Transizione scuola-lavoro e NEET: il caso Regno Unito A tu per tu con Paolo Lucchino

La transizione scuola-lavoro è un tema di ricerca diventato molto attuale. Ce ne definisce con precisione il campo di indagine e il target? Come viene studiata nel Regno Unito e qual è il grado di attenzione di comunità scientifica e istituzioni?

 

La cosiddetta grande recessione ed il prolungarsi delle sue conseguenze negli anni recenti hanno avuto un forte impatto sulla disoccupazione giovanile. Questo ha determinato un rinnovato interesse per la transizione scuola-lavoro da parte di ricercatori e policymaker, sia nel Regno Unito che altrove. Ci sono però ragioni per cui questo tema di ricerca merita d’essere oggetto di studio a sé, anche al di là del ciclo economico. In primis, le esperienze e transizioni lavorative dei giovani sono spesso più fluide di quelle dei lavoratori in età adulta. Sebbene questo fatto possa essere influenzato da caratteristiche istituzionali o contrattuali, emerge dall’inevitabile processo di scoperta e ricerca da parte di lavoratori ed imprese della collocazione più idonea per le competenze ed interessi di un individuo. La seconda ragione è che la natura delle esperienze dei giovani lavoratori può avere effetti anche nel lungo periodo, per esempio su redditi futuri ed incidenza della disoccupazione in età adulta. Diversi studi hanno trovato evidenza empirica di questi effetti qui nel Regno Unito. L’esistenza di effetti di lungo periodo implica che delle politiche efficaci possono ambire ad avere un bilancio positivo in termini di costi e benefici.

 

La condizione dei giovani tra 16 e 24 anni è mutata negli ultimi 30 anni, in Regno Unito così come in Italia. Paradossalmente accanto alla ampia diffusione dell’istruzione tra i giovani (anche quella di terzo livello) si assiste a fenomeni come quello dei NEET e l’aumento della disoccupazione giovanile. Come spiega questo paradosso?

 

Mantenendo la prospettiva di lungo periodo della domanda, mi permetto di mettere da parte, per il momento, il fenomeno della disoccupazione giovanile nella misura in cui è determinato dall’attuale congiuntura economica.  In quest’ottica, è interessante notare che, nel Regno Unito, i NEET sono esistiti almeno dal 1992 (e cioè quando inizia la serie statistica), e in seguito alla recessione dei primi anni ’90 erano addirittura più numerosi di adesso. Siamo quindi di fronte ad un fenomeno almeno in parte strutturale. Credo si possano fare passi importanti verso la spiegazione di questo paradosso attraverso un’analisi che vada oltre le statistiche aggregate. Chi sono veramente i NEET? È per esempio notevole che i NEET maschi siano principalmente disoccupati, mentre i NEET femmine siano principalmente inattive. Questo è solo un primo indizio, ma ci suggerisce che la comprensione del fenomeno NEET passa per la comprensione delle molteplici dinamiche sociali che agiscono in modo eterogeneo all’interno di questo gruppo.

 

In un suo recente studio sulla transizione, realizzato in collaborazione con Richard Dorsett, ha messo in evidenza i limiti delle statistiche presenti nell’attuale panorama scientifico. Il vostro approccio consente invece di studiare le transizioni individuali nel dettaglio nell’arco dei 5 anni dopo aver lasciato la scuola. Ci può spiegare più nel dettaglio il vostro ragionamento? Che risultati avete raccolto?

 

L’ambizione del nostro studio era esattamente quella di andare oltre le limitazioni delle statistiche aggregate. Innanzitutto, la categoria dei NEET è spesso troppo eterogenea per essere informativa. Chi sono i NEET? L’essere NEET è uno stato transitorio o duraturo? In che circostanze si trovano due o tre anni dopo? Ovvero, come si possono distinguere i NEET che hanno bisogno di supporto per uscire da questo stato e quelli che troveranno la propria strada da soli? Nello studio facciamo uso di una tecnica statistica (sequence analysis) che analizza l’intera sequenza di esperienze di studio, lavoro, disoccupazione o inattività degli individui nel nostro campione da quando terminano la scuola dell’obbligo (16 anni) fino ai 21, su dati del Regno Unito tra il 1991 e il 2008. Questa tecnica offre dunque una più ampia visione d’insieme rispetto alle statistiche comunemente usate, che misurano le circostanze in un momento preciso (es. tasso di disoccupazione) o durante un intervallo di tempo (es. mesi di disoccupazione nel corso dell’ultimo anno) ma che tralasciano informazioni preziose come per esempio l’ordine degli eventi. Grazie a questa tecnica si possono identificare gruppi di giovani che seguono percorsi simili, e dunque costruire una tipologia di transizioni scuola-lavoro. I nostri risultati indicano che la maggior parte dei giovani nel campione segue percorsi generalmente positivi. Oltre metà lascia la scuola e trova un inserimento nel mondo del lavoro, mentre un terzo prosegue gli studi per gran parte del periodo di osservazione. È da notare che molti di questi individui passano anche attraverso uno o più periodi di NEET. Il punto chiave però è che, per questi individui, l’essere NEET non interferisce con la direzione, positiva, del loro percorso durante questo momento della loro vita. Un individuo su dieci del nostro campione, invece, attraversa una fase caratterizzata da forti criticità che perdurano durante l’intero periodo di osservazione. Tra i NEET, questi sono gli individui che beneficerebbero maggiormente di un intervento di policy. I loro percorsi sono caratterizzati da una forte eterogeneità. Tuttavia, se volessimo identificarne i maggiori fattori di rischio, troviamo un livello di istruzione scarso e l’essere madri adolescenti. Questo crediamo sia un risultato importante per capire le cause sottostanti del fenomeno dei NEET.

 

In un altro recente studio proponete un modello innovativo che mette in relazione i fattori che influenzano i passaggi tra i “quattro stati” della transizione scuola-lavoro: istruzione, occupazione, disoccupazione, inattività. Qual è in questo contesto il ruolo delle prime esperienze di lavoro e come si possono programmare azioni in grado di prevenire il rischio di disoccupazione e inattività?

 

Il nostro modello permette di identificare l’effetto cumulativo di determinate esperienze di lavoro o disoccupazione sull’esito delle esperienze future. Tra i risultati che otteniamo, due in particolare offrono una chiara indicazione per la pianificazione di politiche d’intervento. Primo, più lungo è il periodo di disoccupazione, più difficile diventa trovare una nuova occupazione. In sostanza: non conviene aspettare per un lavoro migliore, ma è preferibile accettare il lavoro che si trova, ed eventualmente cercare lavoro da occupati. Secondo, più lungo è il periodo di occupazione, minore è il rischio di ritornare ad uno stato di disoccupazione e, se questo accade, maggiore è la probabilità di trovare un nuovo lavoro. Il lavoro è una forma di assicurazione che si rafforza nel tempo. Il messaggio di policy è chiaro, e qui nel Regno Unito ha addirittura un nome: work first.

 

Che idea si è fatto del Piano Europeo Garanzia Giovani per affrontare il grave fenomeno dei NEET? In Italia i numeri non sono confortanti, nonostante il significativo investimento comunitario. Qual è la situazione nel Regno Unito?

 

Proprio alla luce di evidenze empiriche come quella appena descritta, la Youth Guarantee è uno strumento importante, specie in periodi di difficoltà economiche durante i quali molti giovani si troveranno senza lavoro. Permette di interrompere un periodo di inattività ed evitare che inneschi effetti negativi nel lungo periodo. Per essere efficace, è importante che la qualità dell’esperienza di lavoro o formazione sia comparabile a quella di lavori che esisterebbero anche in assenza di questo supporto. Questa è una questione che molti programmi di questo tipo devono affrontare. Il Governo del Regno Unito condivide l’obiettivo di fondo della Garanzia Giovani, ma ha deciso di non implementarla. Preferisce rafforzare iniziative esistenti come lo Youth Contract o l’apprendistato.  A voler essere un po’ cinici, il fatto che il precedente governo Laburista aveva un’iniziativa chiamata proprio Youth Guarantee forse complica un po’ le cose. L’immagine conta.

 

Per ridurre i tempi della transizione scuola-lavoro, e per rendere più coerente il passaggio Education-to-Employment, l’Europa propone essenzialmente quattro strumenti: orientamento scolastico, istruzione tecnica e professionale, apprendistato, imprenditoria giovanile. Li considera sufficienti? Quali altre politiche sono possibili?
Sono strumenti assolutamente condivisibili. Aggiungerei un’ulteriore sfaccettatura, sottolineando come le difficoltà nella transizione scuola-lavoro sono spesso solo l’altra medaglia di criticità sociali più ampie. Come abbiamo visto nel nostro studio, nel Regno Unito buona parte delle transizioni problematiche sono associate al fenomeno delle teenage mothers (per cui il Regno Unito si classifica quarto nell’EU28). In alcuni casi, la transizione tra scuola-lavoro va affrontata insieme a disagi sociali di natura anche molto diversa.

 

Tra le policy del Regno Unito la c.d. “Richard Review” sta puntando molto sull’apprendistato (per un confronto comparato a livello europeo, utile l’analisi di Adapt). Qual è la sua opinione sulla riforma dell’apprendistato in UK e il Governo fa bene a investirci?

 

Credo che l’apprendistato sia il modo per dare una prospettiva di carriera nei moltissimi settori dove la formazione va necessariamente fatta on the job. È uno strumento troppo poco utilizzato, sia qui nel Regno Unito che in Italia. Il panorama dell’apprendistato nel Regno Unito è caratterizzato da molta eterogeneità e complessità. Alcuni apprendistati sono di ottima qualità, e ricevono molte più domande dei posti disponibili.  D’altro canto, in molti casi i datori di lavoro valutano con diffidenza gli standard di certificazione ottenuti da chi ha completato un percorso di apprendistato. La recente riforma mira a riordinare il quadro di riferimento e coinvolgere le imprese nella definizione dei requisiti formativi per rendere più facile la valutazione di queste esperienze da parte del mercato del lavoro. Rimane però da vedere se questo sarà sufficiente ad aumentare in modo significativo il ricorso agli apprendistati.

 

Un’ultima domanda sull’Italia: McKinsey nel report “Studio Ergo Lavoro” ha stimato che circa il 40% dell’attuale disoccupazione giovanile nasce dal mancato collegamento tra scuola e lavoro. Secondo Eurostat la transizione dal conseguimento di un titolo di studio al primo stato occupazionale è di soli 4 mesi in paesi come Regno Unito, Germania, Danimarca. In Italia e Spagna si va dai 10 ai 12 mesi. Crede sia una criticità legata a cause economiche o invece si tratta di anomalie strutturali del sistema di istruzione italiano? Che tipo di modello di Education-to-Employment può offrire un paese come il Regno Unito?

 

Il cosiddetto mismatch tra le aspirazioni degli studenti e le loro reali possibilità, come tra le competenze richieste dai datori di lavoro e quelle in possesso degli studenti, è un fenomeno che vediamo anche qui nel Regno Unito. Ci sono sicuramente margini per intervenire. Nel caso italiano però, credo sarebbe sbagliato ignorare in toto le cause economiche ed istituzionali che determinano la grave situazione del mercato del lavoro giovanile. Basta ricordare che il Paese non cresce da vent’anni. In Italia, soffriamo anche del dualismo del nostro mercato del lavoro, dove l’abuso di contratti temporanei non favorisce l’investimento in formazione e l’aumento della produttività. L’anno scorso il flusso di italiani verso il Regno Unito è aumentato del 66% rispetto all’anno precedente. Se penso agli italiani che incontro qui, da chi lavora al Tesoro di Sua Maestà, chi gestisce la logistica di una grande catena di cibo da asporto o chi apre un bar, quello che sicuramente non percepisco è la mancanza di preparazione.

 

Alfonso Balsamo

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@Alfonso_Balsamo

 

* Paolo Lucchino è Senior Research Fellow al National Institute of Economic and Social Research, dove si occupa di economia del lavoro, tassazione e welfare. È dottorando in Geografia Economica alla London School of Economics con una tesi sull’economia sociale e cooperativa, grazie al supporto della ESRC Advanced Quantitative Methods Studentship. In precedenza, ha lavorato tre anni come Government Economist al Ministero del Tesoro del Regno Unito e per circa due anni nel campo della cooperazione allo sviluppo in Giordania e Yemen.

 

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