Bollettino ADAPT 27 gennaio 2025, n. 4
La Corte costituzionale ha avviato il conto alla rovescia per il referendum, promosso dalla Cgil di Landini (e appoggiato dal Pd di Schlein), abrogativo della disciplina dei licenziamenti. Tale consultazione è stata battezzata sul Jobs Act, quale simbolo di revisione della riforma del Governo Renzi e della politica flessibile del lavoro. Quindi inizia una partita molto delicata, specie per il centro sinistra, di cui si intravedono rischi e pericoli.
In attesa della primavera, è tempo di iniziare una riflessione anche giuridica. La posta in gioco è quella della graduazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi. Tema, questo, da sempre cruciale dato che incrocia diritti, valori, ragioni dell’economia e soprattutto tante passioni. Purtroppo non sempre serene. Forse l’informazione concreta può dare una mano a farsi un’idea, almeno delle coordinate tecnico/legali, che sono complicate e disordinate. Provo a sintetizzare, e a semplificare, la questione di un diritto del lavoro sempre più veloce, ondivago e slabbrato.
Il quesito chiede di cancellare un tassello del Jobs Act, riforma composta da una legge delega e ben otto decreti legislativi. Tecnicamente, il quesito interroga circa la cancellazione (totale) di un (solo) decreto (il n. 23 del 2015) che, apparentemente, ha introdotto il contratto di lavoro a tutele crescenti per i dipendenti assunti dopo il varo del Jobs Act (in pratica, dopo il 7 marzo 2015).
Nella sostanza, tale decreto ha modificato la disciplina dei licenziamenti illegittimi, nell’ottica di restringere le tutele per i lavoratori di nuova assunzione. Da un lato, con la previsione di una ulteriore riduzione della tutela “forte”, reale o reintegratoria, di conservazione del rapporto di lavoro. Dall’altro lato, con la previsione di una ulteriore espansione della tutela (solo) “debole”, di monetizzazione delle tutele, con la perdita del posto di lavoro.
Ulteriore, va precisato, rispetto alla modifica apportata, tre anni prima (nel 2012), dalla riforma Fornero (legge n. 92) che a, sua volta, ha riscritto il famoso art. 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, nel senso di aumentare la flessibilità in uscita per i datori di lavoro nel settore privato. Ulteriore, va chiarito, perché per i vecchi assunti (prima del 7 marzo 2015) resta in vigore la riforma del 2012. Da qui, l’attuale situazione di uno stravagante (e furbo) “raddoppio” della disciplina dei licenziamenti, a seconda della data di assunzione dei lavoratori della stessa azienda, tra riforma Fornero e Jobs Act.
A prima vista, la scelta per gli elettori è quella di un voto contro o pro il ridimensionamento legale della tutela forte per i lavoratori (assunti nell’ultimo decennio e) licenziati in modo sbagliato. Ma la questione è molto più complessa. Con la consapevolezza che su di essa aleggia il macigno della difficile scommessa sul quorum elettorale.
Dal punto di vista sistematico, in caso di vittoria del referendum ci sarebbe la cancellazione della riforma dei licenziamenti del Jobs Act. Attenzione, però, non nella formulazione legislativa originaria (contestata dalla Cgil), bensì nella versione corretta (o meglio contro-riformata) dalla Corte Costituzionale (credo apprezzata dalla Cgil), con un fitta serie di sentenze, che recupera alcune tutele forti per i lavoratori. Inoltre, ci sarebbe il positivo ritorno a una disciplina (che ridiventa) “unica” dei licenziamenti per le imprese medio-grandi.
Ma quale disciplina? Non certo, con un tuffo nel lontano passato, con il ritorno del fantasma dell’art. 18 del secolo scorso. Il ritorno sarebbe, invece, alla riforma Fornero. Anch’essa, però, non nella formulazione legislativa inziale (contestata dalla Cgil), bensì nella versione contro-riformata dalla Corte Costituzionale (credo apprezzata dalla Cgil). Il tutto, con un gioco di incastri e intrecci politico-sindacali piuttosto liquidi o compositi.
Se così è, sul palcoscenico dell’opinione pubblica, della politica (anche del diritto) e dei valori in gioco gli orientamenti sono (e saranno) molto contrastanti nell’auspicare un certo esito del referendum. Ma nel retro-bottega, di gestione della realtà concreta, l’impatto di un successo del quesito referendario non sembra così dirompente come auspicato dai promotori. E presenta qualche cortocircuito imprevisto.
Paradossalmente, il referendum (qualunque sia l’esito) non soddisferà l’aspirazione di fondo di molti cittadini (tra cui ci sono lavoratori, datori e sindacalisti) a una revisione organica ed equa della complessiva disciplina dei licenziamenti, in linea con le trasformazioni strutturali in corso. Sicché questo arduo compito ritorna, come un boomerang, al vero protagonista della vicenda: il legislatore, come già ricordato dalla stessa Corte Costituzionale che, nel frattempo, attende dal Parlamento le 4 nomine mancanti per poter lavorare con serenità.
Se gioca d’anticipo, il vero protagonista potrebbe essere il Governo di centro-destra, a cominciare dalla stessa Presidente del Consiglio. Viceversa, la storia insegna che si corre il rischio di una consacrazione delle leggi oggetto di campagna referendaria come sostanzialmente intoccabili, neutralizzando prossime modifiche parlamentari.
Marina Brollo
Ordinaria di diritto del lavoro
Università degli Studi di Udine@MarinaBrollo
*Pubblicato anche su Il Messaggero Veneto, 26 gennaio 2025