Tempo-tuta, orario di lavoro e retribuzione: un nuovo orientamento giurisprudenziale

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Bollettino ADAPT 11 dicembre 2023, n. 43
 
Il 4 luglio 2023, il Tribunale di Milano si è pronunciato su una richiesta avanzata da due lavoratrici inerente il c.d. tempo-tuta. Si parla di tempo-tuta facendo riferimento al tempo di vestizione e svestizione necessario al lavoratore per indossare un determinato abbigliamento richiesto sul luogo di lavoro. In assenza di un riferimento normativo in materia, la giurisprudenza consolidata considera il tempo-tuta orario di lavoro, con conseguente maturazione del diritto alla retribuzione, se vi è stata eterodirezione datoriale, ossia un’esplicita imposizione in merito al tempo, modo e luogo della vestizione, anche in via tacita o implicita.
 
Nel caso di specie, alle ricorrenti veniva richiesto di indossare una divisa durante lo svolgimento delle mansioni lavorative e che tale divisa doveva essere indossata nei locali aziendali prima di timbrare il cartellino e tolta al termine dello svolgimento della prestazione lavorativa. Benché la società datrice di lavoro, convenuta in giudizio, ritenesse la richiesta di indossare la divisa non caratterizzata da eterodirezione, in giudizio viene ricostruito che i lavoratori avessero la necessità di svolgere l’attività di vestizione antecedentemente la timbratura del cartellino, in modo da iniziare la prestazione lavorativa con l’inizio del turno di lavoro.
 
La domanda delle lavoratrici viene ritenuta fondata da parte del giudice e quindi meritevole di accoglimento, in quanto si è ritenuto provato l’elemento della eterodirezione. Il giudice, nel caso di specie, tuttavia, si discosta dal consolidato orientamento giurisprudenziale precitato, ritenendo che l’attività di vestimento sia da ricondurre all’eterodirezione anche in assenza di univoca direttiva aziendale che imponga l’indossamento, svestizione e custodia della divisa nei locali aziendali. Secondo il Tribunale di Milano, la mera richiesta di indossare una divisa costituisce già si per sé un’attività preparatoria e funzionale allo svolgimento della prestazione, tale per cui l’attività deve rientrare nell’ambito del tempo di lavoro regolarmente retribuito.
 
Di conseguenza, la possibilità di lasciare libero il lavoratore di indossare la divisa al di fuori dei locali aziendali, come la propria abitazione, non può essere considerato dal datore di lavoro come rilevante per elidere l’obbligo retributivo a suo carico. Infatti, tale soluzione risulta, ad avviso del giudicante, “contraria alla dignità dei lavoratori”, in quanto ai fini di sviluppare la propria personalità e svolgere attività sociali prima o dopo l’orario di lavoro, al lavoratore deve essere riconosciuta la prerogativa di indossare abiti civili.
 
Il giudice, nel caso di specie rivaluta l’intensità dei poteri di eterodirezione del datore di lavoro in materia di vestiario aziendale, riconoscendone la sussistenza anche in assenza di una specifica indicazione su tempo, modo e luogo dello svolgimento dell’attività di vestizione. La sentenza in commento va segnalata per aver compiuto una valutazione più ampia sulle condizioni delle lavoratrici del caso di specie, andando a considerare degli aspetti della vita privata, che raramente erano presi in considerazione per valutare il diritto alla retribuzione del tempo-tuta. Tale decisione costituisce sicuramente un elemento di novità rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, tanto che risulterà certamente interessante verificare se le argomentazioni addotte nella sentenza in questione avranno seguito, laddove saranno riprese e rielaborate da altre corti o confermate dalla Suprema Corte.

 
Angela Zaniboni

ADAPT Junior Fellow

@angzanib

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