Le deleghe su salari e contrattazione collettiva tra analisi tecnica e valutazione politica
| di Michele Tiraboschi
Bollettino ADAPT 6 ottobre 2025, n. 34
Sta facendo molto discutere, tra gli addetti ai lavori, il contenuto della legge 26 settembre 2025, n. 144 (approvata dal Senato lo scorso 23 settembre e la cui entrata in vigore è prevista per il 18 ottobre 2025) che affida al Governo, sotto la condizione di neutralità finanziaria dei decreti attuativi (art. 3), un robusto pacchetto di deleghe in materia di retribuzione dei lavoratori e contrattazione collettiva nell’ambito del settore privato (art. 4).
Noi giuristi, come al solito, in presenza di una novità normativa amiamo spaccare il capello in quattro; così come non si è fatta attendere l’accusa di incostituzionalità, rispetto a uno dei punti centrali della legge delega (vedi l’intervento di Pietro Ichino, in relazione al criterio della delega che fa riferimento ai “contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati”, su La voce Info del 30 settembre 2025), che, seppure il più delle volte smentita dal giudice della leggi, è stata una costante nei commenti delle riforme del lavoro degli ultimi trent’anni.
A chi scrive pare superfluo esprimersi in modo minuzioso e dettagliato su singoli aspetti tecnici o anche sugli stessi principi e criteri direttivi della delega. In questa fase è probabilmente di maggiore interesse e utilità soffermarsi sulla impostazione di fondo della legge e soprattutto sulle questioni “politiche” ad essa sottese perché è qui che si possono formulare alcune previsioni sugli schemi dei decreti legislativi e, in generale, sulla possibile evoluzione del quadro normativo anche alla luce delle posizioni espresse in materia dalle parti sociali (qui la sintesi delle memorie delle principali associazioni datoriali e sindacali presentate dinanzi alla competente Commissione al Senato curata da ADAPT).
Una volta scelta questa prospettiva di analisi – che privilegia la lettura della linea di politica legislativa rispetto a una puntuale esegesi di un dato normativo ampiamente sommario ed elastico – risulta evidente che la legge delega, anche a prescindere dalla sua effettiva attuazione da parte del Governo, si propone di chiudere definitivamente la strada alla proposta, avanzata ad inizio di legislatura dai partiti di opposizione, di una legge di fissazione del salario minimo orario. Ciò che se mai può sorprendere – e alimentare qualche dietrologia anche in vista dell’esito del referendum sulla riforma costituzionale della giustizia previsto per primavera del 2026 – sono le tempistiche delle dinamiche parlamentari. Il testo approvato lo scorso 23 settembre era stato infatti inviato dalla Camera al Senato già il 6 dicembre 2023, dopo che un blitz dei partiti di maggioranza aveva svuotato e ribaltato (con un corposo emendamento presentato il 16 novembre 2023 dal Presidente della Commissione lavoro della Camera, on. Rizzetto) il contenuto del disegno di legge dei partiti di opposizione, presentato il 4 luglio 2023, volto alla istituzione del salario minimo. L’improvvisa e inaspettata iniziativa dei partiti di maggioranza, dopo quasi due anni di inoperosità e con un dibattito parlamentare che non ha consentito di introdurre modifiche al testo neppure per le parti superate da provvedimenti successivi (si pensi alla delega in materia di partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell’impresa, superata dalla legge 15 maggio 2025, n. 76), lascia presagire scenari politici più ampi del semplice tentativo di riappropriarsi in termini di consenso del tema dei salari in un contesto in cui i contenuti economici dei recenti rinnovi contrattuali hanno peraltro reso obsoleta la proposta di un salario minimo fissato per legge a (soli) 9 euro lordi. Non è dunque detto che la reale intenzione del Governo, che giù pregusta il favore popolare con il referendum sulla giustizia, sia quella di coltivare la delega entro i sei mesi previsti dalla legge.
Che la delega non sia affatto semplice da interpretare e attuare, rispetto a una materia dove sempre incide la mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, lo si comprende del resto anche da taluni dubbi sollevati da attori sociali, di maggiore e anche minore rappresentatività, rispetto ai quali il Governo non pare indifferente.
La questione, politica più che tecnica, è infatti tutta legata a come intendere la formula chiave utilizzata dalla legge delega per “garantire l’attuazione del diritto dei lavoratori ad una retribuzione proporzionata e sufficiente” e cioè come individuare “per ciascuna categoria di lavoratori, i contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo dei contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati costituisca, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, la condizione economica minima da riconoscere ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria” (art. 1, commi 1 e 2, lett. a)).
Da questo punto di vista è sufficiente leggere la memoria consegnata al Senato dal Consiglio nazionale Consulenti del Lavoro (qui) per inquadrare una prima possibile posizione volta ad assegnare “il fulcro della regolazione retributiva (…) in capo alla contrattazione collettiva maggiormente rappresentativa, quale unica sede idonea a garantire l’equilibrio tra giustizia sociale, sostenibilità economica e valorizzazione professionale nei diversi contesti produttivi” (corsivo nostro). Un filtro selettivo assai diverso da quello da tempo in uso nel nostro ordinamento giuridico attraverso l’impiego della formula del sindacato comparativamente (e non solo maggiormente) più rappresentativo che consentirebbe di includere tra i contratti maggiormente applicati anche quelli sottoscritti da taluni sindacati minori o di debole rappresentatività.
La questione assume tuttavia contorni del tutto differenti se invece si ritorna al punto di origine del testo di legge delega approvato dal Parlamento e cioè il c.d. emendamento Rizzetto che ha ampiamente attinto dal documento di Osservazioni e proposte in materia di salario minimo approvato dalla Assemblea del Consiglio Nazionale della Economia e del Lavoro (CNEL) del 12 ottobre 2023 e non solo per l’indicazione, “nella determinazione del trattamento retributivo di cui all’articolo 36 della Costituzione”, di “fare riferimento non solo al minimo tabellare ma al trattamento economico complessivo ordinario e normale (più elevato) spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi”.
In questo documento il CNEL indicava, come primo passo per un piano d’azione nazionale a supporto della contrattazione collettiva condotta da attori qualificati e realmente rappresentativi, “la messa a punto di una esatta fotografia della contrattazione nazionale di categoria come risultante dall’archivio dei contratti del CNEL, così da individuare i contratti collettivi maggiormente diffusi e applicati, anche con riferimento alla specifica forma o tipologia d’impresa”. Per il CNEL, in assenza di un ampio consenso su una legge sindacale di attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, era questo “un passaggio obbligato per la definizione di uno standard economico minimo di settore, auspicabilmente declinato per ogni livello professionale del sistema di classificazione del lavoro e non solo verso le posizioni più basse della scala contrattuale, come parametro inderogabile per i datori di lavoro che operano in quello specifico settore come già avviene ai fini della determinazione del minimale contributivo”.
Avremo modo di vedere la posizione del Governo e del Ministero del lavoro su questo punto qualificante della legge delega, nel caso venisse effettivamente attuata. Non si può tuttavia non evidenziare come, nel frattempo, il CNEL abbia proceduto alla puntuale fotografia della contrattazione minore (La contrattazione collettiva di minore applicazione: una prima esplorazione dell’archivio dei contratti del CNEL, in Casi e Materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, n. 31 del 2025) e a una complessiva riorganizzazione dell’archivio nazionale dei contratti e degli accordi di lavoro, secondo le linee di azione contenute nel documento di osservazioni e proposte del 12 ottobre 2023, predisponendo già un elenco ristretto di contratti collettivi nazionali di categoria maggiormente diffusi e applicati in ogni settore economico e produttivo. Un elenco che, non troppo sorprendentemente, consente di prendere atto che, per ogni settore merceologico i contratti di maggiore diffusione e di maggiore tutela per i lavoratori sono quelli sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale dando così di fatto ragione a quegli orientamenti giurisprudenziali che hanno individuato nel numero di imprese e lavoratori a cui si applica un determinato contratto collettivo un elemento non secondario nella selezione del sistema contrattuale che, comparato ad altri, risulta comparativamente più rappresentativo (vedo G. Piglialarmi, M. Tiraboschi, La maggiore rappresentatività comparata nel settore del commercio: si può ripartire da Campobasso, in Bollettino ADAPT del 1° luglio 2024, n. 26).
Da questo punto di vista il criterio dei contratti più diffusi rispetto a ciascun settore economico e produttivo, una volta ancorato al dato oggettivo dei codici ATECO come è previsto nella nuova organizzazione dell’archivio dei contratti del CNEL, non diventa parametro sostitutivo del criterio della maggiore rappresentatività comparata (così invece T. Treu, Una legge delega aperta e impegnativa, in Il Diario del lavoro del 26 Settembre 2025). Semplicemente, e in termini molto pragmatici, diventa una soluzione tecnica destinata a operare anche in assenza di una convergenza politica (che non si vede all’orizzonte) sulla necessità o meno di una misurazione per legge della rappresentatività degli attori sindacali per identificare i contratti collettivi che hanno un effettivo radicamento nel nostro sistema di relazioni industriali consentendo così di contrastare fenomeni di dumping contrattuale, l’evasione contrattuale e contributiva e forme di concorrenza sleale, che, almeno a parole, è obiettivo comune di tutte le principali forze politiche e sociali del nostro Paese. Era questa del resto la richiesta formulata, in seno alla Assemblea Costituente, da Giuseppe Di Vittorio in sede di discussione del testo dell’articolo 36 della Costituzione e cioè “che fosse ben chiarito che nell’azione di tutela diretta ad assicurare al lavoratore una remunerazione adeguata ai propri bisogni (che è funzione specifica del sindacato) lo Stato asseconda nei suoi compiti il sindacato” (intervento nella seduta del 12 settembre 1946 nell’ambito della Sottocommissione della Commissione per la Costituzione).
A quanti infine palesano il rischio di una deriva contrattualistica, una sorta di eterogenei dei fini che finirà col portare il sistema delle imprese verso l’applicazione di contratti collettivi che garantiscono minori costi contrattuali e retributivi, è sufficiente ricordare (a chi palesa rischi di incostituzionalità) il chiaro indirizzo della magistratura in punto di articolo 36 della Costituzione secondo cui nessuna attività di contrattazione potrà mai essere sottratta al giudizio di adeguatezza in merito ai criteri che presidiano la determinazione del giusto salario costituzionale. Ed infatti, anche in presenza di una legge di attuazione del precetto costituzionale, il giudice è, in ogni caso, “chiamato ad intervenire in ultima istanza, per assicurare, nell’ambito di ogni singolo rapporto di cui è chiamato a conoscere, la rispondenza dei predetti interventi allo statuto del salario delineato a livello generale nella normativa costituzionale; ed in caso di violazione ripristinare la regola violata dichiarando la nullità della clausola individuale e procedendo alla quantificazione della giusta retribuzione costituzionale (in applicazione delle regole civilistiche dell’art. 2099, 2° comma e dell’art. 1419,1 comma c.c.)” (Corte di Cassazione, sentenza n. 27711 del 2 ottobre 2023).
Università di Modena e Reggio Emilia
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