Politically (in)correct – Lavorare stanca?

Bollettino ADAPT 7 febbraio 2022, n. 5

 

Parlando a Palermo nell’ambito del ciclo di incontri “Italia domani” promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per comunicare con cittadini, imprese e amministrazioni locali sui contenuti e le opportunità del Pnrr, il Ministro del Lavoro Andrea Orlando ha commentato la necessità di una norma sul salario minimo rispondendo alla domanda di un amministratore comunale che ha fatto riferimento ai numerosi percettori del reddito di cittadinanza e alla difficoltà di alcuni imprenditori a trovare manodopera. “Vedo tanta gente che si lamenta che non trova lavoratori. Ma quanto gli date? Questa è una domanda che forse si fa poco. Il tema è quello dei salari. Mettiamo tutto sul tavolo e troviamo le soluzioni”: così ha risposto il titolare del Lavoro. A me sembra una risposta superficiale e sbagliata, per tanti motivi. In primo luogo perché dovrebbe essere lui a preoccuparsi del fatto che – persino in Sicilia – taluni imprenditori lamentino la difficoltà di trovare personale a causa del reddito di cittadinanza; poi, in seconda battuta, perché il ministro avrebbe potuto sentirsi rispondere che i salari corrisposti erano quelli previsti dai contratti collettivi (il Dicastero avrebbe gli strumenti per verificare se queste affermazioni corrispondessero o meno alla verità).

 

Infine – è una domanda che ossessiona anche chi scrive – chi rifiuta posti di lavoro perché li considera insufficientemente retribuiti, come vive altrimenti? La vulgata – che pur non ha una evidenza scientifica – racconta che in tanti preferiscono riscuotere il RdC ed incassare 500 euro senza lavorare (limitandosi a fare presenza quando occorre al CPI) piuttosto che “faticare” per mille euro mensili: poco meno o poco più. E’ una deriva, questa, che non conduce da nessuna parte. Il guaio è che un atteggiamento siffatto trova comprensione e sostegno sui media e all’interno dei nuclei familiari; e, come abbiamo letto, anche da parte del ministro Orlando. Il lavoro è concepito come fatica, come se a lavorare si sottraesse del tempo alla vita vera. La campagna bizzarra sollevata intorno alla Great Resignation è indicativa di tale clima: le dimissioni, normale espressione del potere contrattuale individuale che permette ai lavoratori dotati di una adeguata professionalità di scegliersi – come ha scritto Pietro Ichino – il proprio datore di lavoro, vengono concepite come una scelta di vita, alla stregua di un rifiuto culturale del “sistema capitalistico”, dato per morto tante volte e sempre risorto dalle sue ceneri come l’Araba Fenice.

 

La cultura del non lavoro è come un percolato che impregna la quotidianità delle famiglie e si premura di demonizzare le esperienze di approccio al lavoro (plebeo) durante la fase (nobile) della formazione scolastica. Il fenomeno delle “Grandi dimissioni” sembra comunque sopravvalutato (a causa della solita logica del “fare notizia”, se è l’uomo a mordere il cane). Secondo l’Istat poco meno del 10% delle imprese ha dichiarato di aver registrato una quota di dimissioni maggiore a quella osservata nel periodo pre-pandemia, soprattutto tra le grandi imprese (23,0% tra le unità con più di 250 addetti). Abbiamo visto in queste settimane – a seguito della tragica morte di Lorenzo – la sollevazione degli studenti (incitati dai padri ex sessantottini che si sono limitati a sottoscrivere appelli) contro l’alternanza scuola-lavoro: una protesta che ben presto si è estesa al nuovo esame di maturità per il ripristino delle prove scritte. Come a dire: ci avete costretto alla DAD, abbiamo il diritto di avere comunque il diploma, nonostante le gravi lacune accumulate. Non è il 18 politico dei loro nonni, ma ci siamo vicini.

 

Tornando alla questione del lavoro, siamo riusciti a mettere insieme (magari a macchia di leopardo) la disoccupazione e la piena occupazione. Il tasso di disoccupazione è in discesa ma rimane elevato; i neet sono in crescita. Eppure le difficoltà a trovare personale è indicato come uno dei più importanti limiti che il sistema produttivo incontra sulla via della ripresa. Lo afferma la Confindustria nella sua indagine flash sulla congiuntura: “L’insufficienza di materiali e la scarsità di manodopera hanno toccato i valori massimi degli ultimi dieci anni. Significativi anche gli aumenti senza precedenti dei costi di esportazione e dei tempi di consegna’’. Ma questi – si dirà – sono i padroni ai cui Orlando chiede quanto pagano i lavoratori. E che pertanto meritano che gli studenti vadano a tirare uova a Milano alla sede dell’Assolombarda, con la Polizia che lascia fare. («Meglio permettere il lancio di uova contro la Confindustria che dare manganellate agli studenti» ha dichiarato Daniele Tissone, dello Silp Cgil).

 

Ma anche l’Istat (nel Report “Le imprese dopo l’emergenza sanitaria Covid-19”) ha certificato il disagio denunciato dalle imprese. “Una quota assai significativa di imprese dell’industria e delle costruzioni, che hanno assunto personale a tempo determinato o indeterminato oppure hanno dichiarato di essere in fase di acquisizione di risorse umane, ha segnalato difficoltà a trovare le competenze necessarie: ciò riguarda più del 76% delle unità nel settore delle costruzioni e il 66,4% in quello dell’industria. Il problema, peraltro, tocca il 55,0% delle imprese del commercio e il 66,3% di quelle degli altri servizi. Nel complesso, le difficoltà nell’acquisizione di personale sono segnalate – prosegue il Report – più frequentemente nelle unità di minore dimensione: rispettivamente, dal 63,9% e il 66,7% delle micro e piccole imprese, dal 58,2% delle medie e dal 50,1% delle grandi’’. Ecco perché – come ha ammesso anche il ministro Orlando – bisogna mettere tutto sul tavolo e trovare delle soluzioni, senza farsi abbindolare dalle teorie facilone: “i giovani non vogliono più lavorare, preferiscono l’assistenza” oppure “è tutta colpa del precariato e dei bassi salari”. Ma nessuno può chiamarsi fuori da questo impegno, a partire dalle organizzazioni sindacali.

 

A questo proposito, addentrandomi rapidamente nel decennio degli ottanta anni (forse l’ultimo della vita) mi sono ricordato di aver fatto parte di una delegazione della FLM che nel 1972 visitò l’URSS ospite del potente sindacato dei siderurgici. L’aspetto più singolare – alla luce dei fatti di oggi – è che la visita si svolse prevalentemente in Ucraina, dove visitammo diverse acciaierie. Ricordo che Angelo Airoldi (un dirigente e un amico che ci ha lasciato da tempo) allora responsabile di quel settore, chiese ai nostri interlocutori quali fossero le percentuali di assenteismo. I dirigenti sovietici ammisero – in modo propagandistico – quote molto basse e di rimbalzo chiesero quali fossero le nostre. Airoldi – come se ci fosse da vantarsi (allora così andava il mondo) – rispose che in certi giorni vi erano punte del 20-25%. I sindacalisti che ci accompagnavano fecero un balzo sulle sedie, affermando con tono di rimprovero: “E il sindacato non fa niente per evitarlo?”. Noi prendemmo quella domanda come la prova della integrazione del sindacato sovietico in quel sistema, privo di autonomia e quant’altro. Col passare del tempo, mi è venuto il dubbio che avessero ragione loro.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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