Regole “anti-covid” sui luoghi di lavoro: NO alle misure “fai da te”

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Bollettino ADAPT 22 maggio 2022, n. 20
 
Con la pronuncia n. 832 del 21 marzo 2022, il Tribunale di Busto Arsizio ha dichiarato “illegittima e ritorsiva” la condotta posta in essere dal datore di lavoro che aveva imposto ai propri dipendenti di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19, salvo prevedere misure di isolamento (rispetto ai colleghi vaccinati) mediante trasferimento in locali distaccati dalla sede principale.
 
Nel caso di specie, infatti, due dipendenti della medesima società avevano lamentato comportamenti illeciti e mobbizzanti del proprio datore di lavoro, posti in essere dopo che i lavoratori avevano reso noto di non essersi sottoposti alla vaccinazione contro il Covid-19.
 
Nello specifico, tra le condotte poste in essere dal datore di lavoro e contestate dai due lavoratori in quanto ritenute discriminatorie e vessatorie – e per le quali viene adito con procedimento d’urgenza ex artt. 669 terdecies e 700 cpc il Tribunale, riunito in Camera di Consiglio, al fine di ordinarne la cessazione – vi sono le seguenti: dalla richiesta del Green Pass da vaccino per l’accesso in azienda, all’isolamento (in una sede distaccata sporca, fredda e non idonea ad ospitare la prestazione lavorativa) di coloro i quali non si erano sottoposti al vaccino e, ancora, impedire ai lavoratori di svolgere le proprie mansioni o imporre ai medesimi l’utilizzo delle ferie al fine di tenerli lontani dal luogo di lavoro, muovere contestazioni disciplinari senza fondamento, videosorvegliare i lavoratori e acquisire dati sensibili (quali risultati di test sierologici) senza il consenso dei lavoratori.
 
Sul punto, merita ricordare infatti che, fino ai primi mesi del 2022 (periodo in cui è stato previsto l’obbligo di possedere ed esibire il c.d. Green Pass Rafforzato – quindi da vaccino – per lavoratori di età superiore a 50 anni nonché per il personale universitario) e fatte salve alcune categorie di lavoratori per cui vi era già l’obbligo di vaccinazione (es. personale sanitario), la normativa inerente al rilascio del Green Pass al fine di accedere ai luoghi di lavoro prevedeva, ai sensi dell’art. 9, DL 52/2021,  la possibilità di ottenere la richiamata certificazione verde mediante tre circostanze: somministrazione del vaccino, guarigione da Covid-19 o effettuazione del tampone (molecolare o rapido). Palese appare dunque come, al fine di poter rendere la prestazione lavorativa, non vi era un vero e proprio obbligo di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19 ma, piuttosto (a far data dal 15 ottobre 2021 per effetto del DL 127/2021), l’onere per i lavoratori non vaccinati (e non ancora risultati positivi al Covid-19) di sottoporsi, ogni 48-72 ore, alla effettuazione di un tampone per escludere la propria positività al virus Sars-Cov-2 prima di accedere ai luoghi di lavoro. Sul punto, infatti, il Tribunale adito non manca di sottolineare come all’epoca dei fatti (settembre / ottobre 2021) non vi era neppure un obbligo ex lege di esibire il Green Pass c.d. “base” – ottenuto dunque anche mediante effettuazione del tampone – e, tanto meno, anche nella normativa successiva, vi è mai stata la ragione di isolare uno o più lavoratori non vaccinati dai propri colleghi vaccinati (fermo restando quei settori – in particolare quello sanitario – in cui, con il DL 44/2021, è stato previsto l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19 come requisito per svolgere la prestazione lavorativa).
 
Tralasciando in questa sede le riflessioni in merito all’efficacia delle misure di sicurezza individuate al livello nazionale (si veda a tal proposito il contributo di A. Tundo, Obbligo vaccinale ritenuto «inutile e gravemente pregiudizievole»: il Tribunale di Padova riammette in servizio operatrice socio-sanitaria no-vax, di commento alla recente pronuncia Tribunale di Padova del 28 aprile 2022 in cui il Giudice effettua, in parte, anche un ragionamento sulla efficacia del vaccino e del tampone come misura di prevenzione) merita domandarsi se alcune scelte datoriali – come ad esempio quella di isolare i lavoratori privi del vaccino – sono da ritenersi legittime e giustificate alla luce di quanto imposto dall’art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro oppure rischiano di risultare sproporzionate. In tal senso, è opportuno ricordare altresì che con l’introduzione dei c.d. protocolli di sicurezza, vi è stata la necessità di adeguare e adattare le misure di prevenzione contenute nelle linee guida presenti all’interno del Protocollo condiviso dal Governo e dalle Parti Sociali il 14 marzo 2020 e ss. mm. ai singoli contesti aziendali, incentivando pertanto anche la redazione di singoli e specifici protocolli aziendali (sul punto si veda G. Benincasa, M. Tiraboschi, Covid-19: le problematiche di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro tra protocolli condivisi e accordi aziendali, in D. Garofalo, M. Tiraboschi, V. Filì, F. Seghezzi, Welfare e lavoro nella emergenza epidemiologica, Volume V – Le sfide per le relazioni industriali, ADAPT e-Book, 2020).
 
Tuttavia, ciò che non appare possibile, nonostante la lettera dell’art. 29-bis, DL 23/2020, coordinato con la legge di conversione 40/2020, è la condizione di prevedere misure di sicurezza “fai da te” che, come ribadito nella pronuncia in analisi, rischiano di essere sproporzionate e di ledere la dignità e la personalità morale dei lavoratori. Sebbene infatti, come sancito dal Tribunale di Busto Arsizio, il richiamato art. 2087 c.c. disciplina che le misure adottate dal datore di lavoro devono essere idonee a tutelare i luoghi di lavoro tenuto conto della particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica (elementi che non sembrano essere tenuti in considerazione nell’individuazione delle misure nel caso di specie), risulta altresì necessario contemperare gli interessi in gioco “specie nella complessa situazione che ha provocato la pandemia ove l’esigenza di imporre strumenti e comportamenti atti a contrastare la diffusione dell’epidemia ha dovuto essere in più occasioni contemperata con la libertà di scelta di ogni singolo individuo rispetto all’auspicata richiesta di sottoporsi a trattamenti sanitari”.
 
Non di meno importante, sebbene rappresenti un aspetto che pare del tutto trascurato nella pronuncia oggetto del presente commento, è la posizione del Garante per la privacy che, sin dal primo momento, ha affermato il divieto per i datori di lavoro di richiedere informazioni ai lavoratori circa il proprio status di vaccinazione. Ed invero non sono mancati negli ultimi due anni interventi da parte del Garante per la privacy diretti a fornire linee di indirizzo per quanto concerne il trattamento dei dati personali nel contesto delle vaccinazioni anti COVID-19 nei luoghi di lavoro (per un approfondimento sul punto si rimanda a G. Benincasa, D. Porcheddu, Vaccinazione nei luoghi di lavoro: qualche chiarimento in materia di privacy e trattamento dei dati personali, in Bollettino ADAPT 17 maggio 2021, n. 19). A tal proposito, infatti, abbiamo già avuto modo di porre l’attenzione sul consenso del lavoratore posto alla base del trattamento dei suoi dati personali connessi alla vaccinazione e che, anche laddove presente, potrebbe essere ritenuto non conforme al GDPR. In particolare, sembra rilevare in tal senso il considerando 43 del GDPR, nel quale viene sancito che il consenso da parte dell’interessato al trattamento dei propri dati, pur essendo presente nell’elenco di cui all’articolo 6 del GDPR, non costituisce opportuna base giuridica al fine di valutare la liceità del trattamento nel caso in cui esista un evidente squilibrio di potere tra l’interessato e il titolare del trattamento (come nel caso della particolare conformazione della relazione tra le parti del rapporto di lavoro).
 
Ancora, il Collegio adito ha prontamente affermato che le misure poste in essere dalla Società parte del giudizio in commento, sono risultate lesive della libertà di autodeterminazione dei lavoratori, definendo la scelta di isolare i lavoratori non vaccinati come “illogica ed eccessivae dichiarando la condotta del datore di lavoro “illegittima e ritorsiva siccome in contrasto con la normativa vigente all’epoca dei fatti e persino con la normativa che successivamente è entrata in vigore per contrastare in maniera ancora più efficace il rischio di contagio”. Inoltre, sebbene nell’ambito di un procedimento d’urgenza e, dunque, finalizzato a verificare esclusivamente la sussistenza del fumus boni iuris, il giudicante ha ritenuto, sulla base della documentazione fotografica allegata, la possibile fondatezza del diritto invocato in via cautelare dai lavoratori di poter lavorare in un ambiente idoneo.
 
Non solo. Oltre alla dimensione fisica della salute del lavoratore (che deve poter lavorare in un luogo salubre e ispirato ai principi di igiene e sicurezza) ciò che pare rilevare infine nel caso di specie è anche la sua dimensione psicosociale. In questa prospettiva, infatti, merita sottolineare come il Giudice afferma la presenza del periculum in mora rintracciando quest’ultimo nel danno che la condotta datoriale può avere “sull’equilibrio psicofisico dei lavoratori esposti ad una situazione di stress conseguente al proprio isolamento e allontanamento dalla consueta postazione di lavoro” in quanto comportamenti in grado di ledere la dignità e la personalità morale dei lavoratori, nonché di arrecare danno alla loro professionalità.
 
Giada Benincasa

Assegnista presso il Dipartimento di Economia Marco Biagi

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@BenincasaGiada

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