Bollettino ADAPT 27 ottobre 2025, n. 37
Non è passato di certo inosservato il monito del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sul preoccupante fenomeno della contrattazione pirata, ritenuta una delle cause che sta deprimendo l’andamento della dinamica salariale in Italia, spingendo così anche i giovani ad emigrare altrove. Da tempo, in realtà, si discute di questo deprecabile fenomeno, quantomeno a partire dal 1992, anno in cui il primo prototipo di contratto pirata fa la sua comparsa sulla scena del sistema contrattuale italiano e da subito attenzionato nelle prime indagini pioneristiche ad opera di Andrea Lassandari (Pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria, in Lavoro e Diritto, 1997, n. 2, p. 261 e ss.) e Donata Gottardi (Significato e anomalia di un contratto, in Lavoro e Informazione, 1997, n. 5, p. 21 e ss.).
Tuttavia, questo fenomeno ora travalica lo stretto interesse degli studiosi, avendo assunto una importante (e ciclica) centralità nel dibattito pubblico. Peraltro, anche le ultime relazioni annuali di importanti istituzioni del Paese, come il CNEL, la Corte di Cassazione e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ne hanno fatto cenno o comunque l’hanno attenzionato in termini problematici.
Nel frattempo, la contrattazione pirata ne ha fatti di passi in avanti, passando da sporadiche sperimentazioni di prototipi ad una vera e propria “opera di ingegnerizzazione”, nell’ottica di conquistare uno spazio di piena agibilità. Ad oggi, non c’è un settore produttivo che non sia potenzialmente interessato da un contratto pirata. Il più delle volte, ci troviamo di fronte a testi contrattuali “prodotti in serie”, che presentano cioè la medesima struttura, lo stesso impianto (talvolta, anche le stesse organizzazioni firmatarie), la medesima disciplina e persino le medesime clausole mentre a cambiare è solo la sfera di applicazione. Nati con lo scopo di abbattere il costo del lavoro – come pure chiarito di recente dalla magistratura (G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, I contratti c.d. “pirata”: dal Tribunale di Roma un importante chiarimento, in Bollettino ADAPT 9 giugno 2025, n. 22) – questi contratti presentano ora degli elementi strutturali comuni che consentono agilmente alle imprese che se ne avvalgono di essere competitive attraverso la contrazione dei salari.
Diverse ricerche hanno provato a documentare, a partire dal 2021, quali siano i tratti salienti della moderna contrattazione pirata: oltre alla scarsa o quasi nulla rappresentatività delle organizzazioni sottoscriventi tali contratti, i livelli salariali da questi previsti sono tendenzialmente decurtati del 20% o finanche del 40% rispetto a quelli previsti dai CCNL sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative (c.d. contratti leader; G. Piglialarmi, Anatomia della contrattazione collettiva pirata. Spunti di riflessione da una ricerca sui contratti Cisal e Confsal, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2021, n. 3, p. 687 e ss.). Una decurtazione che, diluita nei tecnicismi contrattuali, talvolta viene raggiunta grazie a dei sistemi derogatori interni a tali contratti, che consentono di differenziare il salario su base territoriale; talaltra, attraverso meccanismi di differenziazione del salario in base all’età o alla data di assunzione (aspetti, questi ultimi, che la magistratura non ha mancato di valutare criticamente; cfr. Trib. Milano 3 aprile 2025, n. 1617). Peraltro, è da notare come in tali contratti sia possibile riscontrare un significativo divario salariale tra i livelli di inquadramento medi (e medio-bassi) e quelli apicali. E ciò a riprova che chi si avvale di tali contratti è interessato ad applicare le paghe tabellari più dei primi che dei secondi.
Ancora più capzioso è il “gioco” degli inquadramenti contrattuali: per quanto molti dei contratti pirata presentino un sistema di classificazione e inquadramento del personale similare a quello dei contratti leader, i profili professionali sono invece distribuiti in modo disomogeneo all’interno di essi, cosicché non è scontato che il cassiere o il banconista siano inquadrabili allo stesso livello di due CCNL in concorrenza tra loro (di questo aspetto, se ne dà conto ampiamente in G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, Fare contrattazione nel terziario di mercato, ADAPT University Press, 2025, vol. I e II).
Sul versante delle tutele normative, i contratti pirata mirano di frequente a dilatare la definizione di orario normale di lavoro, ad aumentare il lavoro straordinario (con una indennizzazione progressiva) o la durata del periodo di prova – che, come noto, si caratterizza per una facoltà di recesso non particolarmente onerosa – o, ancora, quella del periodo di comporto, proponendo dei criteri temporali di sospensione mobili e che crescono in modo progressivo con l’anzianità di servizio.
Inoltre, è da notare pure la recente tendenza delle organizzazioni sottoscriventi tali contratti a rinnovarli in periodi sfalsati rispetto a quelli dei contratti leader. La strategia, in questo caso, è quella di far risaltare che vi è una parità salariale tra i contratti pirata e i contratti leader. Si tratta, tuttavia, di una parità solo apparente e temporanea, giacché frequentemente il contratto pirata appena rinnovato presenta i livelli salariali di un contratto leader prossimo alla scadenza, i cui livelli salariali saranno incrementati in fase di rinnovo. Questa tendenza risponde principalmente a due principali esigenze: a) consentire alle imprese che applicano il contratto pirata di accedere ai benefici contributivi e normativi ex art. 1, comma 1175 della legge n. 296/2006, posto che ciò è possibile solo se il contratto collettivo applicato dal datore di lavoro è equivalente su alcune voci – tra le quali il salario – al contratto collettivo leader (cfr. circolare INL n. 2/2020); b) consentire alle imprese che si avvalgono della pirateria contrattuale di prendere parte alle gare di appalto, applicando un contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando di gara (possibilità riconosciuta espressamente dall’art. 11, commi 3 e 4 del d.lgs. n. 36/2023), una volta dimostrata l’equivalenza delle tutele normative e soprattutto salariali (non si contano più i casi in cui i lavori pubblici siano stati affidati ad imprese che applicano un contratto pirata, con qualche avallo sporadico della magistratura).
In tale quadro, emerge chiaramente come la pirateria contrattuale si sia attrezzata per sfruttare tutti gli spazi e le feritoie dell’ordinamento, anche con tecnicismi sofisticati e più elaborati rispetto a quelli del passato, nel tentativo di raggiungere le proprie finalità, anche queste nel frattempo mutate o, per meglio dire, arricchite ed evolute. Infatti, non è più in gioco solo l’interesse a consentire ad alcune imprese di essere competitive passando esclusivamente per la leva salariale (o anche tramite la leva degli istituti normativi): come ricordato di recente da Michele Tiraboschi, molti di questi contratti riscontrano un’applicazione irrisoria (A. Feri, M. Tiraboschi, L. Venturi, La contrattazione collettiva di minore applicazione: una prima esplorazione dell’archivio dei contratti del CNEL, in CNEL, Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, n. 31/2025), fondando così il sospetto che la sottoscrizione di un CCNL altro non è che una “porta di ingresso” al mondo dei servizi da erogare alle imprese in materia di formazione, welfare, sicurezza sul lavoro, fiscalità, paghe e contributi, tramite enti bilaterali e fondi contrattuali di dubbia legittimità, che nel frattempo, salvo qualche eccezione, hanno incassato anche l’autorizzazione da parte della pubblica amministrazione a svolgere tali funzioni. Da qui, l’idea che tali organizzazioni (e i relativi contratti che sottoscrivono, come anche gli enti bilaterali che fondano) siano più simili ai corsari che ai pirati, perché legittimati proprio dagli apparati dello Stato – talvolta con un silenzio-assenso, talaltra con atti formali – a svolgere attività che il quadro normativo riserverebbe invece solo ad alcuni sistemi di relazioni industriali.
Se questo è ciò che è possibile fotografare allo stato attuale, non si deve allora sottovalutare la continua e crescente “opera di ingegnerizzazione” della contrattazione pirata, che ora potrebbe puntare ad estendere il più possibile il proprio dominio d’influenza, anche attraverso l’ausilio dei social network.
Da qualche anno, infatti, tali canali di comunicazione sono diventati teatro di pubblicità talvolta ingannevole, che mirano ad attirare l’attenzione del datore di lavoro poco attento (o dei suoi intermediari) e che potrebbe essere facilmente ammaliato dall’occasione del risparmio, grazie all’applicazione non del CCNL ma del “CCNL perfetto per la tua azienda” che può essere scelto “tra oltre 1.000 contratti depositati al CNEL” (così recita un messaggio pubblicitario pubblicato nel 2025). In alcuni casi, sono previsti anche dei webinar promozionali, durante i quali vengono illustrati quali siano le caratteristiche e i vantaggi connessi all’applicazione di determinati CCNL, senza però andare fino in fondo alle possibili conseguenze derivanti da una rigorosa applicazione del quadro normativo (a partire dall’art. 2, comma 25 della legge n. 549/1995).
Tuttavia, a questi spazi d’intervento che tali organizzazioni hanno individuato e coltivato nel tempo, se ne aggiungono altri che talvolta è proprio un legislatore distratto a concedere. Basta leggere l’art. 4, comma 1 della bozza della Legge di Bilancio per rendersi conto che il legislatore sta, in buona sostanza, detassando anche gli incrementi retributivi elargiti ai lavoratori ai quali è applicato un contratto pirata. La disposizione, infatti, non riserva – secondo la tecnica classica e ampiamente diffusa nella nostra legislazione – un tale incentivo solo ai sistemi contrattuali sottoscritti dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative (nell’ottica di rafforzarne l’applicazione) ma genericamente ai “rinnovi contrattuali sottoscritti negli anni 2025 e 2026” e cioè a qualsiasi contratto collettivo rinnovato nell’arco temporale indicato dalla norma.
Davanti a questa disposizione, verrebbe da pensare che è lo Stato stesso talvolta ad auto-sabotarsi, vuoi volontariamente, vuoi per sbadataggine (del resto Quandoque bonus dormitat Homerus).
Se, come da tempo è stato accertato, l’applicazione di un contratto pirata comporta non solo una decurtazione della contribuzione (e quindi un minore gettito previdenziale) ma anche una decurtazione dei redditi da lavoro (e quindi un minore gettito fiscale) a causa dei livelli salariali ridotti – generando così un problema di equilibrio della finanza pubblica – con una previsione normativa di questo tipo non si fa altro che aumentare quel divario fiscale: la norma, infatti, nella sua applicazione generalizzata finisce per “offrire uno sconto” ulteriore anche a chi già paga meno tasse grazie all’applicazione di un contratto pirata. Una vera e propria detassazione “a pioggia”.
Ma v’è di più. Così come attualmente scritto, l’art. 4 della Legge di Bilancio potrebbe tramutarsi in un incentivo di fatto all’applicazione di un contratto pirata. La detassazione in questione, infatti, trova “applicazione con riferimento ai titolari di reddito di lavoro dipendente di importo non superiore a 28.000 euro”. È stato ampiamente dimostrato (G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, cit.) che i profili professionali intermedi disciplinati dai contratti pirata si attestano proprio su queste soglie reddituali, a differenza dei contratti leader che invece consentono già per un profilo intermedio di accedere ad una RAL più elevata (uscendo così fuori dalla misura incentivante). Pertanto, se da un lato l’art. 4 consentirebbe, attraverso la leva fiscale, di aumentare i salari ai lavoratori ai quali si applica un contratto pirata, dall’altro lato la legge di Bilancio non contribuisce a contrastare questo fenomeno, aprendo piuttosto la strada all’ennesima feritoia ordinamentale in cui la contrattazione pirata può continuare potenzialmente ad espandersi in modo (quasi) indisturbato. Più che una misura di contrasto al c.d. “lavoro povero”, infatti, per un’eterogenesi dei fini la manovra rischia di trasformarsi in un incentivo alla pirateria contrattuale.
Considerando questo stato di fatto, viene seriamente da chiedersi se lo Stato, attraverso le sue infrastrutture e le sue articolazioni, voglia concretamente debellare quella che da tempo è ritenuta una vera piaga del mercato del lavoro italiano.
Ricercatore in diritto del lavoro
Università eCampus
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