Parlamento: il vitalizio è morto, è nata la pensione

Che cosa può esservi di più “politically(in)correct” che parlare serenamente e pacatamente del vitalizio dei parlamentari, presentato ormai alla stregua del più odioso dei privilegi?

 

Eppure chi scrive − al pari del Marc’Antonio shakespeariano davanti al cadavere di Giulio Cesare − non ha intenzione di celebrare il vitalizio, ma di seppellirlo. E farlo raccontando la verità dei fatti e non la loro caricatura. Che in passato siano stati commessi veri e propri abusi è arcinoto, tanto che su di essi si è costruito un implacabile processo mediatico che non ammette né repliche né precisazioni.

 

Nel tempo sono state portate modifiche ad un sistema sempre più insostenibile sul piano etico, senza mai dare corso ad un’effettiva svolta. Ad accelerare una decisione operativa sul destino dell’assegno vitalizio, fu un’iniziativa, nell’autunno del 2011, del ministro Elsa Fornero nei confronti dei presidenti delle Camere.

Il Governo – annunciò il ministro, in occasione di un incontro da lei sollecitato − aveva intenzione di applicare, con il criterio del pro rata, il sistema contributivo a tutti i lavoratori a partire dal 1° gennaio 2012. Pur nell’ambito dell’autonomia costituzionale del Parlamento Fornero chiese che i deputati e i senatori mandassero un chiaro segnale nella medesima direzione della riforma che prese il suo nome. L’azione del ministro si era inserita, tuttavia, nel contesto di processi già in corso, anticipandone le scadenze.

 

La Camera aveva deliberato il superamento, a partire dalla legislatura successiva, dell’assegno vitalizio e la sua sostituzione con un regime pensionistico simile a quello operante nel mondo del lavoro.

Analoga delibera era stata assunta, anche da Palazzo Madama. A Montecitorio, il collegio dei Questori aveva costituito una commissione composta da un deputato per ogni gruppo (chi scrive fu incaricato di coordinarla) con il compito di avanzare una proposta da sottoporre all’Ufficio di Presidenza, in tempi utili a definire la nuova disciplina entro la fine del 2011. Elsa Fornero chiese di non rinviare alla legislatura successiva l’entrata in vigore della nuova disciplina.

 

E così fu tracciata l’architettura della riforma: a) introduzione dal 1° gennaio 2012 del sistema contributivo che avrebbe operato per intero per i deputati e i senatori che fossero entrati in Parlamento dopo quella data e pro rata per quanti avevano esercitato o stavano svolgendo già il mandato elettivo; b) dalla stessa data i parlamentari cessati dal mandato avrebbero potuto percepire il trattamento di quiescenza non prima del compimento del 60° anno di età per quanti avessero esercitato il mandato per più di un’intera legislatura e al compimento dei 65 anni di età per coloro che avessero versato i contributi per una sola intera legislatura.

In sostanza, l’assegno vitalizio non avrebbe avuto più un futuro. Le sue regole sarebbero rimaste in vigore fino a tutto il 2011. Dal 2012, i parlamentari avrebbero avuto una pensione, pro quota, secondo i calcoli del sistema contributivo.

 

Il trattamento previsto nella XVI legislatura sarebbe consistito nella somma dei due distinti periodi. Come sempre accade quando si affrontano complesse riforme, la coda del diavolo sta nelle norme che regolano la fase di transizione, soprattutto in un contesto ingarbugliato come quello dell’assegno vitalizio per il quale si intrecciavano veri e propri “regimi di legislatura” che i parlamentari si erano portati appresso anche quando erano intervenute delle modifiche.

Basti pensare che, a quei tempi, solo a Montecitorio, secondo le norme previgenti, avrebbero avuto il diritto di percepire il vitalizio al compimento del cinquantesimo anno di età una trentina tra ex deputati e deputati in carica, se cessati dal mandato, e circa 200 (ex e in carica) prima dei sessanta anni. Altri malumori furono espressi – con qualche ragione − da deputati più giovani, di prima legislatura, che lamentavano l’entità dei sacrifici a loro carico, a fronte della sopravvivenza – a loro avviso – di troppi privilegi a favore di colleghi di lungo corso.

 

Anche sul fronte della polemica esterna il nuovo sistema, oltre ad apprezzamenti quasi a malincuore, suscitò polemiche, invero non sempre motivate. Cominciamo dalle teorie totalmente abolizioniste di un trattamento previdenziale per i parlamentari. A parte ogni altra valutazione di carattere politico (o, se vogliamo, anche etico), una considerazione di ordine giuridico continua a sembrare incontrovertibile: in Italia tutte le tipologie di reddito da lavoro sono sottoposte non solo a tassazione, ma anche a prelievo contributivo; e danno, pertanto, luogo ad una forma di pensione. Non si capisce perché dovrebbe essere esclusa da questa regola la sola indennità dei parlamentari.

 

A tal proposito, è bene poi ricordare che, quando nel rapporto contributivo entrano due soggetti, la ripartizione del contributo è ragguagliata in ragione di 2/3 a carico del dante causa (datore, committente, ecc.) che ha il compito di prelevare e versare anche la parte di contributo (intorno al 9%) spettante al lavoratore. I critici sostenevano, che, con il nuovo modello, la Camera avrebbe dovuto assumere, ex novo, una quota di contribuzione (circa il 24%) a carico del suo bilancio. Un costo in più, dunque. Tale constatazione nasceva da un difetto di informazione. Si era scritto, in quei mesi di polemiche contro i “privilegi della casta”, che i deputati versavano un’aliquota dell’8,56% contro il 33% dei lavoratori dipendenti.

 

Non era così. Non solo non era corretto, infatti, mettere a confronto un’aliquota complessiva con una quota di essa a carico di una sola delle parti, ma la Camera, per esempio, sopportava, nel regime del vitalizio, l’onere di un’aliquota implicita molto maggiore del 24%. Basti pensare che Montecitorio incassava, all’anno, 12,5 milioni di versamenti contributivi dai deputati e spendeva circa 130 milioni per le prestazioni. In pratica, vi era un rapporto tra entrate e spesa di uno a dieci.

 

Quando la riforma andrà a regime – tutte le riforme previdenziali hanno tempi lunghi − il rapporto sarà di uno a tre/quattro. Diminuirà, conseguentemente, in maniera crescente il “costo del lavoro” dei deputati. I principali risparmi deriveranno dall’elevazione del requisito anagrafico (visto il numero notevole degli interessati) e dalla riduzione dell’importo delle future pensioni rispetto a quello dei vitalizi (si stimano “tagli” che vanno da 500 ad oltre 2mila euro mensili lordi a seconda del numero di legislature e dell’età: in pratica si tratta di riduzioni sui nuovi assegni pensionistici compresi tra un terzo e la metà, rispetto all’importo dei vitalizi).

 

Questi concetti meritano di essere meglio spiegati.

Quale è la funzione di un’aliquota contributiva in un sistema previdenziale? Nel sistema retributivo, serve a determinare quanto il titolare dell’obbligazione contributiva è tenuto a versare all’ente pubblico di previdenza obbligatoria a cui il lavoratore è iscritto; nel modello contributivo, svolge in più la funzione di individuare il montante da accreditare al lavoratore.

 

Nel caso della Camera e del Senato, era operante la liquidazione diretta dei trattamenti. Con le nuove disposizioni non è mutata – con oneri inferiori – soltanto la modalità di calcolo del trattamento: in precedenza si trattava di una percentuale dell’indennità peraltro bloccata da anni (una sorta di metodo retributivo); dopo la riforma, al parlamentare sarà accreditato (in toto o pro rata) − ogni anno − il 33% dell’indennità (di cui il 9% circa sarà oggetto di una ritenuta a suo carico).

 

Per quanto riguarda le Camere, si verificherà soltanto un cambiamento nella intitolazione delle risorse che già venivano impiegate nell’ambito del modello-assegno vitalizio. Ma la spesa diminuirà anche per un altro motivo: sarà operante una differente normativa della reversibilità, dal momento che, secondo le regole generali, le future prestazioni saranno proporzionate al reddito dei soggetti che le percepiscono.

 

Un altro cambiamento importante sarà determinato dai criteri di rivalutazione degli assegni erogati. Per gli assegni vitalizi, esisteva una sorta di clausola-oro, nel senso che mantenevano l’aggancio all’evoluzione delle indennità dei parlamentari in corso di mandato. Dopo la riforma opera un sistema di rivalutazione automatica delle prestazioni legata al costo della vita sulla base delle regole vigenti per tutti i pensionati (e dei cambiamenti che tali regole potranno subire).

 

Come si vede la riforma è stata seria ed incisiva. Resta il problema dei vitalizi già erogati, per i quali potranno essere stabiliti contributi di solidarietà, anche strutturali, allo scopo di garantire un equilibrio più equo tra le diverse generazioni.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

Scarica il pdf pdf_icon

Parlamento: il vitalizio è morto, è nata la pensione
Tagged on: