Il telelavoro transfrontaliero inciampa nel fisco: problemi e (possibili) soluzioni

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Bollettino ADAPT 24 ottobre 2022, n. 36
 
Accogliendo le istanze avanzate dalla Commissione europea, lo scorso 1° luglio 2022, il Comitato economico e sociale europeo (CESE) ha espresso il proprio Parere in merito alla «Tassazione dei telelavoratori transfrontalieri e dei loro datori di lavoro».
 
Il crescente ricorso a forme di lavoro da remoto coinvolge, ora, anche i sistemi fiscali internazionali, poiché le prestazioni possono essere rese dall’estero. Nasce, quindi, l’esigenza di implementarne la regolamentazione in modo semplice e coordinato fra i vari Paesi, per evitare che la mobilità all’interno dell’UE si traduca, sul piano pratico, in doppie imposizioni fiscali – ovvero nell’involontaria assenza di imposizione – sia per i datori di lavoro, sia per i propri dipendenti che lavorano all’estero.
 
Quanto a questi ultimi, il CESE ha osservato che un telelavoratore transfrontaliero potrebbe essere esposto al rischio di una doppia tassazione sul proprio reddito, così come potrebbe essere obbligato a presentare due dichiarazioni fiscali distinte, da consegnare in momenti diversi, a causa di possibili differenze nei termini di dichiarazione fra due Stati membri2. Sul versante datoriale, invece, i telelavoratori “internazionali” potrebbero costituire una stabile organizzazione dell’impresa per la quale lavorano, collocata in un Paese diverso da quello in cui essa ha sede: in tal caso, l’organizzazione sarebbe costretta a scomporre le entrate in funzione della loro origine geografica e sarebbe, dunque, soggetta a obblighi di dichiarazione e di pagamento delle imposte sugli utili in regimi fiscali differenti.
 
Pur riconoscendo il diritto di ogni Stato membro dell’Unione a decidere se imporre una tassa sul proprio territorio (e, nel caso, l’ammontare della relativa aliquota), il CESE ha rilevato che i principi fiscali sul telelavoro transfrontaliero andrebbero ridefiniti e armonizzati, a monte, a livello europeo. Allorché la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione nell’Unione è la pre(e pro)messa per la costruzione di un mercato unico efficiente, urge aggiornare i sistemi di tassazione, sì da rispondere agli attuali bisogni di lavoratori e imprese.
 
Contesto di riferimento: la spinta al lavoro da remoto
 
Come noto, la pandemia da Covid-19 ha accelerato la transizione verso nuovi modelli di organizzazione del lavoro. La propagazione del virus ha determinato un impulso, rapido e massivo, al lavoro a distanza” (rectius, “da casa”), quale risposta sistemica al diffondersi del contagio, idonea a salvaguardare diritti costituzionalmente protetti (salute, lavoro e libertà di iniziativa economica privata). Da istituto circoscritto a poche imprese di grandi dimensioni, il lavoro da remoto è, così, divenuto ancora di salvezza, consentendo la ripresa (ovvero la prosecuzione) delle attività, nonostante il distanziamento sociale imposto dall’emergenza.
 
Ancorché confinati entro le mura domestiche, con orari fissi e spesso dilatati, i dipendenti hanno sperimentato pregi e limiti di questa modalità di lavorare. Allo stesso tempo, le imprese, costrette a un ammodernamento dei propri paradigmi organizzativi, hanno compreso quanto fosse ampia la platea di potenziali destinatari dello strumento, verificando potenzialità e risparmi derivanti da una sua introduzione su larga scala.
 
A prescindere dai singoli effetti percepitidistorti da una situazione di calamità in cui, complici la paura di contrarre il virus e le restrizioni anti-contagio, se ne sono confusi i piani di osservazione – il remote working si è dimostrato un mezzo efficace per fronteggiare gli effetti della crisi sanitaria (ma pure economica e sociale) su persone e organizzazioni.
 
Con il passaggio a una nuova normalità, si affacciano, oggi, inedite opportunità ed esigenze, che questo modello di lavoro (per obiettivi) può contribuire a soddisfare.
 
La cartina di tornasole è rappresentata dalla cd. Grande Dimissione post-pandemica3, che ha visto – e che continua a vedere – ingenti flussi di lavoratori muoversi alla ricerca di condizioni lavorative più appaganti, non soltanto dal punto di vista salariale. La tensione è verso vere e proprie transizioni occupazionali, nella consapevolezza di come (tra i vari benefits) il lavoro “a distanza” possa rappresentare uno strumento generativo di benessere, conciliazione e inclusione4, soprattutto per coloro che, necessitando di un maggiore bilanciamento delle proprie esigenze, sono sfavoriti nel lavoro tradizionalmente reso.
 
Si pensi, poi, al fenomeno delle migrazioni climatiche, che – per effetto della alterazione delle precipitazioni, dell’aumento delle temperature e di altri eventi ambientali estremi che rendono le condizioni di vita delle popolazioni sempre più precarie – costringe le persone a spostarsi dal proprio Paese di origine, verso luoghi (di lavoro) maggiormente salubri5. Se è vero che l’Europa e, in particolare, l’Italia non paiono aver subito ancora l’effetto di tali mutamenti climatici allo stesso modo di quanto è, invece, già tragicamente accaduto in Messico e in altri territori dell’America centrale o dell’Africa Sub-Sahariana, il lavoro reso dal nostro Paese per organizzazioni collocate altrove potrebbe rappresentare una risposta adattiva e resiliente per i rifugiati climatici. Garantire ospitalità a coloro che fuggono da ambienti “invivibili”, consentendo loro di lavorare da remoto per datori siti all’estero, permetterebbe di tradurre tali migrazioni (anche) in una leva per il ripopolamento dei nostri territori marginali6 e, al contempo, di mantenere un legame con i datori e i luoghi d’origine.
 
Le regole per l’agilità “all’italiana”
 
Mentre le Parti sociali europee hanno raggiunto l’intesa per la revisione e l’aggiornamento dell’Accordo quadro sul Telelavoro, sì da adattarlo ai mutati contesti organizzativi, presumibilmente (in vista della sua attuazione tramite direttiva) riunendo le diverse forme di lavoro a distanza all’interno di un’unica formula7, lo strumento che, in Italia, sul piano applicativo, regna sovrano è il lavoro agile (meglio noto come smart working).
 
Nonostante fosse già stato previsto dalla contrattazione collettiva, soprattutto di secondo livello nelle imprese più lungimiranti, l’istituto affonda normativamente le proprie radici nel Capo II della L. n. 81/2017, ove è definito quale peculiare «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, stabilita mediante accordo tra le parti» al fine di «incrementare la competitività [aziendale] e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro [dei dipendenti]». Si tratta di un lavoro ibrido, in cui la prestazione è resa in alternanza, cioè «eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa», ed «entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro» stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi8 .
 
Così intesa, l’agilità non è incompatibile, anzi, con il lavoro transfrontaliero, rispetto al quale la residenza o il domicilio all’estero non paiono d’ostacolo alla prestazione in modalità smart. Tuttavia, nonostante l’assenza, per un verso, di «precisi vincoli di luogo» e, per l’altro, di una «postazione fissa», all’interno dell’accordo individuale è sempre opportuno specificare alcuni profili relativi alla dimensione spaziale del lavoro agile: infatti, pur sussistendo una certa discrezionalità nella scelta dei luoghi esterni ai locali aziendali da cui eseguire la prestazione a distanza, nel patto di agilità è bene indicare i luoghi esterni che risultino inidonei all’esecuzione della prestazione da remoto (come, per esempio, gli spazi aperti al pubblico), per tutelare la riservatezza delle informazioni sensibili dell’azienda e, ancor più, per proteggere il lavoratore dai rischi per la salute e sicurezza9 .
 
Benché apparentemente concessa dalla L. n. 81/2017, la possibilità di lavorare dall’estero si scontra, dunque, con la difficoltà del datore di verificare la salubrità dell’ambiente dal quale il prestatore lavora. Laddove si voglia prevedere tale facoltà, a livello individuale o collettivo, sarà compito dell’impresa fornire al dipendente apposite istruzioni per permettergli di svolgere la prestazione in modo regolare e in un luogo sicuro, per sé e per l’azienda.
 
Quanto alla posizione del lavoratore residente in Italia, impiegato stabilmente in una impresa collocata all’estero, lo svolgimento dell’attività dall’Italia non pone particolari problemi. Diversamente, l’autorizzazione alla prestazione agile svolta all’estero (per chi sia residente o domiciliato in un altro Paese) impone la verifica della idoneità – ai fini della sicurezza – dell’ambiente di lavoro. In mancanza di verifica, che potrà svolgersi anch’essa da remoto, attraverso l’acquisizione di documentazione (a mezzo di video e immagini) e di dichiarazioni del lavoratore, sussiste, infatti, una incauta posizione datoriale rispetto alla garanzia per la salute e sicurezza del lavoro, che rientra nei principi dell’ordine pubblico.
 
La normativa nazionale in materia di impatriati e nomadi digitali
 
L’Agenzia Entrate, in diversi interpelli10 , si è pronunciata in merito alla possibilità di applicare, anche ai lavoratori agili, il cd. regime speciale per lavoratori impatriati, disciplinato dall’art. 16, D. Lgs. n. 147/2015, come successivamente modificato dall’art. 5, D.L. n. 34/2019. Sul punto, occorre sottolineare come il legislatore abbia inteso incentivare, attraverso la leva fiscale, il rientro della forza lavoro emigrata all’estero.
 
In particolare, l’art. 16, D. Lgs. n. 147/2015 prevede un regime di tassazione agevolata temporaneo, riconosciuto ai lavoratori che trasferiscono la residenza in Italia, a condizione che: i) il lavoratore non sia stato residente in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il trasferimento; ii) si impegni a risiedervi per almeno due anni; iii) l’attività lavorativa sia svolta prevalentemente nel territorio italiano. Inoltre, tale disposizione, per come modificata dall’art. 5, c. 1, D. L. n. 34/2019, non richiede che l’attività sia svolta per un’impresa operante sul territorio dello Stato e, pertanto, possono accedere all’agevolazione anche i lavoratori che svolgono in Italia attività alle dipendenze di un datore con sede all’estero, o i cui committenti (in caso di lavoro autonomo o di impresa) siano stranieri non residenti.
 
Per i contribuenti che si trovano in tali condizioni, nel periodo d’imposta in cui la residenza viene trasferita, nonché nei successivi quattro, il reddito di lavoro dipendente (o a esso assimilato) e di lavoro autonomo, prodotto in Italia, concorre alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30% dell’ammontare (o al 10% se la residenza è presa in una delle Regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia). I benefici si applicano per ulteriori cinque periodi d’imposta ai lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico e a quelli che diventano proprietari di almeno un’unità immobiliare residenziale in Italia dopo il trasferimento o nei 12 mesi precedenti. Per il periodo di prolungamento, i redditi agevolati concorrono alla formazione dell’imponibile per il 50% del loro ammontare (o per il 10%, in caso di lavoratori con almeno tre figli minorenni o a carico).
 
In questo scenario, delineato dalla prassi amministrativa, la approvazione del D.L. n. 4/2022 (Decreto “Sostegni-ter”), converto in L. n. 25/2022, ha introdotto la figura dei nomadi digitali, al fine di attrarre (o richiamare) talenti dall’estero. In particolare, si tratta di «cittadini di un Paese terzo, che svolgono attività lavorativa altamente qualificata attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di lavorare da remoto in via autonoma ovvero per un’impresa anche non residente nel territorio dello Stato italiano», a cui è riconosciuto questo particolare regime di vantaggio.
 
Nel caso in cui questi lavoratori «svolgano l’attività in Italia, non è richiesto il nulla osta al lavoro e il permesso di soggiorno, previa acquisizione del visto d’ingresso, è rilasciato per un periodo non superiore a un anno, a condizione che il titolare abbia la disponibilità di un’assicurazione sanitaria, a copertura di tutti i rischi nel territorio nazionale, e che siano rispettate le disposizioni di carattere fiscale e contributivo vigenti nell’ordinamento nazionale». A tali condizioni, il permesso di soggiorno annuale è, altresì, prorogabile per un ulteriore anno ed estendibile al nucleo familiare del lavoratore da remoto.
 
In attesa del «decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, con il Ministro del turismo e con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali» che avrebbe dovuto essere adottato entro la fine di aprile 2022, non è ancora chiaro quali saranno «le modalità e i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno ai nomadi digitali, ivi comprese le categorie di lavoratori altamente qualificati che possono beneficiare del permesso, i limiti minimi di reddito del richiedente nonché le modalità necessarie per la verifica dell’attività lavorativa da svolgere».
 
Si tratta, in tutti i casi, di una duplice eccezione rispetto alle quote di ingresso “per lavoro” previste dal cd. Decreto Flussi (art. 27, D. Lgs. n. 286/1998)11 : in primo luogo, si osserva una deroga dal punto di vista quantitativo, poiché sono consentiti ingressi extra rispetto a quelli individuati dal Governo. Inoltre, le singolarità risiedono anche nel dato qualitativo, non essendo necessario l’accordo con il Paese terzo di provenienza per accogliere il prestatore, che potrà essere autonomo o subordinato a distanza12.
 
I regimi fiscali prima, durante e, in prospettiva, oltre l’emergenza
 
Sebbene la possibilità di lavorare da remoto vari in funzione del settore considerato e delle mansioni svolte dal lavoratore, il CESE, nel Parere d’iniziativa descritto in apertura, ritiene che il telelavoro debba essere accolto favorevolmente (anche per soddisfare le ambizioni di riduzione dell’inquinamento di cui al Green Deal europeo) e, ove possibile, incoraggiato attraverso la leva fiscale. L’azione pare, oggi, indifferibile, soprattutto laddove si colga la velocità con cui le trasformazioni della organizzazione del lavoro stanno spostando i lavoratori oltre i confini nazionali e la misurazione del lavoro oltre la sua tradizionale dimensione spazio-temporale.
 
Come anticipato, però, la condizione dei telelavoratori transfrontalieri rischia di generare un particolare regime di doppia tassazione – a carico degli stessi lavoratori “internazionali”, ma anche per i propri datori di lavoro – tale da ostare alla libera circolazione nel mercato unico.
 
A tanto si aggiungano, poi, le criticità sul piano previdenziale, non considerate nel Parere qui in commento. In particolare, l’art. 11 del Regolamento 883/2004/UE e l’art. 13 del Regolamento 1408/1971/UE hanno sancito il cd. principio di territorialità, secondo il quale il lavoratore è assoggettato, da un punto di vista contributivo, alla legislazione dello Stato estero in cui svolge la prestazione lavorativa, a prescindere dalla propria residenza.
 
In ragione di tale principio e in assenza di una espressa deroga (ovvero di specifichi accordi tra gli enti previdenziali coinvolti), il datore e il lavoratore sono obbligati ad assolvere ai propri oneri previdenziali con il versamento della contribuzione agli Enti preposti del Paese estero di svolgimento dell’attività lavorativa.
 
Il quadro così delineato tende a rallentare la mobilità internazionale dei telelavoratori nell’UE, risvegliando le resistenze all’innovazione dei datori (rispetto alla possibilità di una efficace implementazione del lavoro da remoto), avvertite già prima dell’esplosione della pandemia.
 
A) La tassazione del reddito da (tele)lavoro (transfrontaliero) dipendente
 
Per quanto concerne la tassazione delle retribuzioni, i dipendenti che risiedono in uno Stato membro (giurisdizione della residenza) e che lavorano per un’impresa situata in un altro Paese (giurisdizione della fonte del reddito) possono essere soggetti a una duplice imposizione, nei casi in cui lo stesso reddito sia tassato da entrambe le giurisdizioni.
 
Per mitigare tale rischio, gli Stati membri hanno concluso accordi bilaterali, seguendo il modello di convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio (MCF) elaborato dall’OCSE. Il principio generale di tale meccanismo prevede che i redditi da lavoro dipendente siano tassati soltanto nella giurisdizione di residenza del lavoratore, ma, nei casi in cui la prestazione sia resa in un altro Stato, quest’ultimo può tassare la parte di reddito riconducibile al lavoro reso sul proprio territorio, purché (alternativamente): i) il lavoratore vi risieda per almeno 183 giorni all’anno; ii) la retribuzione sia versata dal datore nel Paese della fonte del reddito; iii) il pagamento della retribuzione sia a carico di una stabile organizzazione del datore ivi situata.
 
Il MCF stabilisce che, se un lavoratore dipendente risiede in un Paese diverso da quello in cui svolge la propria attività lavorativa abituale, i diritti impositivi sul reddito da lavoro percepito devono essere ripartiti in modo proporzionale, sin dal primo giorno di impiego, tra la giurisdizione della residenza e la giurisdizione della fonte del reddito. Tuttavia, allorché il modello non possiede carattere imperativo, per evitare la ripartizione dei diritti impositivi sul reddito percepito dal dipendente, alcuni Stati hanno introdotto norme diverse, come, per esempio, le cd, strutture de minimis: in questo caso, il reddito del lavoratore è tassato esclusivamente nel Paese di residenza, purché il dipendente non superi un certo numero di giorni di assenza dal luogo abituale di svolgimento dell’attività lavorativa.
 
Nel contesto pandemico, con le limitazioni agli spostamenti transfrontalieri, molti prestatori – specie coloro i quali risiedevano nelle terre di confine – sono stati costretti a telelavorare dal loro Paese di residenza, non potendo recarsi all’estero, ove (normalmente) avrebbero reso la prestazione lavorativa. In questo scenario, numerosi Stati membri dell’Unione hanno adottato i cd. memorandum d’intesa temporanei, per evitare che le giurisdizioni della fonte del reddito perdessero ogni diritto impositivo: in base a tali accordi, i giorni di lavoro presso il domicilio del lavoratore sarebbero stati considerati come realizzati nello Stato in cui veniva abitualmente svolta l’attività lavorativa prima della pandemia13 .
 
B) La tassazione dei redditi d’impresa
 
Per quanto riguarda, invece, la tassazione degli utili delle imprese, dinanzi ai timori della possibile accertazione di stabili organizzazioni derivanti dal telelavoro transfrontaliero, l’OCSE ha pubblicato due linee di indirizzo14 , ove emerge la chiara idea secondo la quale il cambiamento, eccezionale e temporaneo, del luogo di lavoro di un dipendente non comporta la creazione di nuove stabili organizzazioni per il datore di lavoro. In questi termini, il fatto che un prestatore sia stato costretto a lavorare dal proprio domicilio, a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, non è sinonimo di quella permanenza (o continuità) necessaria per equiparare il domicilio del telelavoratore a una stabile organizzazione.
 
Inoltre, è stato chiarito che se un dipendente continuasse a lavorare “da casa” dopo la fine della pandemia (conferendo, così, un certo grado di permanenza o continuità al telelavoro reso dalla propria abitazione), non per questo verrebbe necessariamente creata una stabile organizzazione del datore di lavoro, risultando comunque necessario un esame ulteriore dei fatti e delle circostanze concrete.
 
C) Verso un nuovo Sportello Unico
 
All’esito di quanto sin qui ricostruito, nel Parere in commento, il CESE chiarisce di aver accolto con favore le misure fiscali temporanee che gli Stati membri hanno adottato durante la pandemia, nella misura in cui esse hanno consentito di sostenere l’occupazione e l’economia, evitando la doppia imposizione sui lavoratori transfrontalieri e sui loro datori.
 
In prospettiva, il CESE sollecita la Commissione europea a valutare la possibilità di introdurre uno Sportello Unico per i telelavoratori transfrontalieri, come quello esistente per l’Imposta sul Valore Aggiunto15 . Con questa soluzione, il datore di lavoro sarebbe tenuto a comunicare, in rapporto ai propri telelavoratori transfrontalieri, per quanti giorni essi abbiano lavorato “da casa” nel proprio Paese di residenza e per quanti giorni essi abbiano lavorato nel Paese in cui il datore ha sede. Di tal guisa, le autorità fiscali sarebbero messe nella condizione di valutare in quale Stato il reddito sia imponibile, ovvero le porzioni di reddito imponibili in ciascun Paese16 .
 
Inoltre, acquisito che, di norma, il datore di lavoro è tenuto a prelevare le ritenute alla fonte sulle retribuzioni dei propri dipendenti e che i contributi previdenziali ai regimi pensionistici pubblici e le altre prestazioni sociali per i dipendenti si basano sul reddito del lavoratore (anche se il rispettivo versamento spesso avviene separatamente)17 , l’introduzione dello Sportello Unico consentirebbe al datore di versare le ritenute per il telelavoratore secondo un sistema in grado di ridistribuire al Paese destinatario appropriato le somme prelevate.
 
Un intervento non rinviabile
 
Il CESE ha ripetutamente chiesto alle autorità fiscali degli Stati membri di attuare una cooperazione più stretta, per agevolare l’accesso di lavoratori e imprese ai nuovi modelli di lavoro (oltre i confini) e per combattere, in maniera più semplice ed efficiente, la frode e l’evasione fiscale. Invero, la prospettazione di uno Sportello Unico per i telelavoratori transfrontalieri rappresenta un importante passo a sostegno di un mercato unico più efficiente, idoneo a consentire ai datori di lavoro e ai propri dipendenti di ridurre le vertenze tributarie con gli Stati membri e ad assicurare una corretta riscossione delle imposte, senza obbligare i cittadini a presentare dichiarazioni fiscali in più Paesi.
 
Non saranno certamente le questioni fiscali a frenare il processo di trasformazione del lavoro, che pure rischia, su questo tema, di avere effetti dirompenti sui mercati del lavoro: dopo la fuga, il rischio è la delocalizzazione dei cervelli, da un lato, ovvero lo scippo delle intelligenze locali, dall’altro. Ma va sempre ricordato che, ove ben strutturata, la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa “a distanza” si presta a divenire foriera di benessere (individuale e collettivo) per lavoratori e imprese, generando riflessi positivi anche su ambiente e territorio, in termini di sostenibilità e di riduzione dell’inquinamento.
 
Sicché, compresa la portata del fenomeno e i benefici che da esso possono derivare, sembrano maturi i tempi per un intervento normativo in materia.
 
Massimiliano De Falco

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@M_De_Falco
 
1 Cfr. European Commission, Communication from the Commission to the Council, the European Parliament and the European Economic and social Committee. Removing cross-border tax obstacles for EU citizens, 2010.

2 Come evidenziato da European Commission, Tax in an increasingly mobile working environment: challenges and opportunities, 2021, la condizione dei telelavoratori transfrontalieri potrebbe creare anche ulteriori criticità, qualora determinati oneri fiscali necessari a generare il reddito dovessero essere precisamente ripartiti fra due Paesi. Inoltre, benché la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del14 febbraio 1995 (C-279/93) abbia statuito che una Stato membro deve concedere agevolazioni fiscali ai non residenti allorquando il reddito da questi percepito proviene «totalmente o quasi esclusivamente» da tale Stato membro, vi è il concreto rischio che i telelavoratori transfrontalieri siano discriminati nell’accesso a contributi, esenzioni o di crediti di imposta.

3 Cfr. Brunetta, Tiraboschi, Grande Dimissione: fuga dal lavoro o narrazione emotiva? Qualche riflessione su letteratura, dati e tendenze, in WP ADAPT, n. 6/2022.

4 Sul punto, si segnala come da Eurofound, Labour market change – Teleworkability and the COVID-19 crisis: a new digital divide?, 2021, sia emerso che il 46% dei lavoratori dell’UE abbia espresso la preferenza di continuare a lavorare da casa «quotidianamente» o, comunque, «più volte la settimana» anche dopo la cessazione (formale) dello stato di emergenza.

5 Un recente studio redatto da The World Bank, Groundswell Part II. Acting for Internal Climate Migration, Washington, 2021, stima che il numero di migranti ambientali potrebbe raggiungere i 216 milioni entro il 2050.

6 Sul punto, sia consentito il rinvio a De Falco, Lavoro agile: da ancora di salvezza a leva per il ripopolamento dei piccoli comuni, in Bollettino ADAPT, n. 39/2021.

7 Cfr. Dagnino, Tiraboschi, L’accordo tra parti sociali europee per una direttiva condivisa sul telelavoro: una concessione per riportare il dibattito sullo smart working sul giusto binario, in Bollettino ADAPT, n. 26/2022.

8 Come noto, rispetto alla (scarna e frammentaria) disciplina delineata dal legislatore del 2017, durante l’emergenza, è intervenuta una fitta alluvione di decreti, che ha temporaneamente derogato e semplificato l’impianto dalla L. n. 81, in termini condizionati al permanere dello stato di emergenza. Sul solco tracciato dalle linee di indirizzo di cui al «Protocollo sul lavoro agile nel settore privato» del 7 dicembre 2021, nell’estate del 2022, è stato avviato un percorso di vero e proprio aggiornamento (definitivo) della normativa, frutto di decreti (legge e legislativi) di transizione verso la nuova normalità post-pandemica e di attuazione della Direttiva 2019/1158/UE  sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Sul punto, anche per una analisi in chiave prospettica, v. Brollo, Lo smart working verso il new normal, in corso di stampa in Il lavoro nella giurisprudenza.

9 Al riguardo, l’art. 4, c. 1 del Protocollo sul lavoro agile nel settore privato chiarisce che «il lavoratore è libero di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire la regolare esecuzione della prestazione, in condizioni di sicurezza e riservatezza, anche con specifico riferimento al trattamento dei dati e delle informazioni aziendali, nonché alle esigenze di connessione con i sistemi aziendali». Il successivo c. 2 aggiunge che «la contrattazione collettiva può individuare i luoghi inidonei allo svolgimento del lavoro in modalità agile per motivi di sicurezza personale o protezione, segretezza e riservatezza dei dati». Altresì, l’art. 6, c. 3 del Protocollo ha sottolineato come «la prestazione effettuata in modalità di lavoro agile deve essere svolta esclusivamente in ambienti idonei, ai sensi della normativa vigente in tema di salute e sicurezza e per ragione dell’esigenza di riservatezza dei dati trattati». Se ne ricava, quindi, che il dipendente dovrà scegliere un luogo esterno di lavoro che consenta il pieno esercizio della propria attività lavorativa in condizioni di sicurezza, secondo quanto appreso durante appositi corsi di formazione, alla partecipazione ai quali sarà opportuno subordinare l’ammissione del singolo dipendente alla modalità agile.

10 Cfr. Interpelli Agenzia Entrate, nn. 596/2021; 621/2021; 3/2022; 32/2022; 55/2022; 157/2022.

11 Su cui v. Lafratta, Il decreto flussi tra vecchie ombre e nuove esigenze, in Labor, 4/2022.

12 Per una più ampia disamina della condizione dei nomadi digitali, in dottrina, v. Zilli, Il lavoro degli stranieri in Italia nelle (e oltre) le emergenze, in Labor, 4/2022.

13 Invero, tale regola riguardava soltanto i lavoratori costretti a telelavorare a causa della contingenza e non i lavoratori transfrontalieri che già prestavano la propria collaborazione da remoto prima della pandemia.

14 Cfr. Organization for Economic Cooperation and Development, Updated guidance on tax treaties and the impact of the COVID-19 pandemic, 2020 e Organization for Economic Cooperation and Development, OECD Secretariat analysis of tax treaties and the impact of the COVID-19 crisis, 2021.

15 Lo Sportello Unico per l’IVA (MOSS) è stato istituito dall’Unione europea per alleggerire gli oneri amministrativi gravanti sulle imprese che vendono a consumatori in Stati membri dell’UE diversi da quello in cui hanno la sede. Il MOSS consente alle imprese di presentare un’unica dichiarazione IVA in cui sono riportate le vendite effettuate in più Stati membri, anziché doversi registrare ai fini dell’IVA in ciascun Paese.

16 Tale raccomandazione è già stata valutata positivamente da European Commission, Ways to tackle cross-border tax obstacles facing individuals within the EU, 2016.

17 Rispetto alla questione dei contributi previdenziali, il CESE si riserva di affrontarla in un successivo parere, non ancora reso pubblico.

Il telelavoro transfrontaliero inciampa nel fisco: problemi e (possibili) soluzioni