Utopie del lavoro

 Una parola come utopia, così carica di suggestioni, anche perverse, non può essere usata impunemente e pretende una perimetrazione, prima in negativo poi, per quanto possibile, in positivo. Non si vuol parlare del lavoro nel migliore dei mondi possibili, ma del miglior lavoro nel mondo che c’è, com’è e come sta divenendo, ogni giorno che passa.

 

Né si vuol parlare dell’unico modo per rendere il lavoro perfetto, ma di un modo possibile per renderlo migliore. Tanto meno si vuol parlare di un qualsiasi modo in cui tutti debbano lavorare, ma di come possa essere prescelto un nuovo modo di essere nel lavoro. Perciò la parola fatale non è al singolare ma al plurale: non è una e soltanto una la utopia, ma sono tante le utopie possibili.

 

Così si può parlare, come è stato detto autorevolmente, usando un ossimoro suggestivo, di utopia “ragionevole”, perché l’obbiettivo non è e non vuol essere irenico ma progettuale, partendo dall’esistente e andando verso un nuovo orizzonte, facendo riferimento al contesto sociale e legale e alle possibili evoluzioni ragionevoli.

 

Chiaramente, in un tempo in cui tutto va pensato in termini globali, non si può fare a meno di considerare tutte le asimmetrie del mondo, in generale, e del lavoro, in particolare ma, lasciando intatti tutti gli ideali di giustizia universale, si può provare a costruire una utopia del lavoro ragionevole per la parte di mondo sviluppata e, specialmente nostra, come europei.

 

La nostra lunga corsa di sviluppo, ora affannata, ci ha portato a costruire, sia dentro i luoghi del lavoro che nella società del benessere, una selva di diritti, che non soltanto ha fatto troppo larga ombra ai doveri, ma ha anche tolto al lavoratore la possibilità di scegliere, cosicché ci si pone il problema ubiquitario del crescente malessere.

 

Qualcuno, in maniera ostinatamente ideologica, continua a pensare che tutti gli effetti negativi dello sviluppo, sul lavoro e sulle persone, siano legati al sistema capitalistico di produzione industriale, che è il vero artefice di tutto questo sviluppo materiale, mentre altri, in maniera astrattamente innovativa, ha cominciato a prospettare una decrescita in nome della sostenibilità.

 

 

Ma, lasciando alle ideologie le loro responsabilità, nel bene e nel male, se ci caliamo nel mondo reale quali sono le angosce che troviamo? Sicuramente l’angoscia primaria è quella del lavoro che i giovani non trovano e che i non giovani rischiano di perdere, almeno quelli che non fanno parte del vasto mondo dei garantiti.

 

Allora il primo obbiettivo di giustizia dovrebbe essere quello di costruire un sistema di garanzie uniforme, togliendo, anche gradualmente, a chi ha troppo e dando a chi ha troppo poco, partendo dal presupposto che non si possa dare tutto a tutti, ma anche che tutti debbano contribuire adeguatamente all’armonia sociale.

 

Tuttavia, in attesa che un obbiettivo come quello appena inquadrato venga anche semplicemente considerato dai decisori nazionali, dovrebbe essere imperativo che, anche a costo di qualche sacrificio, tutti i non garantiti pretendessero dai garantiti il massimo rispetto dei loro doveri, anche aggregandosi in una lotta per il diritto.

 

Peraltro, tornando al lavoro difficile, bisogna che gli esperti escano dalle loro stanze, si confrontino con la realtà e facciano sentire la loro voce alta e forte non sui dettagli delle disposizioni ma sulle cose essenziali. Bisogna lanciare non una crociata contro la scuola che non insegna a saper fare e a saper essere, ma per la dignità del lavoro, di tutti i lavori.

 

Quel senso del lavoro ben fatto, che viene prima di qualunque lavoro buono, a prescindere dagli studi praticati e dai titoli eventualmente conseguiti. Perché ogni lavoro da dignità a chi lo svolge correttamente e perché, anche se con l’evoluzione della tecnica si stanno svuotando di competenze molti lavori, restano spesso più contenuti nelle mansioni manuali che in quelle intellettuali.

 

Certo è che, con la riduzione dei ranghi dell’esercito del lavoro, questo è cambiato e richiede una nuova (o rinnovata) consapevolezza e partecipazione. Perciò dovremmo ripensare la subordinazione e rileggerla in chiave diversa, per non dire che dovremmo puramente e semplicemente espungerla dal contesto lavorativo, sostituendola con la collaborazione.

 

E questo a prescindere da ogni e qualsiasi logica di diritto del lavoro o della previdenza. Purtroppo i ragionamenti di effettività, che sono possibili per gli ordinamenti giuridici, non sono fattibili per le singole leggi, ma in quelle stesse leggi si possono, e si debbono, trovare i varchi per far avanzare una utopia ragionevole verso un nuovo orizzonte.

 

Non solo ma, così facendo, si potrebbe costruire, anche qui prescindendo da qualsiasi normativa positiva, eventualmente di agevolazione, una nuova (rinnovata) logica di partecipazione che, di là da tutte le soddisfazioni morali di una collaborazione al lavoro e al risultato comuni, renda anche i collaboratori materialmente partecipi di questo risultato, se positivo.

 

Senza peraltro escludere, in forme da verificare, che non intacchino la mitica sufficienza della retribuzione, una partecipazione materiale dei collaboratori anche in caso di risultato negativo, come già radicalmente avviene quando l’azienda tracolla, ma come potrebbe avvenire meno radicalmente se si potesse scongiurare il tracollo stesso.

 

Non è il diritto che crea il lavoro, anzi spesso può renderlo difficile, è l’impresa che lo crea ma, se c’è distonia tra le ragioni dell’impresa e le disposizioni della legge, sono gli esperti che ora debbono sostenere quelle ragioni, non perché sono dell’impresa, ma perché sono buone e perché le ragioni dell’impresa sono anche le ragioni dei lavoratori.

 

 

Ovviamente un discorso come questo presuppone la correttezza, in senso umano oltre che legale, delle parti e, nello stesso tempo, richiama e richiede che la scorrettezza, in qualunque forma si manifesti, sia investigata accuratamente, accertata rapidamente e punita severamente, perché l’impresa scorretta fa male alla comunità delle imprese e dei lavoratori e al Paese.

 

Antonio M. Orazi

ADAPT Professional Fellow

@occamorazi

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