L’articolo 18 come benefit? A proposito del caso Novartis e della applicazione in via pattizia del regime di stabilità reale del contratto di lavoro

È bastato un accordo aziendale alla Novartis Farma di Origgio (Va) lo scorso 20 marzo per rilanciare prepotentemente, anche agli occhi dei non addetti ai lavori, il tema dell’effettivo superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori da parte del c.d. Jobs Act (cfr., in particolare, il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 sul contratto a tutele crescenti).
 
Invero, proprio perché condotta inizialmente in sede non tecnica, la valutazione dell’accordo Novartis è andata ben oltre ai suoi reali contenuti che sono tutt’altro che dirompenti in punto di diritto. Benché le parti firmatarie (Novartis Farma S.p.A., Alcon Italia S.p.A. e Femca-Cisl, Filctem-Cgil, Uiltec) parlino, al punto 1 della intesa, di una «assoluta novità della questione» e della «conseguente assenza di oggettivi precedenti tecnico/giuridici sul punto», si tratta semplicemente di una cessione di contratti di lavoro in essere (da Alcon Italia verso Novartis Farma) funzionale a un nuovo assetto organizzativo di società appartenenti a uno stesso gruppo. Nessuna novità insomma, tanto è vero che l’istituto della cessione del contratto è regolato dall’articolo 1406 del Codice Civile del lontano 1942 che ha trovato nel tempo una costante applicazione anche nell’ambito dei rapporti di lavoro (cfr. sul punto M. Tiraboschi, Formulario dei rapporti di lavoro, Giuffrè, 2011, pp. 30-31). Ben poca cosa, del resto, anche in termini puramente numerici: parliamo di soli 7 contratti a tempo indeterminato stipulati prima del 7 marzo 2015 quando recenti operazioni societarie (vedi per tutte il caso ENEL) hanno dato luogo a casistiche ben più impegnative di riallocazione di centinaia di lavoratori e di relativi passaggi intersocietari proprio per il tramite della cessione del contratto individuale di lavoro anche in funzione della non applicazione del Jobs Act.
 
La cessione di contratto di lavoro, in effetti, ha come finalità giuridica la prosecuzione del rapporto senza alcuna soluzione di continuità. Il che significa non solo il mantenimento dei trattamenti retributivi e della anzianità di servizio maturata ma anche la conferma di diritto dei trattamenti normativi in essere al momento della cessione. Del tutto naturale dunque, almeno rispetto al caso Novartis, il mantenimento dell’articolo 18 da parte della impresa cessionaria ai 7 lavoratori della impresa cedente già assunti a tempo indeterminato (la Alcon Italia) posto che il contratto a tutele crescenti trova applicazione unicamente per i contratti di lavoro stipulati a far data dal 7 marzo 2015.
 
Alcuni degli attori sindacali firmatari hanno precisato che l’accordo dello scorso 20 marzo non vuole certo essere un referendum sul Jobs Act (così Maurizio Ferrari segretario provinciale della Femca-Cisl di Varese). E la stessa Novartis ha subito chiarito che non intende con questo accordo (e altri ancora, di contenuto analogo, con altre aziende del gruppo per un totale di 35 lavoratori ceduti) pregiudicare una futura applicazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 per nuove assunzioni che dovessero intervenire successivamente.
 
Resta tuttavia il fatto che, sul piano politico, l’accordo Novartis costituisce indubbiamente un precedente di rilievo nell’asfittico panorama del nostro sistema di relazioni industriali, come bene hanno intuito i mass media più ancora degli addetti ai lavori che si sono avventurati nei primi commenti, non fosse altro per il fatto che le parti firmatarie, al di là dello strumento giuridico utilizzato (la cessione del contratto), hanno espressamente manifestato la «propria scelta di non applicare comunque (nei confronti dei 7 lavoratori) le disposizioni del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (cosiddetto “contratto a tutele crescenti”) relative al regime giuridico applicabile in caso di recesso datoriale dal rapporto di lavoro» (così al punto 2 della intesa, corsivo mio).
 
Alcuni primi osservatori, invero, hanno sostenuto che Novartis sia destinato a rimanere un caso isolato non fosse altro che per l’impossibilità per i privati di applicare una normativa, quella dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, oramai abrogata (così, tra gli altri, G. Falasca, Tutele crescenti, nodo staffetta, in Il Sole 24 Ore del 17 marzo 2015). Difficile insomma immaginare, al di fuori dei gruppi di impresa, il massiccio ricorso alla cessione del contratto, soprattutto tra imprese concorrenti rispetto a lavoratori con un potere contrattuale tale da indurli a chiedere le vecchie tutele al fine di acconsentire a una loro mobilità da una azienda all’altra. Mentre una anomalia, se non un paradosso, sarebbe ora il richiamo all’articolo 8 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (c.d. decreto Sacconi) per derogare al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 mediante la stipula di un contratto di prossimità volto a richiamare in vita, anche per i nuovi assunti, l’articolo 18.
 
Eppure, a ben vedere, la tecnica adottata dal Legislatore del Jobs Act non è stata affatto quella della abrogazione quanto del progressivo superamento dell’articolo 18 per il tramite della stipulazione di nuovi contratti soggetti a un diverso regime di tutela contro i licenziamento illegittimi così come ora disciplinato dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. L’articolo 18, in altri termini, è una disposizione ancora oggi pienamente vigente per quanto destinata a trovare applicazione, in linea di principio, per i soli rapporti di lavoro stipulati prima del 7 marzo ferme restando le condizioni soggettive ed oggettive per la sua reale operatività.
 
È sulla base di questa considerazione giuridica che deve essere affrontato il nodo politico e sindacale sollevato dall’accordo Novartis relativamente alla scelta di non applicare le nuove disposizioni in materia di licenziamento illegittimo contenute nel decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Varie possono essere, in effetti, le soluzioni tecniche a disposizione delle parti contrattuali (così come per l’autonomia collettiva) per conseguire l’obiettivo di non applicare, in tutto o in parte, il nuovo regime sanzionatorio. Accanto alla cessione del contratto di lavoro si potranno così di volta in volta ipotizzare clausole di stabilità e di durata minima garantita del contratto o anche clausole volte a riconoscere al lavoratore neo-assunto una anzianità convenzionale di servizio (cfr. M. Tiraboschi, Formulario dei rapporti di lavoro, cit., pp. 792-800). Nulla esclude tuttavia, proprio perché la previsione non è stata abrogata, il rinvio delle parti (individuali e collettive) all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche per i contratti stipulati dopo il 7 marzo quale condizione di miglior favore per il lavoratore, e talvolta persino nell’interesse del datore di lavoro ([1]), sempre ammessa dall’ordinamento che consente alla autonomia privata di realizzare interessi meritevoli di tutela nei limiti posti dalla legge (art. 1322, Codice Civile).
 
Si è sostenuto che, in questi casi, «non si tratterebbe di rendere applicabile l’articolo 18 della legge n. 300/1970 – perché l’autonomia negoziale privata non ha il potere di rendere applicabile una norma di legge inapplicabile –, ma semplicemente di prevedere pattiziamente una tutela ricalcata in parte o in tutto su quella dell’articolo 18» (così A. Tursi, Jobs Act: l’altra faccia delle “tutele crescenti”, in Ipsoa Quotidiano del 21 marzo 2015). Vero è tuttavia che, per i nuovi assunti a far data dal 7 marzo 2015, l’articolo 18 non è disposizione inapplicabile posto appunto che non si tratta di previsione abrogata ma anzi a più riprese richiamata dallo stesso decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Semplicemente, per i nuovi assunti, è previsto un diverso regime di tutela contro i licenziamenti ingiustificati, complessivamente meno garantista, né più né meno di quanto avveniva già in passato per alcuni gruppi di lavoratori come per esempio i dirigenti che, come noto, non rientravano nel campo di applicazione dell’articolo 18.
 
Dirimente, in proposito, è la lettura di Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 26 maggio 2000, n. 6901 che, proprio con riferimento alla figura del dirigente ha già ampiamente chiarito che «in via di principio non può negarsi che la tutela reale, quale prevista dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 possa essere pattiziamente estesa al di fuori dei limiti legali soggettivi e oggettivi». Ciò ovviamente «solo a condizione che una tale estensione risulti chiaramente dalla disciplina individuale o collettiva del rapporto dedotto in giudizio, la cui interpretazione non può che appartenere al giudice di merito». Una conferma, insomma, della possibilità anche oggi di tenere in vita l’articolo 18 per il tramite della autonomia negoziale privata non solo a livello individuale ma anche collettivo (in questo senso vedi anche Corte di Cassazione, sentenze n. 3116/1988, n. 298/1990, n. 2413/1990) come del resto subito precisato da alcuni tra i più autorevoli promotori del Jobs Act (Taddei: articolo 18 ancora applicabile dalle imprese, in La Repubblica del 12 marzo 2015).
 
Può forse essere tecnicamente impreciso parlare, come hanno fatto i mass media, di articolo 18 come benefit. Resta il fatto che l’applicazione per via contrattuale (individuale o collettiva) dell’articolo 18 ai nuovi assunti non è affatto vietata e, come bene ha rilevato un autorevole giuslavorista come Raffaele De Luca Tamajo che certamente non può essere tacciato di posizioni filo Fiom, «il giudice lo riconoscerebbe come trattamento di miglior favore per il lavoratore» (E Novartis offre l’articolo 18 come benefit, in La Repubblica del 27 marzo 2015).
 
Del tutto pretestuoso, a conclusione di questo ragionamento, sarebbe ritenere l’articolo 18 previsione non sempre e non necessariamente più favorevole per il lavoratore (così invece G. Falasca, Non è vero che l’articolo 18 è sempre migliorativo: piccole notazioni per evitare spiacevoli sorprese, in Lavoro & Impresa del 28 marzo 2015) per il semplice motivo che gli indennizzi previsti dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 sono incrementali in funzione di una anzianità di servizio che non è (quasi) mai accompagnata dalla stabilità reale che, per contro, in regime di articolo 18 è operativa sin dalla stipula del contratto di lavoro previo superamento del solo periodo di prova. Senza richiamare le teorie del conglobamento nella comparazione tra trattamenti previsti da distinti atti normativi, non si spiegherebbe del resto la dura opposizione sindacale rispetto al superamento dell’articolo 18 per i nuovi assunti se le previsioni del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 veicolassero davvero maggiori tutele per il lavoratore. Lavoratore che, in ogni caso, nulla avrebbe da temere nella ipotesi, davvero di scuola, in cui un giudice dovesse ritenere non applicabile l’articolo 18 introdotto per via pattizia perché la conseguenza sarebbe niente altro che il richiamo di una ipotetica normativa di miglior favore.
 
Altra cosa, ovviamente, è valutare l’effetto di siffatte clausole pattizie sulle finalità macroeconomiche della riforma. Analisi che, tuttavia, fuoriesce dalla economia del presente ragionamento e, ancor di più, dalla nostra competenza disciplinare. In questa sede, una volta chiarito l’esatto quadro normativo di riferimento, ci possiamo pertanto limitare a segnalare il nostro personale favore verso qualsivoglia intervento legislativo che, in logica sussidiaria, apra spazi alla libertà contrattuale delle parti, direttamente o per il tramite delle loro rappresentanze. Anche se, in questo caso, pare invero plausibile che l’operatività di forme convenzionali di stabilità del rapporto di lavoro andrà ad esclusivo beneficio dei gruppi di lavoratori più forti sul mercato in ragione delle competenze e professionalità possedute.
 
([1]) Si pensi, in particolare, alle problematiche in punto di prescrizione dei diritti retributivi che, a seguito del superamento del regime di stabilità reale, sono ora destinate a sollevare non poche difficoltà operative e gestionali alle imprese. Sul punto cfr. A. Tursi, Jobs Act: l’altra faccia delle “tutele crescenti”, in Ipsoa Quotidiano del 21 marzo 2015.
 
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico di ADAPT
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