Licenziamento per eccessiva morbilità del lavoratore e contemperamento degli interessi: una nuova pronuncia della Cassazione

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Bollettino ADAPT 15 maggio 2023, n. 18
 
La prima metà del 2023 è stata senza dubbio caratterizzata da una vivace produzione di rilevanti pronunce giurisprudenziali di merito e di legittimità sul tema del periodo di comporto e, più in generale, sul rapporto tra malattia e licenziamento, nel solco degli ultimi orientamenti euro-unitari (cfr. E. DAGNINO, Comporto, disabilità e disclosure: note a margine di una querelle giurisprudenziale, in Argomenti di diritto del lavoro, 2023, 1, 241-254).
 
Alla fine di marzo, infatti, con la sentenza Cass., sez. lav., sent. 31 marzo 2023, n. 9095, la Corte di Cassazione ha chiarito come rappresenti una condotta discriminatoria la mancata previsione, per i lavoratori affetti da malattie croniche, di un periodo di comporto specifico, che tenga in considerazione la maggiore esposizione di tali lavoratori al rischio di accumulare assenze in virtù della propria condizione svantaggiata, consolidando gli ondivaghi orientamenti delle Corti di merito (vd. M. DE FALCO, Licenziamento per superamento del comporto e discriminazione indiretta del lavoratore disabile: un tema di giustizia sociale, in Bollettino ADAPT n. 7/2023) ed ammonendo, nel contempo, il sistema delle relazioni industriali, reo di non aver previsto simili accorgimenti volti a neutralizzare potenziali situazioni discriminatorie.
 
Recentemente, la Suprema Corte ha affrontato un’ulteriore interessante questione relativa al tema del rapporto tra malattia del lavoratore e licenziamento, ove vengono meglio definiti i limiti del potere organizzativo in capo al datore di lavoro laddove si voglia procedere al licenziamento del lavoratore affetto da eccessiva morbilità in virtù dello scarso rendimento del dipendente e della conseguente inutilizzabilità della prestazione lavorativa.
 
Nello specifico, trattasi della sentenza Cass., sez. lav., sent. 27 aprile 2023, n. 11174, avente ad oggetto un’impugnazione proposta da un datore di lavoro avverso una sentenza della Corte d’Appello di Milano che accoglieva la domanda formulata dal lavoratore di veder dichiarata la nullità del licenziamento irrogato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 L. 604/1994, per la non proficuità della prestazione lavorativa resa dal dipendente in considerazione delle modalità e del rilevante numero di assenze da egli realizzate (…) per complessive 808 giornate lavorative (non superando però il periodo di comporto previsto dalla normativa). 
 
La sentenza impugnata della Corte d’Appello di Milano accertava che il predetto licenziamento, essendo stato intimato per numerose assenze per malattia, doveva ritenersi illegittimo per violazione dell’art. 2110 cod. civ., non avendo il lavoratore superato il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro che, come già si è specificato, non veniva effettivamente superato.
 
L’Azienda, nel corso del procedimento di impugnazione innanzi gli Ermellini, propone una giustificazione “sui generis” a riprova della legittimità del proprio operato, offrendo delle corpose argomentazioni volte a svincolare il caso specifico dalla fattispecie del recesso per superamento del periodo di comporto. 
 
Difatti, il datore di lavoro fondava il recesso per giustificato motivo oggettivo in virtù della scarsa utilità della prestazione e delle gravi criticità connesse al fatto che essa era resa in maniera intermittente con impossibilità, per effetto delle assenze, di formare proficuamente il lavoratore in modo tale da fargli raggiungere i livelli standard necessari ed ottenibili. Il tutto, a riprova del fatto che il datore di lavoro avesse proceduto al licenziamento “per ragioni oggettive integrate dal modo, dal tempo e dalla durata delle assenze che finiscano per incidere apprezzabilmente sulla prestazione del lavoratore rendendola inutilizzabile o comunque non utile a prescindere dall’avvenuto superamento del periodo massimo di conservazione del posto di lavoro in relazione alla malattia.” 
 
Il datore di lavoro, nel corso del procedimento giurisdizionale, aveva finanche richiesto che fossero ammesse prove documentali e testimoniali a riprova di quanto argomentato nei propri scritti difensivi.
 
La morbilità del lavoratore e le conseguenti assenze per malattia accumulate nel tempo, secondo le argomentazioni del datore di lavoro, si sostanziavano quindi come mera circostanza materiale ostativa della normale funzionalità dell’azienda e tali contingenze dovevano considerarsi ancillari rispetto alla reale motivazione che fondava il licenziamento ossia la non proficuità della prestazione lavorativa.
 
La Corte di Cassazione, nelle sue motivazioni, sottolinea che, ogni qualvolta vi sia un collegamento tra licenziamento ed assenze per morbilità del lavoratore, la disciplina del recesso segue le regole di cui all’art. 2110 c.c., comma 2, le quali prevalgono rispetto la disciplina dei licenziamenti individuali – secondo il principio lex specialis derogat generali – che impedisce al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza.
 
Per i giudici, lo scarso rendimento e eventuali disservizi aziendali causati dalle reiterate assenze per malattia non possono legittimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo prima del superamento del periodo massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva, a pena di nullità per violazione di norma imperativa (cfr. Cass., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12568).
 
Pertanto, il licenziamento connesso ad elevata morbilità del lavoratore dovrà quindi sempre qualificarsi, alla luce della pronuncia in commento, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che si collega “da un lato all’esistenza di una o più malattie e dall’altro al fatto oggettivo del tempo complessivamente trascorso in malattia”. 
 
Doveroso segnalare come, con la prefata sentenza, la Suprema Corte assuma una presa di posizione ben differente rispetto quella rinvenibile in Cass., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12568, secondo cui il licenziamento per superamento del periodo di comporto poteva soltanto essere assimilato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, integrando un’autonoma fattispecie di recesso che non necessitava di una previa contestazione al dipendente.
 
Da una prima lettura del provvedimento edittale, alla luce della chiarezza espositiva dei giudici di legittimità, sembra chiaro come la Suprema Corte, nel precisare come il licenziamento connesso ad elevata morbilità debba sempre qualificarsi come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, abbiano ritenuto che lo stesso rientri nella fattispecie di cui allart. 3 della L. 604/1966, superando il concetto di mera assimilazione di cui alla sentenza delle Sezioni Unite del 2018.
 
Per tali ragioni, unica condizione che può legittimare il recesso dal rapporto di lavoro è il superamento del cd. periodo di comporto, da considerare quale diretta espressione del contemperamento degli interessi confliggenti del datore di lavoro e del lavoratore, a nulla valendo motivazioni quali rendimento inadeguato, disservizi e/o esigenze aziendali, che permette al datore di lavoro “di mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora” e per il lavoratore “di disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento”.
 
Tali motivazioni, oltre ad aver determinato il rigetto dell’impugnazione così come proposta dal datore di lavoro, offrono degli spunti di indubbia utilità per gli operatori del diritto.
 
In primo luogo, la pronuncia commentata chiarisce come il datore di lavoro sia sempre tenuto a rispettare il cd. periodo di comporto anche nei casi in cui si verifichi un’inutilizzabilità della prestazione lavorativa in virtù delle assenze accumulate dal lavoratore per l’assenza.
 
A nulla varrebbe, infatti, invocare un presunto scarso rendimento del lavoratore, poiché, come ribadito recentemente dalla Corte di Cassazione (Cass., sez. lav., ord. 6 aprile 2023, n. 9453), per ritenere legittimo il licenziamento fondato da tali motivazioni, il datore di lavoro ha l’onere di provare che la causa dello scarso rendimento “derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell’espletamento della sua normale prestazione”.
 
Pertanto, laddove il motivo dell’inadempimento degli obblighi contrattuali sia connesso alle frequenti assenze per malattia per personali condizioni di elevata morbilità, mai potrà procedersi ad irrogare un licenziamento per scarso rendimento, alla luce del diritto/dovere del lavoratore di assentarsi e non rendere la prestazione lavorativa, e, quindi, difettando il requisito della colpevole negligenza nell’adempimento degli obblighi contrattuali.
 
Ad ogni modo, in virtù del sopracitato contemperamento degli interessi, una volta superato il cd. periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva, che deve essere ritenuto quale limite massimo della tollerabilità richiesta al datore di lavoro, è sempre fatta salva la facoltà di procedere sic et simpliciter al licenziamento (che sia qualificabile o solo assimilabile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo), senza necessità di allegazione di ulteriori ragioni a fondamento del licenziamento nonché di contestazione previa al dipendente destinatario del provvedimento.
 
Antonio Lamberti

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@ant_lamberti1

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