Politically (in)correct – La “nazionalizzazione del salario” finisce in Cassazione

Bollettino ADAPT 16 ottobre 2023, n. 35

 

Stanno sempre più consolidandosi – a partire dal dato culturale – tendenze nell’ambito delle relazioni industriali che lasciano in un angoscioso smarrimento quanti, come il sottoscritto, sono cresciuti alla scuola di Gino Giugni e di Federico Mancini e sono stati amici di Marco Biagi, apprendendo da loro i “fondamentali” del diritto sindacale. Nel 1960, fu Gino Giugni – a soli 33 anni – nella monografia Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva a delineare – sulla base della teoria degli ordinamenti giuridici applicata al diritto sindacale – una nuova visione e una diversa interpretazione della materia per quello che la realtà e l’esperienza avevano espresso e non più nella sterile ricerca di un “dover essere” (l’attuazione dell’art. 39 Cost.) dimenticato ed impraticabile. 

 

Scriveva Giugni a proposito dell’attività contrattuale parole destinate – queste sì – a cambiare la storia: un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di diritto vivente che, diversamente dal disegno previsto dall’articolo 39 Cost. (mai attuato perché non attuabile) si fonda sui principi del reciproco riconoscimento, dell’autonomia e della libertà contrattuale, della gestione affidata alle parti che di questo sistema sono state protagoniste, del diritto comune. In base a questa logica è capitato, nella storia del dopoguerra, che la contrattazione collettiva abbia fatto da battistrada all’intervento del legislatore su questioni di fondamentale importanza come la disciplina del licenziamento (legge n. 604/1966) e quella dei diritti sindacali (lo Statuto dei lavoratori del 1970, che divennero legge sulla base delle indicazioni fornite dalla contrattazione.

 

Quanto avvenne nei primi anni ’90 per l’applicazione del diritto comune anche nella contrattazione e nei rapporti del pubblico impiego, fu il punto di arrivo di quella impostazione, sia pure con tutte le conseguenze “all’italiana” che quella iniziativa sviluppò nel prosieguo del tempo, nel senso che accumulò ai vantaggi del rapporto di lavoro pubblico (la sicurezza, la stabilità, ecc.) che non furono mai messi veramente in discussione, anche quelli del rapporto di regime privatistico. Un altro caso significativo riguarda la disciplina legislativa dell’orario di lavoro. In termini generali si passa dal 1923 al 2003, ma in questo arco di tempo la contrattazione collettiva era stata protagonista di innovazioni importanti che poi finirono nel d.lgs. n. 66 del 2003 (del resto anche il Regio decreto del 1923 era stato preceduto da un accordo tra le parti sociali). Questo processo si è invertito: da tempo la legge è molto più invasiva, stabilisce direttamente le regole, magari rinviando taluni aspetti particolari alla contrattazione collettiva.

 

Tutta la filiera dei nuovi rapporti di lavoro è stata regolata, e modificata più volte, dalla legge. Le politiche fiscali, a favore della contrattazione di prossimità e di forme di welfare aziendale, hanno dato un contributo decisivo all’innovazione degli assetti e dei contenuti della contrattazione collettiva. La stessa nuova disciplina del licenziamento individuale e collettivo, nata negli anni ’50 e preceduta nel 1966 da accordi sindacali, è stata completamente assorbita dall’iniziativa legislativa. In questi esempi l’intervento dello Stato è stato reso necessario dall’inerzia delle parti e dalla loro incapacità di concorrere a risolvere i problemi. Si è passati così da una fase storica in cui era lo Stato a delegare alle parti sociali, ad un’altra in cui avviene il contrario, in cui le grandi organizzazioni di massa preferiscono orientare la politica e il potere legislativo verso orientamenti e decisioni che ognuno coltiva in casa propria senza essere in condizione di condividerlo. Si pensi alla vicenda dei voucher per abolire i quali fu promosso un referendum popolare.

 

Negli ultimi anni si è ancora andati oltre, avviando una fase che chi scrive ha definito la “nazionalizzazione della retribuzione”, nel senso che la legge è divenuta l’ultimo rifugio di organizzazioni sindacali incapaci nel loro insieme di affrontare e risolvere i gravi problemi della fase attuale. Ormai lo Stato: copre di incentivi le aziende perché assumano; fiscalizza una quota crescente di contribuzione previdenziale per diminuire il “cuneo” a favore dei lavoratori; eroga l’assegno di inclusione. Per non parlare dei sussidi, degli aiuti e dei ristori. Se si aggiungesse anche il salario minimo legale, le politiche pubbliche prenderebbero il sopravvento sulla contrattazione e ne condizionerebbero l’indirizzo, gli oneri. Non si tratterebbe, come ha proposto anche il CNEL e come era previsto dalla legge n. 92/2012 e dal Jobs act di tutelare settori non coperti dalla contrattazione collettiva, ma in pratica – questo aspetto è stato trascurato nel dibattito) di introdurre una scala mobile spuria ma con effetti ugualmente critici, in tempi in cui l’inflazione è tornata a farsi viva minacciosa. In sostanza anche i rinnovi contrattuali diventerebbero materia di un’operazione di carattere esterno condizionata da un dato di fatto: con 9 euro l’ora i 3/5 della retribuzione saranno definiti da procedure e criteri estranei alla logica e alla mediazione negoziale, che è normalmente il punto di equilibrio tra tutte le variabili relative all’autonomia contrattuale dei soggetti collettivi rappresentativi.

 

Il cerchio della “nazionalizzazione della retribuzione” non poteva non chiudersi in un tribunale. La Cassazione ha iniziato ad emettere sentenze in base alle quali il giudice adito è il solo ad accertare, in via definitiva, quale sia la retribuzione “proporzionata” e “sufficiente” di cui all’articolo 36 Cost. Secondo una giurisprudenza consolidata da decenni il giudice riconosceva questi requisiti alle tariffe previste dai contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative. Secondo il nuovo orientamento della Suprema Corte (dopo la sentenza “storica” n. 27711, ne spunta una alla settimana) non solo il contratto ma neppure la legge possono inibire al giudice di pronunciarsi sulla adeguatezza costituzionale dell’ammontare della retribuzione ai sensi dell’articolo citato. Chi scrive trova “eversivo” questo orientamento giurisprudenziale. Proprio perché porta il giudice a valutare in astratto, sulla base del suo convincimento, una tariffa che non è una variabile indipendente del processo produttivo, mettendo in discussione il risultato di quel conflitto di interessi che è alla base della rappresentanza e dell’attività negoziale.
 
Se si è arrivati al tal punto di invadenza e di messa in discussione di una società che assume le libertà economiche come una componente integrata delle libertà politiche, prima che sia troppo tardi sarebbe bene rendersi conto degli effetti prodotti da una legge sulla rappresentanza che consentirebbe ad una magistratura tendenzialmente “totalitaria” di entrare nella vita associativa delle organizzazioni sindacali (nel caso della Mondialpol e delle altre aziende del settore addirittura avvalendosi del diritto penale) in barba ai principi di una società pluralista e in violazione del comma 1 dell’articolo 39 Cost. che – si prenda nota – è l’unica norma vigente sulla quale si fonda l’ordinamento sindacale.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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