Qualche erratica considerazione sul recente accordo interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del 9 marzo 2018

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Lentamente continua il percorso di rinnovamento delle relazioni industriali tempo intrapreso attraverso accordi interconfederali tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil [1] .

 

Purtroppo si tratta di un percorso che si ha l’impressione proceda stancamente. Gli attori non sembrano affrontarlo con l’energia che sarebbe necessaria e sembrano scontare una certa distanza tra le intenzioni enunciate e la realtà [2]. Si ha la sensazione che le parti si siano limitate ad aprire un cantiere, tracciando linee destinate ad essere approfondite nel futuro.

 

Va tuttavia rilevato che la direzione del percorso è quella giusta e che ci troviamo dinnanzi a novità significative, sia sul piano tecnico sia sul piano politico.

 

Da un punto di vista di carattere generale si può dire che, mentre la finalità degli accordi della prima metà del presente decennio [3]  era sostanzialmente difensiva e di contenimento (l’accento era posto soprattutto sulla necessità di assicurare condizioni di minimali di tenuta ed efficienza al sistema delle relazioni industriali), la finalità dell’ultimo sembra, invece, quella della rivendicazione delle responsabilità del sistema della regolazione collettiva per la promozione dello sviluppo economico e degli interessi dei lavoratori.

 

A ben vedere, gli accordi precedenti costituivano una risposta emergenziale alle spinte provocate dalla scossa tellurica di Pomigliano. Quella emblematica vicenda – che portava all’acme la lacerante esperienza degli accordi separati – aveva messo in evidenza come la spaccatura tra le organizzazioni sindacali, oltre ad aggravare la debolezza di queste ultime (sommandosi a quella già di per sé indotta dalle dinamiche economiche della globalizzazione), costituiva un fattore di logoramento delle relazioni industriali, destinato a provocarne una drammatica perdita di ruolo. Consapevoli della gravità del momento, gli attori del sistema riuscivano a dare una risposta forte, imponendo un principio di ordine. Superando profondi contrasti, le organizzazioni sindacali addivenivano ad importanti compromessi (in particolare convenendo il principio di maggioranza e quello della tregua sindacale), con la finalità di assicurare a quel sistema la possibilità di produrre accordi efficaci nei confronti di tutti i lavoratori e rispettati (nelle premesse si dichiarava esplicitamente che era “essenziale un sistema di relazioni sindacali e contrattuali regolato e quindi in grado di dare certezze non solo riguardo ai soggetti, ai livelli, ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva ma anche sulla affidabilità e sul rispetto delle regole stabilite»).

In buona sostanza, quegli accordi costituivano il minimo perché il sistema potesse conservare una prospettiva di sopravvivenza.

 

L’ultimo accordo si colloca in una prospettiva diversa. Esso costituisce la risposta che le parti hanno voluto dare su due versanti.

Da un lato, vogliono reagire ad una stagione che ha visto da parte del governo (sebbene di centro sinistra) una sconsiderata politica di svalutazione della concertazione – che pure esso avrebbe potuto utilmente orientare in ragione della maggior forza che poteva vantare sul piano parlamentare – e di minaccia al loro ruolo di autorità salariale (tale essendo, nella sostanza, l’intenzione di introdurre per legge in via autonoma un salario minimo).

Dall’altro lato, si propongono di reagire ad un fenomeno corruttivo endogeno che minaccia di sgretolare il sistema ed indebolirne la funzione. E’ il fenomeno dell’abnorme crescita del numero dei contratti collettivi che si accompagna anche alla frammentazione dell’associazionismo datoriale [4], spesso funzionale a diffuse pratiche di dumping ad opera di quelli che vengono da tempo denominati contratti pirata. Evidentemente per oggettive difficoltà, non si è riusciti a contrastarlo questo fenomeno attraverso la legislazione promozionale dell’applicazione dei contratti stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative (sulla quale si è soffermata di recente una circolare dell’ispettorato del Ministero del lavoro, la n. 3/2018).

 

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Sul primo versante le parti sembrano voler battere un colpo [5],  redigendo un documento che costituisce una sorta di manifesto, animato dal proposito – chiaramente enunciato nella parte iniziale – di “contribuire fattivamente alla crescita del Paese, alla riduzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, alla crescita dei salari, al necessario miglioramento della competitività attraverso l’incremento della produttività delle imprese, al rafforzamento dell’occupabilità delle lavoratrici e dei lavoratori e alla creazione di posti di lavoro qualificati”.

Consapevoli dell’ importanza strategica del sistema del quale sono attori, che è istituzione indispensabile per tenere insieme efficienza economica e tutela dell’interesse dei lavoratori, affermano di condividere l’idea che esso debba essere chiamato a contribuire fattivamente a promuovere l’obiettivo della “competitività delle imprese” e della “valorizzazione del lavoro”[6] e per conseguirlo intendono “realizzare con questo accordo un ammodernamento del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva”[7].

In questa prospettiva nel punto 5 dell’accordo si fissano “principi per regolare assetti e contenuti della contrattazione collettiva”, concepiti come linee generali di indirizzo rivolte alla contrattazione. La loro enumerazione è utile ed interessante, ma, a ben vedere, non sembra vi siano vere e proprie novità.

Si lasciano piuttosto apprezzare, per la loro particolare valenza politica, la riaffermazione della permanente importanza della regolazione operata a livello nazionale di categoria (alla quale si riconferma “la sua principale funzione di fonte di regolazione dei rapporti di lavoro e di garantire dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati sul territorio nazionale” e si affida il compito di “incentivare lo sviluppo virtuoso – quantitativo e qualitativo – della contrattazione di secondo livello, orientando le intese aziendali – raggiunte anche [8] attraverso i percorsi definiti nell’accordo interconfederale del 14 luglio 2016 – .. verso il riconoscimento di trattamenti economici strettamente legati a reali e concordati obiettivi di crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività, di innovazione, valorizzando i processi di digitalizzazione e favorendo forme e modalità di partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori”; si lascia apprezzare, inoltre, l’affermazione che la contrattazione collettiva, ai vari livelli in cui si articola, “dovrà contribuire a determinare le condizioni per migliorare il valore reale dei trattamenti economici e, nel contempo, favorire la crescita del valore aggiunto e dei risultati aziendali, nonché la valorizzazione dei contenuti professionali e delle competenze tecniche ed organizzative che il lavoro delle persone può esprimere”.

Il fatto che l’accordo metta in sequenza, ordinandoli in decalogo, una serie di principi che possono essere considerati in gran parte scontati e ripetitivi non è sottovalutare. E’ invece comunque importante, poiché riformulare e ribadire principi costituisce una modalità decisamente utile per sollecitare e far crescere la cultura degli attori, a tutti i livelli.

 

Nel patto le parti individuano una serie di temi da affrontare con priorità attraverso specifiche intese [9]. Un tema soprattutto va segnalato per la sua particolare importanza dal punto di vista della crescita della cultura delle relazioni industriali: il tema della partecipazione.

Le parti sembrano decisamente consapevoli che la cultura della partecipazione é indispensabile per governare le dinamiche imposte dai profondi mutamenti che da tempo si vanno producendo. Il tema non è nuovo e, come è noto, ha anche avuto un sostegno da parte del legislatore [10]. E’ tuttavia significativo che venga solennemente riproposto [11] ed è ancor più significativo che ci si riferisca non solo alla partecipazione sul piano della organizzazione (già promossa dal legislatore) – ma anche a quella “nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa”. Si tratta di un accenno molto breve, troppo breve. Costituisce un semplice seme, ma di importanza epocale.

 

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Il contenuto sicuramente più nuovo ed eclatante dell’accordo è quello che riguarda il secondo versante. Quello della reazione al disordine del sistema della contrattazione ed alle pratiche di dumping contrattuale. Qui si segna una svolta storica.

L’accordo si dichiara a favore dell’unico strumento capace di stroncare quelle pratiche: il conferimento al contratto collettivo di una efficacia erga omnes. È quello previsto dalla seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione.

Affermando che si tratta di continuare un percorso già intrapreso in coerenza con i principi del legislatore costituzionale in materia di contrattazione collettiva, le parti dichiarano opportuno che la misurazione del peso della rappresentanza venga fatta “anche” sul versante delle organizzazioni datoriali [12].

Se si deve dar credito al riferimento fatto all’ 39 Cost., si deve ritenere che Confindustria implicitamente accetti di rinunciare alla esclusività della propria funzione di contrattazione. Se questo ha fatto è perché, evidentemente, si sono raggiunti livelli di insostenibilità tali da far ammettere chiaramente alle parti che il sistema di fatto – quello sviluppatosi nella più completa anomia – non tiene più e c’è bisogno di ordine. Bisogna prendere atto che in questo modo gli attori storici del sistema solennemente hanno voluto ridare linfa all’articolo 39.

Le parti, consapevoli della delicatezza del tema, non invocano un immediato intervento legislativo. Esse dichiarano di ritenere “utile che si definisca un percorso condiviso anche con le altre Associazioni datoriali per arrivare ad un modello di certificazione della rappresentanza datoriale capace di garantire una contrattazione collettiva con efficacia ed esigibilità generalizzata, nel rispetto dei principi della democrazia, della libertà di associazione e del pluralismo sindacale”.

In questa prospettiva le parti prevedono tre fasi.

La prima da realizzare mediante il Cnel, del quale chiedono la collaborazione. Il Cnel dovrebbe effettuare:

 

a) una ricognizione degli ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nazionale di categoria al fine “consentire alle parti sociali di valutarne l’adeguatezza rispetto ai processi di trasformazione in corso nell’economia italiana” (si aggiunge che la “ricognizione dei perimetri contrattuali potrà consentire alle parti sociali, se del caso, di apportare i necessari correttivi, intervenendo sugli ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nazionale, anche al fine di garantire una più stretta correlazione tra CCNL applicato e reale attività di impresa”;

 

b) una ricognizione dei soggetti firmatari dei contratti nazionali, “affinché diventi possibile, sulla base di dati oggettivi, accertarne l’effettiva rappresentatività” [13].

 

La seconda fase sarebbe quella della proposta che le parti – sulla base del lavoro del Cnel e “laddove se ne ravvisasse la necessità” – farebbero a “tutti i soggetti coinvolti”[14] di adottare regole che mirino ad assicurare “il rispetto dei perimetri della contrattazione collettiva e dei suoi contenuti” e a garantire “coerenza e funzionalità al sistema della contrattazione collettiva e impediscano – specie a soggetti privi di adeguato livello di rappresentatività certificata – di violare o forzare arbitrariamente i perimetri e gli ambiti di applicazione dei contratti collettivi nazionali di categoria”.

La terza fase si innescherebbe nel caso in cui si raggiunga un accordo. Vi sarebbe la possibilità che “le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia”.

 

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Tre brevi considerazioni vanno svolte relativamente a questo importante punto dell’accordo.

 

In primo luogo, va rilevato che l’obiettivo perseguito dalle parti è molto importante e va certamente apprezzato, perché mira a dare concretezza ad una delle radici costitutive del diritto del lavoro, quella del contrasto alla concorrenza che indebolisce la posizione del lavoratore sul mercato del lavoro [15].

In secondo luogo, va detto che si deve dubitare del fatto che questo accordo si ponga in continuità con quelli precedenti, come affermano le parti. È vero che si decide di fare applicazione del principio della certificazione del peso della rappresentanza anche alla parte datoriale, ma la continuità è solo apparente; a ben vedere, non c’è nella sostanza.

 

Nella sostanza l’ultimo accordo segna una netta discontinuità. Infatti, solo ora le parti pongono il vero problema contenuto nell’articolo 39, che è il problema della produzione di un effetto di applicazione erga omnes del contratto collettivo nei confronti di tutti i soggetti (imprese e lavoratori) appartenenti ad una determinata categoria.

Nei precedenti accordi si faceva solo la mimica del principio maggioritario dell’articolo 39 sul versante della rappresentanza del lavoro, così come si faceva mimica di quell’articolo nell’affermare che alla adozione di quel principio conseguiva il conferimento di un effetto erga omnes. La verità è che le parti conseguivano l’effetto di un’applicazione generalizzata (in via diretta o indiretta) del contratto collettivo esclusivamente con riferimento ai lavoratori dipendenti delle aziende del mondo Confindustria. Si trattava, quindi, di un effetto che ben potevano produrre poiché circoscritto ad una sfera da esse pienamente conformabile nell’esercizio della loro autonomia. Non è questa, invece, la situazione che si prospetta nell’ultimo accordo. Qui la musica è inevitabilmente diversa.

Nei precedenti accordi le parti decidevano in casa propria, ora vogliono porre un principio di ordine a tutto il sistema e, quindi, vincolare la sfera di soggetti terzi. Un effetto di questo tipo è nella disponibilità della legge, non certo dell’autonomia privata.

 

Su questo aspetto bisogna riconoscere che nell’accordo è presente una certa opacità. Infatti, pur se si richiamano all’articolo 39 Cos., le parti non sembrano chiedere in termini chiari ed espliciti un intervento del legislatore. Da un lato, utilizzano un’espressione ambigua (“definizione di un quadro normativo in materia”), che potrebbe anche prestarsi a designare l’idea di una fonte diversa dalla legge, dall’altro perché definiscono come “eventuale” questo ulteriore passo; laddove, come si è detto prima, esso è invece indispensabile.

Su questo punto l’accordo conserva e accentua l’ambiguità della piattaforma unitaria Cgil, Cisl e Uil del gennaio 2016, nella quale si parlava di un “eventuale intervento legislativo” con riferimento al quale prudentemente puntualizzavano: “non potrebbe che essere di recepimento di quanto definito dalle parti sociali”. L’ambiguità, se si vuole, è ulteriormente confermata dal fatto che è presente una scelta diversa da quella fatta nell’accordo interconfederale tra Confcommercio e Cgil, Cisl e Uil del 24 novembre 2016, nel quale sì era anticipata la scelta della misurazione della rappresentatività delle associazioni datoriali.

In quest’ultimo accordo, sul tema del contrasto al dumping contrattuale, le parti invocano con chiarezza un intervento del legislatore; peraltro, un intervento certamente non ispirato all’articolo 39 Cost.,  se è vero che soprattutto auspicano un rafforzamento della legge [16] che impone alle aziende l’obbligo di versare all’Inps una contribuzione non inferiore a quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente  più rappresentative nella categoria; cioè il rafforzamento di una legge che non avrebbe ragione di esistere in un sistema di validità erga omnes dei contratti [17].

 

Da ultimo qualche perplessità va espressa relativamente al percorso attraverso il quale si pensa di risolvere il problema. Relativamente ai seguenti profili:

 

a) la scelta di coinvolgere nella soluzione del problema anche le altre associazioni datoriali, alla ricerca di un consenso, è certamente opportuna ed apprezzabile [18], ma desta qualche dubbio che possa risultare efficace.

Prescindendo dalle oggettive difficoltà della materia e dagli ostacoli che potrebbero venire dall’esistenza di interessi, anche organizzativi, consolidati, va detto che quel percorso ha qualche probabilità di sortire effetti positivi solo nel rapporto con grandi organizzazioni (le eventuali divergenze tra esse ben potrebbero essere composte, in teoria, dalla prospettiva della partecipazione ad una rappresentanza unitaria [19]), mentre è difficile pensare che possa sortire un qualche effetto sul versante dei soggetti firmatari di contratti pirata. Su questo versante non c’è che la risposta della seconda parte dell’articolo 39, l’unica in grado di porre un vero limite alla libertà negoziale dei soggetti collettivi.

 

b) l’accordo sembra concepire che questo percorso consensualistico debba essere effettuatov solo sul versante delle associazioni datoriali, dandosi per scontato che il Testo Unico sulla rappresentanza vada bene e che gli si debba solo “dare piena attuazione”.

 

c) In verità non si considera che la dichiarata intenzione di dare attuazione alla seconda parte dell’articolo 39 non è compatibile con il contenuto del Testo Unico. Si richiama quanto poco fa si è detto sulla discontinuità dell’attuale accordo rispetto al precedente. In altre parole, il 39 non consentirebbe di fare quello che ha fatto quel Testo; cioè subordinare la possibilità della partecipazione di altri sindacati di lavoratori alle elezioni per l’elezione delle rsu (e quindi alla rappresentanza negoziale unitaria) alla accettazione, da parte di essi, di tutte le regole convenute in quel Testo. Se lo si è potuto fare è perché, come si è detto prima, si decideva in casa propria [20].

 

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Chiudo questo scritto con la seguente considerazione: si è fatto prima cenno alle oggettive difficoltà che presenta un intervento mirato a conferire efficacia erga omnes al contratto collettivo. Se le parti sociali, come è assai probabile, non riuscissero a trovare un accordo, spetterebbe al legislatore assumersi il compito di effettuare la perimetrazione degli ambiti di applicazione dei contratti. Compito, questo, non solo difficile, ma anche politicamente molto delicato, per l’alto rischio, che esso comporta, di condizionamento della libertà sindacale da parte della mano pubblica [21].

Se le cose stanno così, è probabile che la soluzione non sia vicina e che l’accordo interconfederale sia servito solo a denunciare il problema.

Forse sarebbe stato più agevole un altro percorso, meno ambizioso, ma certamente più fattivo. Poiché l’aspetto più efficace e deplorevole del dumping è quello attinente al salario, si sarebbe potuto prospettare al legislatore l’opportunità di un intervento limitato a questa materia, modellato su quello fatto nel 1959 con la legge Vigorelli. Su questo versante l’erga omnes (e con esso la delimitazione degli ambiti) può ben essere  conseguito sotto la copertura dell’articolo 36 della Costituzione, senza quindi interferenza sulla sfera della libertà sindacale [22].

Un intervento di questo tipo comunque dovrebbe essere preso in considerazione dal legislatore. Esso, inoltre, più che alla fissazione di un salario minimo intercategoriale, dovrebbe pensare di affidare a collegi composti in maggioranza dalle parti sociali, la determinazione dei compensi nelle aree (anche di lavoro autonomo sottoprotetto) in cui sia carente la contrattazione collettiva.

 

Franco Liso

Professore ordinario di Diritto del lavoro

Università ‘Sapienza’ di Roma

 

[1] Sono da qualche tempo in “disarmo” avendo spostato i miei interessi – praticamente dal momento del pensionamento – su binari del tutto differenti da quelli del diritto del lavoro. Lo dico per giustificare la insolita brevità ed il carattere scarno del presente scritto, con il quale si vuole comunque omaggiare un amico di antica data, come era doveroso, soprattutto conoscendone la particolare sensibilità accademica. La nostra amicizia risale agli inizi degli anni ’70, quando il suo illustre padre lo affidò alle cure di Giugni del quale a quel tempo avevo la fortuna di essere allievo. Fu cosi che ci conoscemmo e diventammo amici.

[2] Si pensi alle difficoltà che continuano a persistere in relazione alla raccolta dei dati sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali, che pure costituiva un aspetto fondamentale degli accordi raggiunti nella parte iniziale del presente decennio.

[3] Si veda il Testo Unico del 10 gennaio 2014, che chiudeva un percorso iniziato nel 2011.

[4] Ha posto una particolare attenzione a questo fenomeno il Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Si veda l’itinerario di ricerca su “L’associazionismo dei datori di lavoro e le relazioni industriali” avviato con l’editoriale di Bellardi e il saggio di Olini (n. 151/2016 e successivi).

[5] In verità un colpo, seppure relativo ad una materia circoscritta, lo avevano già battuto nel 2016 con la stipula dell’accordo contenente “proposte per le politiche del lavoro”, nel quale esprimevano l’auspicio che quelle proposte fossero condivise dal Governo.

[6] Nel prosieguo esse individuano tre obiettivi centrali da conseguire prioritariamente: “a) condividere una strategia di sviluppo, coordinata e coerente con le trasformazioni in atto, basata su formazione, ricerca e innovazione, volta a dare all’economia del Paese una crescita sostenibile e inclusiva, capace di affrontare e ridurre i dualismi produttivi, occupazionali e territoriali. Serve, a tal fine, estendere e qualificare gli investimenti privati e rilanciare quelli pubblici, con particolare riferimento all’utilizzo dei fondi strutturali. In particolare, per il Mezzogiorno occorre una strategia che sostenga tali investimenti, valorizzando i patti territoriali, dando attuazione agli accordi interconfederali, anche attraverso una più estesa e qualificata contrattazione di secondo livello mirata allo sviluppo produttivo e occupazionale; b) avere un mercato del lavoro più dinamico ed equilibrato che favorisca l’inserimento al lavoro dei giovani e delle donne e che potenzi l’investimento nelle politiche del lavoro per un sistema di politiche attive più efficace  e più equo, tutelando e sostenendo al contempo le transizioni occupazionali e lavorative: c) rafforzare le misure di sostegno ad un modello di relazioni sindacali autonomo, innovativo e partecipativo, che sostenga la competitività dei settori e delle filiere produttive, nonché il valore e la qualità del lavoro e favorisca, anche attraverso la diffusione della contrattazione di secondo livello, i processi di trasformazione in atto e il collegamento virtuoso fra innovazioni, produttività del lavoro e retribuzioni”.

[7] Interessante la distinzione tra relazioni industriali e contrattazione collettiva. Si vuole evidentemente sottolineare che non c’è solo la dimensione della formazione delle regole, bensì anche quella della gestione, che nel documento viene evocata sia attraverso i richiami alla bilateralità, sia attraverso l’interessante sottolineatura della partecipazione.

[8] Questo “anche” sembra significativo. Poiché l’accordo interconfederale richiamato riguardava l’applicazione della legge (art. 1, co. 182, L. n. 208/2015) sulla detassazione della parte di salario legata ad” incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, misurabili e verificabili” se ne deve desumere che si prevedano incrementi salariali comunque giustificati da concordati obiettivi di crescita, quindi anche eccedenti la logica della detassazione. In altri termini anche incrementi in cui il salario è chiamato a svolgere una funzione proattiva e non quella, meramente scambistica sottostante agli incrementi cui è condizionata la detassazione.

[9] a) welfare; b) formazione e competenze; c) sicurezza sul lavoro; d) mercato del lavoro; e) partecipazione.

[10] Nell’art. 1, co. 189, L. n. 208/2015 si prevede un aumento della misura della detassazione a favore delle “aziende   che   coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro”.

[11] Le parti lo avevano già affrontato nell’accordo del 2016 sulla detassazione.

[12] “La certificazione della misura dei dati della rappresentanza delle parti stipulanti i singoli CCNL è, infatti, la prima condizione per realizzare quel sistema di relazioni sindacali previsto dal dettato costituzionale”; “conoscere l’effettivo livello di rappresentanza di entrambe le parti stipulanti un CCNL, infatti, è indispensabile se si vuole davvero contrastare la proliferazione di contratti collettivi, stipulati da soggetti senza nessuna rappresentanza certificata, finalizzati esclusivamente a dare “copertura formale” a situazioni di vero e proprio “dumping contrattuale” che alterano la concorrenza fra imprese e danneggiano lavoratrici e lavoratori.”

[13] In questo punto evidentemente ci si riferisce anche alla rappresentanza dei lavoratori.

[14] Sembra che qui ci si riferisca alle sole associazioni datoriali, dal momento che in precedenza si era parlato di un percorso condiviso anche con “le altre Associazioni datoriali”.

[15] Va ricordato che l’esigenza di una reazione alle forme di dumping contrattuale, così come la richiesta di un sistema di misurazione della rappresentanza datoriale, erano presenti nel documento Cgil, Cisl e Uil (“Un moderno sistema di relazioni industriali per un modello di sviluppo fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”) del 14 gennaio 2016.

[16] Art. 1, co. 1, d.l. n. 338/1989, convertito in l. 389/1989 e art. 2, co. 25, L. n. 549/1995.

[17] È probabile che le parti, quando parlano di rafforzamento di quella legge, alludano piuttosto alla necessità di spostare il vincolo in capo alle aziende dalla misura della contribuzione a quella della retribuzione. In questo modo (che è quello a mio avviso preferibile) ne verrebbero a beneficiare non solo le casse dell’Inps, ma anche il reddito dei lavoratori. Il contrasto del dumping sarebbe indubbiamente più efficace.

[18] In effetti un largo consenso potrebbe costituire la base per una autorevole proposta di intervento al legislatore.

[19] Penso, ad esempio, al fenomeno dei contratti collettivi stipulati ad associazioni datoriali dell’artigianato che contrattano anche per conto di aziende non artigiane.

[20] Ed infatti è questa la ragione per la quale la magistratura ha respinto il ricorso dei sindacati di base volto a far dichiarare la nullità del Testo Unico. A quei sindacati risultavano indigesti i limiti che quel testo pone al conflitto.

[21] Non è un caso che Gino Giugni, fortemente consapevole dell’intangibilità della libertà sindacale, quando negli anni ’90, per dare attuazione ad un punto dell’accordo di concertazione del 1993, si fece promotore di una iniziativa legislativa volta a conferire efficacia generalizzata ai contratti collettivi, previde che gli ambiti, all’interno dei quali andava misurata la rappresentatività della associazioni, dovevano essere indicati dagli stessi soggetti candidati alla misurazione.

[22] A ben vedere lo ha riconosciuto in tempi recenti la stessa Corte costituzionale con riferimento ad una norma (art. 7, co. 4, del d.l. 248/2007) nella quale si dispone che al socio di cooperativa debba essere corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentativi a livello nazionale nella categoria (Corte Cost. n. 51/2015, Rel. Sciarra).

 

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