Rifiuto della richiesta di lavoro agile da parte del lavoratore disabile: quali conseguenze per il datore?

La nuova modalità organizzativa del lavoro agile, come delineata nell’articolo 13 del disegno di legge AS 2233, attualmente all’esame delle aule parlamentari, è incentrata sulla volontarietà dell’accordo, dovendosi ritenere pacificamente che nessun obbligo sussiste di accettare la proposta in capo al lavoratore o al datore. Egualmente nessuna conseguenza dovrebbe derivare al lavoratore nel caso in cui questi rifiutasse di accettare una proposta di lavoro agile (anche se manca nel testo normativo una disposizione analoga a quella contenuta nell’articolo 8 co. 1 del decreto legislativo 81/2015 circa il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale).

 

Ma cosa succede se la proposta di lavoro agile scaturisce dalla iniziativa del lavoratore affetto da disabilità, che voglia, in tal modo, conciliare al meglio i suoi tempi di vita (anche di cura) e di lavoro? Può il datore di lavoro rifiutarsi legittimamente di accoglierla in nome della volontarietà dell’accordo e, in caso contrario, quali conseguenze potrebbero derivarne?

Una possibile soluzione al quesito dovrebbe partire dalla considerazione della funzione del lavoro agile inteso come modalità organizzativa del lavoro che persegue, tra i diversi fini, quello della conciliazione dei tempi di vita e lavoro del lavoratore (lo ribadisce il primo comma del citato articolo 13).

 

In quanto tale il lavoro agile si pone come forma elettiva di “accomodamento ragionevole”, da intendere, secondo la definizione contenuta in L. Weddington e A. Lawson, Disability and non discrimination law in the European Union. An analysis of disability discrimination law within and beyond the employment field, European Commission Directorate-General for Employment, Social Affairs and Equal Opportunities Unit G.2, 2009, un adattamento alla situazione concreta delle normali procedure, dei processi o delle infrastrutture idoneo a consentire al disabile di accedere, partecipare o progredire all’impiego o nella carriera. L’ingresso dell’accomodamento ragionevole nel nostro ordinamento è avvenuto, dopo la condanna della Corte di giustizia Ue, in sede di conversione del decreto legge 76/2013 nella legge 99/2013. È interessante osservare la tecnica legislativa seguita, consistente nell’inserire la norma all’interno del decreto legislativo n. 216/2003, recante «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», sotto forma dell’aggiunta del nuovo articolo 3-bis. L’articolo 4 del medesimo decreto stabilisce che i giudizi civili avverso gli atti e i comportamenti di cui all’articolo 2 sono regolati dall’articolo 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150  (tale decreto ha riordinato i procedimenti in materia di discriminazione, qualunque sia la loro natura ed il loro oggetto, con l’introduzione di un unico rito in sostituzione dei numerosi regolati dalle diverse disposizioni normative). A sua volta l’articolo 2 definisce:

– la nozione di discriminazione diretta che si verifica quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata  meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

– la nozione di discriminazione indiretta, ovvero quella che si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

 

Ora pare ragionevole ritenere che il rifiuto, da parte del datore di lavoro, di acconsentire a porre in essere un accomodamento ragionevole per assecondare le esigenze lavorative del disabile, ivi inclusa la nuova modalità organizzativa del lavoro agile, ove tale accomodamento sia, appunto, realmente “ragionevole” e non determini un onere sproporzionato ed eccessivo, configuri un comportamento discriminatorio. La stessa Convenzione Onu, richiamata espressamente dal novello articolo 3-bis del d.lgs. n. 216/2003, all’articolo 2, nel definire la nozione di “discriminazione fondata sulla disabilità”, fa riferimento a «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole». Nel 2010, l’Unione europea ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (decisione 2010/48/Ce del Consiglio, 26 novembre 2009).

 

E poiché gli accordi internazionali conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri, tali accordi costituiscono parte essenziale dell’ordinamento giuridico dell’Unione, talché la prevalenza degli accordi internazionali conclusi dall’Unione sulle norme di diritto derivato impone di interpretare queste ultime in maniera per quanto possibile conforme a detti accordi (cfr., tra le tante, Corte di giustizia 11 aprile 2013, HK Danmark). A ciò si aggiunga che il citato comma 3-bis fa espresso riferimento alla nozione di accomodamento ragionevole come definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dalla legge 3 marzo 2009, n. 18.

 

Conseguentemente qualsiasi rifiuto ingiustificato di accomodamento, ivi inclusa la richiesta di lavorare in modalità agile da parte del lavoratore disabile, potrà in ipotesi incorrere nella peculiare tutela apprestata dall’articolo 28 del decreto legislativo n. 150 (rito sommario di cognizione) caratterizzata da:

– maggiori poteri istruttori;

– vantaggi per il ricorrente in tema di oneri probatori;

– proponibilità senza l’ausilio del difensore;

– possibilità di legittimazione attiva, previa delega, delle parti sociali.

 

Ulteriore conseguenza deriva dalla applicabilità, se il datore di lavoro è una impresa, della tutela cui espressamente rimanda il secondo periodo del comma 2 dell’articolo 4 d.lgs. n. 216/2003, prevista dall’articolo 44, comma 11, del decreto legislativo n. 286/1998. Tale ultima norma prevede a carico delle imprese cui siano stati accordati benefici ai sensi delle leggi vigenti dello Stato o delle Regioni, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, di servizi o di forniture, la revoca dei predetti benefici e, nei casi più gravi, l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto, ove siano stati accertati atti o comportamenti discriminatori.

In conclusione, se il lavoro prestato in modalità agile si pone come l’accomodamento ragionevole per eccellenza a favore dei lavoratori con disabilità, segue che un rifiuto ingiustificato o irragionevole del datore di lavoro di concedere tale modalità organizzativa al disabile che la richiede, può realizzare la fattispecie del comportamento discriminatorio, con le conseguenze sopra esaminate.

 

Antonio Carlo Scacco

ADAPT Professional Fellow

 

 @antonioscacc

 

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Rifiuto della richiesta di lavoro agile da parte del lavoratore disabile: quali conseguenze per il datore?
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