la crescita economica, ma anche di ridurre le disuguaglianze intergenerazionali, in un contesto in cui le generazioni più giovani sperimentano una progressiva decelerazione nella crescita del reddito. Portare il tasso di occupazione degli anziani ai livelli osservati nei paesi OCSE più virtuosi consentirebbe a circa metà dei Paesi appartenenti all’area di registrare un incremento del PIL pro capite annuo di almeno 0,2 punti percentuali, con un potenziale di 0,4 punti in Italia. La buona notizia è che, tra il 2000 e il 2024, il tasso di occupazione dei 45-64enni è cresciuto in media di 9,3 punti percentuali, ma persistono significative disparità legate a genere, livello di istruzione e stato di salute. In questo contesto, è importante sottolineare che le riforme pensionistiche hanno un ruolo determinante nell’aumentare la partecipazione al mercato del lavoro della forza lavoro più anziana: tra il 2002 e il 2022, infatti, l’età media di uscita dal mercato del lavoro è salita di 3,1 anni per le donne e di 2,6 anni per gli uomini, proprio grazie a interventi che hanno innalzato l’età pensionabile (portandola rispettivamente a 63,1 e 64,4 anni). In Italia l’innalzamento dell’età pensionabile ha favorito la permanenza nel mercato del lavoro di entrambe le componenti di genere, sostenendo in particolare la partecipazione femminile.

Occorre tuttavia considerare le ricadute di una carriera lavorativa più lunga sulla salute fisica e mentale di una forza lavoro anziana. In quest’ottica, la promozione di percorsi di uscita dal lavoro maggiormente flessibili può essere una risposta efficace. Ad esempio, la possibilità di combinare lavoro e reddito pensionistico potrebbe facilitare un ritiro graduale dall’attività, sebbene la percentuale di lavoratori che continuano a lavorare dopo il pensionamento resti relativamente bassa, soprattutto in Italia. Nel nostro Paese, infatti, solo il 9,9% dei lavoratori di età compresa tra 50 e 69 anni prosegue l’attività lavorativa dopo aver ricevuto la pensione, contro una media del 22,4% in altri 24 Paesi UE. In generale, il report suggerisce che garantire condizioni di lavoro flessibili e di qualità è essenziale per mantenere elevata l’occupazione in età avanzata e influire positivamente sulla produttività e sulla competitività delle imprese. In molti casi, il ricorso al part-time o al lavoro autonomo può essere un’altra opzione valida per adattare l’attività lavorativa allo stato di salute e alle preferenze di una forza lavoro più anziana.

L’invecchiamento della forza lavoro richiede anche un continuo aggiornamento delle competenze. L’avanzare dell’età può ridurre le abilità lavorative, mentre le trasformazioni del mercato del lavoro – legate alla digitalizzazione e alla transizione verde – accelerano l’obsolescenza delle conoscenze. L’apprendimento permanente è dunque fondamentale per mantenere la produttività e la crescita dell’attività economica, ma va tenuto conto che la partecipazione alla formazione, in generale, tende a diminuire con l’avanzare dell’età. Per invertire questa tendenza, è dunque essenziale che i governi incentivino servizi di orientamento professionale e promuovano politiche efficaci per l’apprendimento degli adulti. Affrontare questi cambiamenti implica scelte politiche complesse, spesso legate a delicate questioni sociali. Individuare strategie efficaci per mobilitare tutte le risorse disponibili non è semplice, ma è oggi una strategia indispensabile. Una mobilitazione inclusiva, orientata all’attivazione delle fasce più svantaggiate e delle risorse potenzialmente impiegabili, porterebbe benefici non solo economici, ma anche sociali, contribuendo a compensare il rallentamento della crescita del PIL pro capite e a ridurre le disuguaglianze intergenerazionali e strutturali nel mercato del lavoro.

Jacopo Sala
ADAPT Research Fellow
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Martina Zaccaria
ADAPT Junior Fellow Fabbrica dei Talenti
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