Politically (in)correct – I nodi giallo-verdi vengono al pettine: rivalutazione delle pensioni e contributo di solidarietà all’esame della Consulta

Bollettino ADAPT 19 ottobre 2020, n. 38

 

La Corte Costituzionale ha in corso l’esame di legittimità per due norme contenute nella manovra di bilancio per il 2019 da parte del governo Conte 1. Si tratta delle disposizioni riguardanti la perequazione automatica all’inflazione e il contributo di solidarietà sulle c.d. pensioni d’oro.  Per riassumere la questione della rivalutazione automatica occorre fare – come si diceva nei romanzi dell’800 – un passo indietro senza perdersi in una materia che, nel trascorrere del tempo, è stata manomessa ripetutamente dai governi di qualsiasi colore per il semplice motivo che è questo il principale intervento finanziario rivolto ridurre, sic et simpliciter, la spesa pubblica corrente, con effetti economici significativi. Va riconosciuto, quindi, che nessuna forza politica è legittimata a scagliare la prima pietra, quando si tratta di questa tipologia di interventi, perché tutte, prima o poi, vi hanno fatto ricorso (anche quando stavano in Parlamento esponendo una ditta diversa dall’attuale). Mi limito solo a ricordare che nel 2007 (secondo governo Prodi, ministro del Lavoro Cesare Damiano) fu sospesa, per un anno, la rivalutazione sopra i 3.500 euro lordi mensili (la Consulta chiamata a pronunciarsi sancì la legittimità della norma.

 

Ma il tourbillon è iniziato dal 2012 con la riforma Fornero che stabilì il blocco dell’indicizzazione a carico delle fasce al di sopra di tre volte l’importo del minimo (fino a 1.405,05 euro lordi mensili nel 2012, e 1.443 nel 2013 l’indicizzazione restava al 100 per cento dell’inflazione). Le pensioni d’importo superiore non ricevevano alcuna rivalutazione. Questa misura fu dichiarata incostituzionale perché viziata da inadeguatezza (sentenza n.70 del 2015, relatore Silvana Sciarra). Il che indusse il governo Renzi a rimediare per decreto (dl n.65/2015) ampliando, in modo retroattivo, il numero dei soggetti tutelati (senza coprire tuttavia l’intera platea), e con aliquote di perequazione ridotte man mano che cresceva l’ammontare del trattamento. Le opposizioni di allora protestarono insieme ai sindacati, rivendicando l’integrale copertura. La Consulta considerò legittimo l’aggiustamento. Si determinò così, a seguito del decreto legge, un regime transitorio che avrebbe dovuto concludersi nel 2017 per fare ritorno al modello classico delle tre fasce. Ma nella legge di bilancio per il 2016 (allo scopo di finanziare l’opzione donna) tale termine venne spostato alle fine del 2018. Ed è qui che comincia la nostra storia.

 

Dal 1° gennaio 2019, dunque, sarebbe dovuto tornare in vigore il meccanismo classico (ribadito anche dalla legge n.388/2000), articolato su tre fasce: il 100 per cento del tasso di inflazione per gli importi compresi fino a tre volte il minimo: il 90 per cento per quelli compresi da tre a cinque volte ed il 75 per cento oltre quella soglia. La legge di bilancio 2019, invece, rinviò per un triennio il ripristino di tale sistema e ne ha disposto un altro articolato su sette fasce.

 

Con tali modifiche, pertanto, gli indici di rivalutazione sono divenuti meno favorevoli, con il salire della pensione. Non è cambiato nulla fino a tre volte il minimo – 1522 euro lordi circa 1250 netti – in quanto si mantiene la rivalutazione piena). I nuovi scaglioni successivi sono i seguenti (i relativi importi sono quelli previsti nel 2019 al netto degli aggiornamenti previsti dall’adeguamento annuale all’inflazione:

  • 97% fra tre e quattro volte il minimo, da 1.522 e 2.029 euro,
  • 77% da quattro a cinque volte il minimo, fino a 2.537 euro,
  • 52% fra cinque e sei volte il minimo, fino a 3042 euro,
  • 47% fra sei e otto volte il minimo, fino a 4059 euro,
  • 45% fino a 4566 euro (nove volte il minimo),
  • 40% per gli importi superiori.

L’ammontare del taglio previsto era stimato pari a 2,2 miliardi in un triennio (uno dei più consistenti risparmi di spesa contenuti nella manovra). Si tenga, altresì conto, che tali risorse saranno perdute per sempre dai pensionati, anche quando la perequazione dovesse rientrare nei canoni normali.

 

Tuttavia è improbabile che la Corte, in conformità con la sua giurisprudenza, dichiari l’illegittimità della norma. La sentenza Sciarra del 2015 sollevò parecchi dubbi e non dispose l’illegittimità, in sé, dell’intervento sulla perequazione, ma ne contestò l’adeguatezza, entrando così nel merito di una valutazione espressamente politica.

 

Più complessa è invece la questione del contributo di solidarietà, il cui dispositivo è  anch’esso rinviato al giudizio della Consulta. In proposito, il comma 261 del maxiemendamento alla legge di bilancio 2019, stabilisce che, a decorrere dal 1° gennaio  e per la durata di cinque anni, i trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (la riforma Dini-Treu), i cui importi complessivamente considerati superino 100.000 euro lordi su base annua, sono ridotti di un’aliquota di riduzione pari al 15 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 130.000 euro, pari al 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, pari al 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, pari al 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e pari al 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro. Sono esonerate dal contributo le pensioni ai superstiti e di invalidità, delle vittime del dovere e del terrorismo e quelle interamente calcolate col sistema contributivo. Trattandosi di un contributo gravante su di una platea molto ridotta la riduzione temporanea per la durata di cinque anni, è cifrata per circa 0,43 miliardi nel triennio 2019- 2021 (al netto degli effetti fiscali circa 0,24 miliardi).

 

I giudici delle leggi non possono certo tenere conto del dibattito politico che ha accompagnato l’introduzione di questa norma. Vi sono tuttavia indubbi profili di illegittimità che la Corte non potrà non rilevare. In primo luogo, la norma è censurabile alla luce di quanto disposto dalla Corte stessa l’ultima volta in cui si è occupata della materia. Con sentenza n.173 del 2016 la Corte costituzionale – riconfermando la loro giurisprudenza in materia – tracciò un insieme coerente di regole generali per attribuire legittimità costituzionale ai contributi di solidarietà sulle “pensioni più elevate” (le sole – purché parametrate sulla base dell’importo del trattamento minimo onde assicurare la proporzionalità dell’intervento – sulle quali, secondo la Corte, può essere disposto un contributo di solidarietà). “In definitiva – era ribadito nella sentenza – il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum’’. Ne deriva che “anche in un contesto siffatto, un contributo sulle pensioni costituisce, però, una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza’’. Il contributo, poi, non può mettere a repentaglio “il principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato”: principio che, nella fattispecie considerata, viene salvaguardato dalla “temporaneità” e dalla “eccezionalità” del provvedimento stesso. Le parole sono pietre soprattutto quando vengono scritte dai “giudici delle leggi” (relatore Mario Rosario Morelli). Mettiamo insieme queste parole, ognuna delle quali prefigura un concetto giuridico ben definito: proporzionalità, finalità solidaristica all’interno del sistema pensionistico, temporaneità, eccezionalità, discontinuità, salvaguardia dell’affidamento sui trattamenti percepiti secondo le norme vigenti. E’ evidente che il contributo di solidarietà disposto nella legge di bilancio 2019 non risponde in toto a questi requisiti che la Consulta determinò quasi in termini ultimativi. Ma assumeranno i “giudici delle leggi” una decisione di illegittimità inevitabilmente destinata, per come il governo arrivò a questa determinazione, ad avere rilievo politico? In ogni caso nella norma in esame vi sono dei profili di illegittimità anche sul piano tecnico-giuridico.  Vediamo perché.

 

a) La norma ha una durata prevista di un quinquennio e quindi va oltre il triennio del bilancio (2019-2021). Anche per ristabilire un minimo di ragionevolezza e di proporzionalità nei confronti dei soggetti colpiti, la Consulta, se non ritenesse di intervenire direttamente con un parare di illegittimità, potrebbe invitare il Parlamento a contenere nell’ambito del triennio la misura.

b). È sicuramente una lesione del principio di eguaglianza dei cittadini esonerare dal contributo i trattamenti interamente liquidati con calcolo contributivo, senza estendere il medesimo criterio anche alla quota di contributivo che fa parte ormai della retribuzione pensionabile di tutti i lavoratori (almeno dal 2012).

 

Le sentenze sono attese nei prossimi giorni. E’ augurabile che la Corte tenga conto che questi pensionati fanno parte (sia pure in quota modesta) di quel 4,36% di contribuenti che mantengono il 46% della restante popolazione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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