Retribuzione e appalti pubblici: alcune considerazioni sulla recente “rivolta” dei Comuni

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Bollettino ADAPT 25 marzo 2024, n. 12
 
Sta già facendo discutere la recente delibera della giunta del Comune di Firenze del 18 marzo 2024, avente ad oggetto la “Tutela della retribuzione minima salariale nei contratti del Comune di Firenze”. In sostanza, la giunta comunale ha stabilito che in tutte le procedure di gara per l’aggiudicazione di contratti di appalto con il Comune di Firenze, gli uffici preposti debbano accertarsi che i CCNL “indicati nella procedura di gara” e cioè il CCNL applicato “dagli operatori economici in sede di offerta” prevedano, in ogni caso, “un trattamento economico minimo inderogabile pari a 9 euro l’ora” (p. 5 della delibera, punto 1, lett. b) e d).
 
Come è noto, l’art. 11, comma 1 del d.lgs. n. 36/2023 (c.d. Codice degli appalti pubblici) prevede che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato  il   contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le  prestazioni  di  lavorostipulato dalle associazioni  dei  datori  e  dei  prestatori   di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.
 
Tuttavia, l’art. 11, comma 3 del medesimo decreto prevede che “Gli operatori economici possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente”. Detta disposizione normativa, dunque, consente all’operatore economico che partecipa alla gara di appalto di applicare anche un altro contratto collettivo diverso da quello indicato nel bando di gara, purché garantisca il medesimo livello di tutele.

Su cosa debba “misurarsi” questa equipollenza di tutele il Codice non lo dice chiaramente. Sennonché, le linee guida ANAC del 2023 ritengono che l’equipollenza debba essere stabilita verificando alcuni parametri contrattuali indicati dalla circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 2/2020 (sulle criticità di questa scelta, cfr. G. Piglialarmi, Appalti pubblici e contrattazione collettiva: la battaglia della semplificazione tra narrativa e realtà (normativa), in Bollettino ADAPT 24 luglio 2023, n. 28).
 
La delibera fiorentina aderisce ai criteri stabiliti dalle linee guida ANAC, recependo le indicazioni di organi amministrativi gerarchicamente superiori (infatti, l’atto in questione prevede che l’Amministrazione comunale debba “condurre il giudizio di equivalenza sulla base dei 12 parametri tracciati dall’ANAC nella relazione illustrativa al Bando tipo n. 1/2023, elaborati sulla base delle indicazioni fornite dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la Circolare n. 2 del 28/7/2020. L’Amministrazione comunale può ritenere sussistente l’equivalenza in caso di scostamenti in numero massimo di due parametri”, cfr. p. 5 della delibera, punto 1, lett. d).
 
Tuttavia, la delibera aggiunge un ulteriore parametro di verifica, laddove prevede che, fermo restando la verifica dei parametri stabiliti dalle linee guida ANAC, “l’Amministrazione Comunale deve, prima di tutto, accertare che il diverso contratto collettivo indicato dagli operatori economici in sede di offerta deve prevedere una retribuzione minima inderogabile pari a 9 euro l’ora” (v. sempre p. 5 della delibera, punto 1, lett. d). Orbene, detto parametro, stando alla lettera della delibera, deve essere verificato in via prioritaria rispetto agli altri 12 parametri indicati nelle linee guida ANAC.
 
La decisione assunta dalla giunta di Firenze ha già suscitato alcune perplessità, a partire dal fatto che è del tutto singolare come venga preso a riferimento proprio quel valore economico che è stato al centro dei diversi disegni di legge riguardanti il salario minimo legale (i “famosi” 9 euro lordi) e che ora il dibattito parlamentare ha accantonato.
 
In particolare, ci si chiede se una delibera di una giunta comunale possa aggiungere un criterio del tutto diverso e autonomo da quelli stabiliti dagli organi amministrativi superiori, ricavati dall’interpretazione della legge. Si potrebbe sostenere, anzitutto, che detto atto, seguendo quanto dice il TUEL (d.lgs. n. 276/2000, art. 107), è emesso da un organo di governo (la giunta), che detta dunque la linea politico-amministrativa per la tutela e lo sviluppo del territorio che è chiamato a governare. Che, nel caso di specie, potrebbe essere quella di tutelare in modo particolarmente incisivo il trattamento economico dei lavoratori impiegati negli appalti comunali.
 
Inoltre, si potrebbe sostenere che il bando di gara, in quanto lex specialis (cioè atto amministrativo generale che detta le “regole fondamentali” per partecipare alla procedura pubblica, vincolando non solo chi vi prende parte ma anche la stessa Pubblica Amministrazione che indice la gara) potrebbe indicare tutti quei criteri utili a definire le condizioni di accesso alla procedura (criteri ai quali devono attenersi i successivi documenti, cioè il capitolato e il disciplinare di gara; cfr. Cons. St., sez. III, 3 marzo 2021, n. 1804).
 
Tuttavia, queste argomentazioni non convincono del tutto. Siamo dell’idea, infatti, che un rilevante nodo problematico (e la conseguente legittimità giuridica della scelta compiuta dalla giunta fiorentina) potrebbe sorgere allorquando una impresa provi ad aggiudicarsi un contratto di appalto presso il Comune di Firenze applicando un CCNL diverso da quello previsto dal bando e venga esclusa dalla gara per il solo fatto che il CCNL applicato, anche se “equipollente” in termini di tutela a quello indicato nella lex specialis, non preveda “una retribuzione minima inderogabile pari a 9 euro l’ora”.
 
A nostro avviso, questa impresa potrebbe impugnare la decisione assunta dall’Amministrazione fiorentina per due ragioni. Anzitutto, la legge non conferisce alcun potere agli organi amministrativi di stabilire dei criteri in base ai quali ritenere soddisfatta l’equipollenza delle tutele di cui all’art. 11, comma 3 del d.lgs. n. 36/2023. Il parametro di riferimento per vagliare l’equipollenza, infatti, è e resta il CCNL c.d. leader, cioè il trattamento economico e normativo stabilito dal CCNL indicato dall’art. 11, comma 1 del d.lgs. n. 36/2023.
 
Inoltre, pur riconoscendo che il bando, in quanto lex specialis, è funzionale a fissare le regole fondamentali per la partecipazione alla gara, questo è comunque soggetto ai criteri stabiliti dalla legge. A tal proposito, tanto l’art. 57, comma 1 che l’art. 102, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 36/2023 indicano che i bandi di gara devono contenere alcune clausole sociali poste a tutela dei lavoratori, tra le quali vi è l’applicazione del CCNL di cui all’art. 11, comma 1 del medesimo decreto. Dette disposizioni, tuttavia, non conferiscono altro margine ai bandi di gara in materia di definizione delle condizioni di lavoro. E non può che essere così: è opportuno ricordare, infatti, che la regolamentazione del rapporto di lavoro rientra nella esclusiva potestà legislativa dello Stato (art. 117 Cost.).
 
Questo ci porta a concludere che la delibera potrebbe essere ritenuta del tutto inefficace, non solo perché emessa in assenza di un riferimento di legge che conferisca alla pubblica amministrazione il potere di stabilire ulteriori criteri alla stregua dei quali ritenere ricevibile e valutabile l’offerta dell’operatore economico; ma anche perché, detto atto si pone in contrasto con l’art. 117 Cost., poiché entra nel merito della regolamentazione del rapporto di lavoro, terreno che rientra nell’ordinamento civile, materia di potestà legislativa statale esclusiva.
 
In conclusione, dunque, possiamo ritenere che la delibera di giunta – che, a quanto pare, non è un caso isolato, potendo riscontrare che la stessa decisione è stata assunta anche in altri comuni italiani – più che un atto destinato a (non) produrre effetti giuridici vincolanti per operatori economici, somigli, per certi versi, ad un “atto di disobbedienza civile” promosso dagli amministratori locali, finalizzato a sollecitare nuovamente il Parlamento e il Governo a porre l’attenzione sul tema del salario minimo legale, pur nella consapevolezza di non poter generare alcun tipo di vincolo giuridico al momento. Infatti, qualora i Comuni avessero voluto effettivamente garantire il rispetto delle tutele dei lavoratori impiegati negli appalti pubblici, avrebbero dovuto adottare un approccio del tutto diverso, prevedendo la costituzione di una locale commissione di monitoraggio sugli appalti pubblici partecipata anche dai sindacati che sottoscrivono i contratti collettivi di cui all’art. 11, comma 1 del d.lgs. n. 36/2023, affidandole funzioni consultive nell’ambito della procedura di affido dei lavori, con specifico riguardo alla verifica dell’equipollenza delle tutele soprattutto economiche contenute nei CCNL applicati dagli operatori economici in sede di gara (è questa una delle pratiche più riuscite, oltreché giuridicamente legittime, nella collaborazione tra organizzazioni sindacali ed enti locali; si veda, a tal proposito, una risalente esperienza in merito: G. Piglialarmi, L’Accordo Quadro per il cambio di appalto: best practices dalla Regione Toscana, in Bollettino ADAPT 10 giugno 2019, n. 22).
 
In ogni caso, che gli enti locali intervengano, di tanto in tanto, su temi di rilevanza nazionale (e di competenza dello Stato) in materia di lavoro non è certo una novità. Basti ricordare che la Regione Lazio, con legge regionale n. 4/2019, aveva fissato delle condizioni minime di tutela per i lavoratori delle piattaforme digitali, sebbene consapevole dei profili di incostituzionalità di detta legge per contrarietà all’art. 117 Cost. (sussistendo anche in questo caso una ipotesi di “invasione” del legislatore regionale nell’area della potestà legislativa nazionale).
 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore in diritto del lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

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