Verso una nuova riforma del contratto di apprendistato?

Interventi ADAPT

| di Michele Tiraboschi, Matteo Colombo

Bollettino ADAPT 26 maggio 2025, n. 20

Negli ultimi quindici anni l’apprendistato ha potuto beneficiare di un quadro giuridico-istituzionale relativamente stabile. Questo grazie alla intesa dell’ottobre 2010 tra Governo, Regioni e parti sociali finalizzata al rilancio dell’istituto in attuazione di un più generale protocollo del 17 febbraio 2010 tra le stesse istituzioni contenente le linee guida per la formazione: da qui è scaturito il Testo Unico dell’apprendistato del 2011 (vedi M. Tiraboschi (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Giuffrè editore, 2011) ripreso poi, con leggere e talvolta maldestre interpolazioni sui punti più qualificanti dell’istituto, nel c.d. Jobs Act del 2015 (vedi M. Tiraboschi, L’apprendistato dopo il Jobs Act, in F. Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio. Atti del XI Seminario di Bertinoro-Bologna del 22-23 ottobre 2015, ADAPT Labour Studies E-book series, n. 54, 2016, pp. 306-330).

Questo assetto pare ora in via di superamento, almeno a quanto è dato sapere dalle dichiarazioni del Ministro del lavoro, Elvira Calderone (qui la sua risposta ad una interrogazione parlamentare avente a tema il potenziamento del contratto di apprendistato) e da una bozza, in stadio avanzato di perfezionamento, di articolato normativo che sta circolando tra gli addetti ai lavori. La novità è che le nuove regole (se verranno approvate) sono il frutto di una intesa tra i tecnici del Ministero del lavoro e delle Regioni senza però alcun coinvolgimento, neppure informale, delle parti sociali a cui storicamente l’apprendistato pure appartiene (M. Colombo, Contributo allo studio del moderno apprendistato. Una lezione dal passato su mestieri, innovazione, corpi intermedi, ADAPT University Press, 2025).

Non è certo il caso di parlare di lesa maestà ma l’assenza delle parti sociali nel ripensamento dell’apprendistato ha un peso rilevante rispetto a quanto sta emergendo che vede, a parere di chi scrive e anche alla luce della bozza di intesa presentata il 19 maggio sulle nuove linee guida per i tirocini (istituto che da anni cannibalizza l’apprendistato), un definitivo affossamento di una preziosa leva per la qualità e produttività del lavoro.  La riforma che sta avanzando nel silenzio generale è infatti destinata a stravolgere definitivamente l’apprendistato sia nelle sue finalità sia nelle sue enormi potenzialità.

Ci pare pertanto un esercizio utile, in una fase in cui il processo legislativo non è ancora perfezionato, sviluppare qualche commento sulla bozza elaborata dai tecnici del Ministero del lavoro e delle Regioni come contributo al dibattito sulle politiche formative e del lavoro nel nostro Paese.

Elemento qualificante la proposta in analisi è l’eliminazione dei limiti di età (massima) per l’apprendistato “duale” (di primo e terzo livello). Una novità che, se letta assieme alla già vigente possibilità di assumere lavoratori in apprendistato professionalizzante senza limiti di età, porta alla modifica della stessa definizione dell’istituto: la proposta lo definisce “contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione”, eliminando così il riferimento all’apprendistato come canale privilegiato per l’assunzione dei giovani.

La modifica ha un potenziale dirompente. In linea di massima è da salutare con favore l’allargamento della platea dei potenziali destinatari dell’apprendistato duale, a condizione tuttavia di garantire un congruo aumento delle risorse finanziarie a sostegno dell’apprendistato. Aumentare la platea a risorse invariate sarebbe per contro l’ennesima penalizzazione della componente giovanile del mercato del lavoro che verrebbe così dirottata verso i tirocini formativi anch’essi oggetto di nuove linee guida concordate in sede tecnica tra Regioni e Ministero del lavoro, sempre nella direzione di una torsione lavoristica dell’istituto visto come mero contratto di ingresso nel mercato del lavoro.

Se per contro le risorse finanziarie dovessero adeguatamente aumentare la riforma non potrebbe che essere condivisibile e le ragioni sono numerose.

La prima è la possibilità di utilizzare i robusti percorsi formativi realizzabili mediante questi apprendistati per riqualificare lavoratori adulti anche in cerca di nuovo impiego. Pensiamo ad esempio ad un lavoratore già adulto e desideroso di sperimentare un vero percorso di riqualificazione, ad esempio specializzandosi grazie ad un anno di IFTS o due anni di ITS. Difficile immaginare che possa rimanere uno o due anni senza percepire una retribuzione: l’apprendistato gli garantisce la possibilità di coniugare, virtuosamente, lavoro e formazione.

Una altra possibilità è rappresentata dalla possibilità di far accedere a titoli di studi secondari superiori o terziari lavoratori migranti in possesso di titoli di studio inferiori. Lavoratori che quindi ad oggi hanno già più di 25 (attuale limite di età per l’apprendistato di primo livello) o 29 (limite per l’apprendistato di terzo livello) anni, e che però al loro arrivo in Italia non hanno ottenuto il riconoscimento di titoli o comunque non hanno sviluppato, nel Paese d’origine, studi specialistici utili a favorire la loro occupabilità. Anche per loro, questo nuovo apprendistato “duale” senza limiti di età può rappresentare un’opportunità.

Infine, tale proposta sembra anche considerare gli effetti del calo demografico, e con una dose di sano realismo suggerisce di non guardare più ai giovani, o esclusivamente a loro, quali soggetti da coinvolgere in percorsi di formazione e lavoro mediante l’apprendistato, ma di allargare questa possibilità a coorti anagrafiche ancora molto popolate. Modificando così però anche lo scopo dell’istituto, da sempre finalizzato a favorire e garantire il primo ingresso nel mondo del lavoro ai giovani, e ora da proporre e progettare quale contratto utile ad accompagnare processi di qualificazione e riqualificazione nel mercato del lavoro.

Il secondo elemento qualificante la proposta in commento è l’ampiamento delle finalità dello stesso apprendistato: in particolare, l’apprendistato duale può essere attivato anche per l’ottenimento di attestati di qualifica (nel caso di studenti con disabilità); l’apprendistato di primo livello per micro-qualificazioni relative alla qualifica o al diploma professionale, o al certificato IFTS; l’apprendistato di terzo livello per qualificazioni o micro-qualificazioni contenute nei repertori regionali, così come per la formazione regolamentata oppure ancora, ma solo per i diplomati ITS, per l’acquisizione della qualifica di tecnologo aziendale.

In sintesi, i percorsi realizzabili in apprendistato si moltiplicano: sembra quasi che l’intenzione del legislatore sia quella di permettere di frequentare in apprendistato qualsiasi percorso formativo. Ma basta che vi sia una più o meno strutturata formazione, per poter pensare di svolgerla in apprendistato?

La risposta, a nostro parere, è no. L’ampiamento indiscriminato dei percorsi realizzabili in apprendistato ha un potenziale impatto sul senso di questo istituto ben più significativo rispetto alla rimozione dei limiti di età, questo in particolare per l’apprendistato di alta formazione, o di terzo livello, che viene annacquato e se non inquinato da una offerta formativa che nulla ha a che vedere col terzo livello e cioè con la formazione terziaria. Da percorso di eccellenza destinato all’acquisizione di titoli terziari (università, ITS) e per lo svolgimento di attività di ricerca e di praticantato, sarà in futuro possibile svolgere nel terzo livello anche percorsi brevi o brevissimi – contestualmente la proposta di riforma riduce da sei a tre mesi la durata minima dell’apprendistato di alta formazione e ricerca – finalizzati all’acquisizione delle più disparate qualificazioni contenute nei repertori pubblici. Non titoli di studi, quindi, ma neanche qualifiche riconosciute dai sistemi di classificazione e inquadramento dei contratti collettivi nazionali di lavoro: col rischio quindi di favorire un ricorso all’apprendistato sregolato (e al ribasso) perché funzionale solo ad abbinare ad un percorso di formazione un contratto di lavoro utile a garantire una minima retribuzione. Risulta difficile, infatti, immaginare una vera integrazione tra formazione fornita dagli enti formativi preposti alla erogazione di questi corsi ed esperienza lavorativa, data anche la contestuale durata ridotta di molti di questi percorsi.

L’elemento problematico non è tanto permettere di conseguire, in apprendistato, qualificazioni regionali. Ma il collocamento di tali percorsi nell’alveo dell’apprendistato di terzo livello, e la contestuale riduzione della durata minima di quest’ultimo a tre mesi. Quale vera integrazione realizzare, in un periodo di tempo così limitato? Periodo, peraltro, non più finalizzato all’acquisizione (anche) di una qualifica valida ai fini contrattuali, anche in questo caso irraggiungibile in un periodo di tempo così limitato. Sarebbe stato in questo senso meglio posizionare l’apprendistato per l’acquisizione di qualificazioni regionali nell’alveo dell’apprendistato professionalizzante, e magari anche in sostituzione o integrazione a questo nel combinare formazione regionale e qualificazioni contrattuali, o ancora tra i percorsi realizzabili grazie all’apprendistato di primo livello, dove si trovano i percorsi di istruzione e formazione professionale gestiti dalle regioni, così come quelli finalizzati all’ottenimento di queste qualificazioni.

In gioco, quindi, c’è il senso stesso dell’apprendistato, la sua funzione nel mercato del lavoro italiano. Da questa proposta di riforma sembra emergere una visione dell’istituto che ne amplia a dismisura le possibili funzionalità, sbiadendone ed annacquandone però l’identità. Un apprendistato di cui viene paradossalmente esaltata la sua dimensione contrattuale rispetto a quella di sistema di costruzione dei mestieri e delle professionali disciplinate nei sistemi di classificazione del personale dei contratti collettivi di lavoro: offrendo la possibilità di frequentare (quasi) qualsiasi corso in apprendistato in gioco non c’è la possibilità di realizzare una vera integrazione tra formazione e lavoro (a volte già prevista, altre impossibile a causa delle durate dei percorsi) ma di garantire ai frequentatori di questi percorsi un contratto, e quindi un reddito, e alle imprese una preselezione del personale.

Il definitivo scardinamento di una idea di apprendistato come sistema utile alla costruzione di professionalità legate ai fabbisogni e alle caratteristiche dei mercati del lavoro, invero già avviato parzialmente col Jobs Act, è plasticamente dimostrato anche dalle modifiche proposte all’art. 46 del d.lgs. 81/2015, dove viene eliminato il seguente passaggio: “Allo scopo di armonizzare le diverse qualifiche e qualificazioni professionali acquisite in apprendistato e consentire una correlazione tra standard formativi e standard professionali è istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il repertorio delle professioni predisposto sulla base dei sistemi di classificazione del personale previsti nei contratti collettivi di lavoro”. Si abbandona dunque l’idea di un apprendistato capace di raccordare titoli di studio e qualifiche, da una parte, e qualificazioni contrattuali previste nei CCNL, vero perno attorno al quale costruire un sistema capace di far dialogare o meglio integrare formazione e lavoro, garantendo un legame tra quanto appreso (le competenze) e quanto poi anche riconosciuto sul lavoro (in termini di classificazione del lavoro e inquadramento) (vedi L. Rustico, M. Tiaboschi, Standard professionali e standard formativi, in M. Tiraboschi (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Giuffrè editore, 2011, pp. 167- 187). Un progetto mai davvero decollato e che rischia così di cancellare la storia stessa dell’apprendistato, che non nasce nei tavoli della burocrazia amministrativa ma nel dinamismo delle relazioni industriali e dei corpi intermedi come strumento di costruzione sociale dei mestieri e di abilitazione delle tecnologie di nuova generazione (M. Colombo, Contributo allo studio del moderno apprendistato. Una lezione dal passato su mestieri, innovazione, corpi intermedi, ADAPT University Press, 2025, spec. pp. 33-37)

La proposta in discussione presenta ulteriori elementi di rilievo. Ad esempio con riferimento alla possibilità di attivare apprendistati in regime di codatorialità; la chiarificazione delle modalità grazie alle quali “passare” da un percorso all’altro nell’ambito della stessa tipologia di apprendistato (ad esempio all’apprendistato per l’acquisizione della laurea magistrale a completamento di un apprendistato per l’acquisizione della laurea triennale), e i relativi limiti di durata; la semplificazione delle procedure riguardanti la formazione esterna nell’ambito dell’apprendistato professionalizzante; i rimandi all’importanza di aggiornare il PFI; gli stessi già citati ampiamenti della platea di riferimento e di percorsi realizzabili in apprendistato.

Novità importanti, quindi, ma la cui portata in alcuni casi risulta essere eccessiva: i problemi sorgono infatti nel constatare la radicalità di questa “flessibilizzazione” dell’apprendistato, capace di distorcerne le finalità fino a ridurlo a semplice percorso di politica attiva, un frammento senza collocazione in un sistema più ampio.

Il peccato originale di questa proposta sembra essere, ad avviso di chi scrive, il mancato coinvolgimento delle parti sociali. Nulla sappiamo delle vicende di questo testo di riforma ma la lettura ci dà la certezza della assenza di un qualunque minimo coinvolgimento dei veri “padroni” dell’apprendistato cioè degli attori della rappresentanza.

La riduzione dell’apprendistato a strumento di politica attiva, e di cui viene esaltata primariamente la dimensione contrattuale, abbandona definitivamente l’idea di fungere quale raccordo sistematico di integrazione tra formazione, innovazione e lavoro e cioè tra competenze e percorsi formativi e sistemi di classificazione e inquadramento. Col rischio di ridursi ad un percorso burocratico, utile più per un rapido inserimento nel mercato del lavoro e quindi pensato primariamente alla luce della sua convenienza economica, magari destinato a soggetti più fragili e mentre ai giovani meritevoli vengono proposti i “nuovi” tirocini, anche in questo caso brevi contratti di inserimento economicamente vantaggiosi.

Matteo Colombo

Direttore Fondazione ADAPT

ADAPT Senior Fellow

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Michele Tiraboschi

Professore Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

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