La malattia del lavoratore tra diritto alla conservazione del posto e potere di licenziamento

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Bollettino ADAPT 29 maggio 2023, n. 20
 
Le brevi ma ripetute assenze del lavoratore giustificate da eventi morbosi (fenomeno che viene conosciuto dai più come “assenteismo”) possono comportare il licenziamento per superamento del periodo di comporto: trattasi di un licenziamento che si giustifica alla luce del fatto che il datore di lavoro per un certo periodo di tempo (individuato dal CCNL) ha dovuto “sopportare” l’assenza del lavoratore, oltre il quale però si ri-espande il proprio potere di organizzazione e dunque (anche quello) di recedere dal contratto di lavoro. Tuttavia, è opportuno precisare che non tutte le assenze brevi per malattia consentono al datore di recedere dal contratto di lavoro una volta superato il periodo di comporto. A tal proposito, infatti, occorre ricordare che la contrattazione collettiva, nell’individuare un ampio arco temporale di conservazione del posto di lavoro (cioè il c.d. periodo di comporto), è solita distinguere tra malattia semplice e malattia grave.
 
Il quadro normativo

 
Ai sensi dell’art. 2110, comma 2, del c.c., nei casi di infortunio o malattia “l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità”. La norma, in sostanza, stabilisce che l’imprenditore può recedere dal contratto, e quindi licenziare il lavoratore, nel caso in cui l’assenza per malattia superi il c.d. periodo di comporto stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, o in via residuale, dagli usi. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente, nell’art. 2110, comma 2, c.c. si rinviene “un’astratta predeterminazione del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. Sez. Un. n. 12568/2018).
 
Generalmente, è la contrattazione collettiva che individua la durata di tale periodo. In particolare, diversi CCNL sono soliti disciplinare un differente (e maggiore) arco temporale di conservazione del posto qualora esso si riferisca ai lavoratori affetti da gravi patologie (segnatamente, quelle oncologiche) rispetto ai lavoratori affetti da patologie “non gravi”.  Ad esempio, nel settore delle lavanderie industriali e centrali di sterilizzazione, l’art. 71 del CCNL al comma 13 prevede che L’obbligo di conservazione del posto per l’azienda cesserà comunque ove nell’arco di 30 mesi si superi il predetto limite di 395 gg. anche con più malattie, con esclusione, per entrambi i limiti, dei periodi di ricovero ospedaliero”; diversamente al comma 14 è stabilito che “Ai lavoratori affetti da gravi patologie oncologiche, dalle quali risultino degli effetti invalidanti di terapie salvavita, attestate da certificato rilasciato dalla divisione sanitaria oncologica di competenza, l’impresa riconoscerà un limite più ampio del termine di conservazione del posto, fissato in complessivi 455 giorni nell’arco di 30 mesi anche con più malattie e con esclusione, per entrambi i limiti, dei periodi di ricovero ospedaliero e day hospital”.
 
Sulla tempestività del licenziamento
 
Il licenziamento per superato periodo di comporto deve essere tempestivo, nel senso che deve essere intimato in un periodo di tempo ragionevolmente breve rispetto al superamento del comporto. Tale requisito è infatti necessario per non lasciare il rapporto di lavoro in un prolungato stato di risolubilità e per dare certezza alla vicenda contrattuale. Tuttavia la tempestività del licenziamento, come chiarito dalla giurisprudenza, non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito dovrà effettuare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 18960/2020). Per contro, il lavoratore è tenuto a provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, così da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro.
 
In conclusione, sono diverse le situazioni che possono verificarsi. In alcuni casi, il datore di lavoro potrà scegliere di recedere dal rapporto non appena terminato il periodo di comporto oppure potrà attendere la ripresa del servizio per poi licenziare il dipendente. In altri casi se il lavoratore, esaurito il periodo di comporto prosegue ininterrottamente l’assenza per malattia, il datore di lavoro potrà  decidere di attendere alcuni mesi prima di intimare il licenziamento senza che questo possa rilevare in senso negativo rispetto al requisito della tempestività: difatti tale scelta può essere semplicemente indice di una maggiore tolleranza riguardo alla durata dell’assenza e non può in ogni caso essere interpretata come rinuncia implicita all’esercizio del potere di recesso.
 
Alessandra Sannipoli

Scuola di Dottorato di ricerca in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@alesanni1310

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