Le “grandi dimissioni” sono pratica da ricchi. Qualche considerazione su un fenomeno mal compreso*

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Bollettino ADAPT 14 febbraio 2022, n. 6
 

Spesso anche nei contesti più apparentemente tecnici e aridi si incontrano grandi storie, capaci di uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e di intercettare l’interesse del pubblico c.d. generalista e, quindi, dei media (o viceversa). Nell’ambito del mercato del lavoro è stato così per i call center negli anni Duemila, per la disoccupazione giovanile nel decennio successivo, per i rider oggi. Quando un tema conquista le prime pagine e i talk show, il merito specifico finisce con l’essere secondario e tutto diventa dibattito attorno a quel che sempre di più assume le sembianze di un simbolo.
 
Una ventura di questo genere potrebbe ora toccare al fenomeno delle “grandi dimissioni” (The Great Resignation in USA, dove è stata coniata l’espressione): il dilagare inaspettato di rinunce al posto di lavoro, anche quando sicuro e ben pagato, per dedicare maggior tempo alle proprie passioni, ai rapporti sociali, alla famiglia. Non a caso gli americani, con la consueta efficacia hollywoodiana, hanno situato questa nuova tendenza entro i confini della Yolo Economy: una sorta di carpe diem liquido e post-pandemico generato dalla rinnovata coscienza che “si vive una volta sola” (you only live once, da cui Yolo).
 
Non è parso vero a molti giornalisti nostrani poter importare questa moda statunitense commentando l’incremento delle dimissioni censite dalle comunicazioni obbligatorie nel corso dell’anno 2021: anche gli italiani vanno finalmente ribellandosi a un mercato del lavoro cinico, dominato da imprese che giocano al ribasso sui salari e da una crescente precarietà che è bene rispedire al mittente.
 
Ma è effettivamente questo quel che dicono i dati? Invero, fin dalla loro prima pubblicazione (fine 2021), la Banca d’Italia ha reputato opportuno smorzare le letture più spinte, affermando senza troppi equivoci che «complessivamente la dinamica delle dimissioni appare strettamente associata a quella della domanda di lavoro a tempo indeterminato» (Il mercato del lavoro: dati e analisi. Le Comunicazioni obbligatorie, novembre 2021). Ciò non ha convinto molti editorialisti che, al contrario, hanno letto in questo fenomeno un segnale evidente di insofferenza verso il lavoro, soprattutto nelle fasce di popolazione più giovane. Una lettura sociologicamente legittima, ma poco fondata statisticamente. Nel corso del dei primi tre trimestri del 2021 il numero delle dimissioni censite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali è stato pressoché uguale al totale delle dimissioni del 2020 e superiore a quello osservato nello stesso periodo del 2019. Tra le possibili ragioni, quella di una sorta di ribellione alle logiche del lavoro 4.0 sembra essere la meno in grado di spiegare il fenomeno. Più centrate paiono invece due diverse motivazioni, tra loro connesse.
 
La prima tiene in conto di una tendenza ancor più anomala verificatasi nel 2020: l’incremento abnorme dei licenziamenti disciplinari. Se ne è sentito poco parlare perché anche la componente sociale più attenta a questi fenomeni, il sindacato, ne ha ricondotto le ragioni innanzitutto al raggiramento del perdurante blocco dei licenziamenti che ha interessato le imprese per oltre un anno. Un vero e proprio congelamento del mercato del lavoro operato per via legislativa: non era possibile licenziare né, come previsto dalle norme in caso di cassa integrazione, assumere. Il licenziamento, quindi, si è rivelato conveniente per il lavoratore e spesso suggerito dallo stesso per poter cambiare lavoro senza perdere il diritto alla Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI). Tra i dimessi di oggi vi sono anche coloro che hanno maturato la decisione di lasciare l’azienda durante i mesi pandemici, ma non hanno potuto procedere con questa forzatura (che ha bisogno del consenso e della fiducia del datore di lavoro) o temevano che l’ingessatura del mercato del lavoro non avrebbe permesso di trovare in tempi brevi nuova occupazione.
 
La seconda motivazione riguarda la rinnovata fluidità del mercato, tornato ai livelli del 2019 per quanto concerne i tassi di occupazione e disoccupazione, sebbene con uno stock di lavoratori meno numeroso (ma questo è figlio anche dalla crisi demografica, non soltanto economica). Per molte persone è questo il momento di sperimentare strade nuove e accettare inedite sfide professionali, in ragione del momento di straordinario rimbalzo positivo dell’economia e quindi di aspettative incrementali. Se ci si dimette oggi, è probabile trovare nuova occupazione, soprattutto nelle regioni del Centro Nord. Non è quindi stupefacente che siano innanzitutto i lavoratori uomini esperti, residenti nel nuovo triangolo industriale Treviso-Milano-Bologna, a rinunciare alla propria occupazione. Non però per aprire un chiringuito in Sardegna, come cinematograficamente immaginato dal più “produttivo” dei comici (il milanese imbruttito), bensì per crescere in stipendio e qualifica, spostandosi in aziende concorrenti. È una conseguenza della difficoltà a reperire le competenze evolute che ogni mese viene riferita dal monitoraggio Excelsior delle Camere di Commercio: la competizione a rialzo (degli stipendi) delle imprese più sane per convincere i professionisti affermati a trasferirsi presso di loro. Per nulla una pessima notizia, anzi: è un segnale indiretto di ripresa e di scongelamento del mercato del lavoro. Una condizione, se possibile, anche migliore di quella prefigurata dagli entusiasti della Great Resignation.
 
Non è tutto rosa e fiori, però: vi sono molti lavoratori che rimangono esclusi da questa ripresa, che non dispongono di competenze tali da permettergli di scegliere l’impresa e che, di conseguenza, rischiano di rimanere schiacciati da una gara al ribasso su stipendi e ore di lavoro. Sono i “lavoratori poveri” (working poor) di cui hanno parlato Caritas, Censis e, recentemente, una Commissione nominata dal Ministero del lavoro. Per loro non vi è alcuna possibilità di scegliere se dimettersi; al contrario fanno di tutto per proteggere la posizione che hanno, per quanto faticosa e poco pagata. È bene che l’attenzione del legislatore e degli addetti ai lavori si concentri su queste persone, più che sui benestanti “autoesodati”, che quantomeno possono disporre del loro destino, giusta o sbagliata che sia la decisione di dimettersi.
 
Non convince molto, in questo senso, la strada del salario minimo, che appare una “mano di bianco” sopra un problema che, come si è visto, è molto più complesso, contraddistinto da sfide formative e culturali che intervengono più sulle competenze che sui soli trattamenti economici. Lo dimostra la pratica degli stessi giovani, le cui aspettative rispetto al lavoro sono molto diverse rispetto a quelle che nutrivano i loro genitori alla stessa età. È evidente lo spaesamento delle imprese di fronte a una platea di potenziali dipendenti molto attenta alla quantità di tempo libero, alle giornate di smartworking e alla varietà del welfare offerto in aggiunta al “semplice” stipendio di fine mese.

Come e in che direzione ripensare un mondo ancora “fondato sul lavoro” (sistema previdenziale, assistenza sociale, tutele contrattuali, formazione continua) per non perdere una generazione che non guarda più al lavoro come faro?
 
Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli studi sulle relazioni industriali e di lavoro

@EMassagli
 
*Pubblicato anche su Tempi.it col titolo La notizia delle Grandi Dimissioni in Italia è fortemente esagerata, 8 febbraio 2022

Le “grandi dimissioni” sono pratica da ricchi. Qualche considerazione su un fenomeno mal compreso*
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