Tumori professionali: verso una rivisitazione delle politiche di prevenzione e di presenza al lavoro

Il cancro è la causa di circa un quarto (26,3%) delle morti che avvengono ogni anno nei 28 Paesi dell’Unione, con un tasso di mortalità che è più alto nella popolazione al di sotto dei 65 anni (37,1%), rispetto agli over 65 (23,8%) (Dati Eurostat 2011).

Di questi, una quota significativa trova origine nel lavoro. Secondo uno studio europeo CAREX (CARcinogen EXposure) 4,2 milioni di persone europee risultano esposte a cancerogeni nell’ambiente di lavoro.

 

Su questo ambito, un recente working paper di J. Tukala “Eliminating occupational cancer in Europe and globally”, ETUI, descrive la difficile situazione dei lavoratori esposti a sostanze cancerogene per cause lavorative, proponendo utili raccomandazioni di metodo con l’obiettivo di rimuovere i tumori professionali.

Nel dettaglio, lo studio propone di progettare un programma d’azione mondiale per rimuovere il cancro sul posto di lavoro attraverso l’individuazione e l’eliminazione delle esposizioni a sostanze e agenti cancerogeni.

 

Una prima riflessione in merito ci porta a considerare la non sempre facile attribuzione dell’esposizione a cancerogeni professionali sulla base delle conoscenze note.

Infatti, questo impedimento ha portato, negli anni, un problema notevole di sottostima riguardante le segnalazioni di tumori di natura professionale, poiché la latenza tra l’insorgenza della malattia e l’esposizione a fattori di rischio è molto lunga.

Per tale ragione, ancor prima dell’insorgenza del fenomeno, diviene necessaria una prevenzione e una sorveglianza che includa il coinvolgimento di diverse figure professionali del Servizio sanitario in collaborazione con le imprese.

 

Utili interventi a riguardo possono essere quelli incentrati sulla prevenzione primaria con l’obiettivo di diffondere le conoscenze sui possibili fattori cancerogeni occupazionali attraverso la miglior disponibilità e fruibilità dei mezzi di comunicazione di massa, poiché la conoscenza delle cause e la prevenzione, dal punto di vista del wellness at work, rappresentano il primo strumento per un’adeguata strategia di controllo dei tumori.

 

In particolare, si dovrebbe garantire al sistema delle imprese un’adeguata offerta formativa (workshop), informativa (Centro di documentazione) e di assistenza nella produzione di misure e stime di esposizione e di rischio valide e affidabili, nonché promuovere, facilitare e sostenere azioni di sorveglianza sanitaria su gruppi ad alto rischio esposti a cancerogeni occupazionali.

 

Altri interventi, invece, di carattere assistenziale, dovrebbero promuovere, facilitare e sostenere programmi per il mantenimento e il reinserimento al lavoro di soggetti che siano stati o siano colpiti da tumori occupazionali. Purtroppo, la mancanza di investimento in queste forme di intervento è dovuta, da un lato, ad una rilevante crisi finanziaria e, dall’altra, ad una radicata cultura novecentesca incentrata sui concetti di presenzialismo, efficienza e produttività del lavoratore molto distanti dalle logiche odierne di salute e benessere nel luogo di lavoro.

 

Su questo versante, un recente report della Chartered Institute of Personnel and Development (CIPD), Absence Management 2015, riporta i risultati del XVI sondaggio svolto su 578 organizzazioni britanniche con un totale di 1.5 milioni di dipendenti.

Lo studio rileva che quasi un terzo (31%) delle organizzazioni ha segnalato, nel corso dell’ultimo anno, un aumento del presenzialismo fra i dipendenti, ovvero presenza al lavoro nonostante condizioni di salute non adeguate.

Tuttavia, più della metà (56%) degli intervistati ha ammesso di non aver adottato alcuna misura per sconfortare questo tipo di comportamento. Si rivela, altresì, la maggior probabilità della manifestazione del fenomeno in quelle organizzazioni in cui le ore di lavoro eccedono quelle ordinarie e in cui le urgenze aziendali hanno la precedenza sul benessere dei dipendenti.

Inoltre, i datori di lavoro che segnalano un aumento del presenzialismo sono quasi il doppio di quanto lo studio aveva predetto (41%).

 

Alla luce delle considerazioni svolte, possiamo affermare come un tema innovativo come quello del rapporto tra lavoro e malattie croniche rivesta, oggi, una duplice valenza.

In primo luogo, tale relazione offre alle imprese una rilevante opportunità di ripensare ai propri modelli organizzativi e produttivi rispetto alle nuove esigenze lanciate dalle trasformazioni del lavoro e della società.

 

In realtà, tale rinnovamento porterebbe a un’estensione del loro raggio di azione, dalla semplice prevenzione delle malattie professionali legata ai rischi ambientali imposta dalla legge e dal contratto collettivo a veri e propri programmi di welfare aziendale orientati alla sensibilizzazione di pratiche aziendali che possono nuocere alla salute dei propri dipendenti.

 

In secondo luogo, dato le evidenze sul presenzialismo lavorativo, i sistemi di relazioni industriali sono chiamati a ripensare alle nozioni giuridiche di “presenza al lavoro”, “prestazione lavorativa”, “esatto adempimento contrattuale” (per un approfondimento si consulti, M. Tiraboschi, Occupabilità, lavoro e tutele delle persone con malattie croniche, ADAPT Labour Studies, n. 36/2014), soprattutto là dove siano mancanti di un’adeguata conciliazione tra le cure mediche e/o psicologiche di recupero e il lavoro, oltre a non essere inseriti in policy aziendali di wellness at work. Pertanto, il sistema di relazioni industriali potrebbe giocare un ruolo importante sia nella rivisitazione di politiche di prevenzione su fattori ambientali nocivi alla salute dei lavoratori sia nel riesaminare le logiche d’inserimento e ritorno al lavoro dei malati cronici.

 

 

Fabiola Silvaggi

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@FabiolaSilvaggi

 

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