Quale spazio per l’autonomia privata nel Jobs act? Alcuni aspetti applicativi della clausola di durata minima garantita

L’asimmetria tra i regimi di tutela in caso di licenziamento illegittimo spettanti ai lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 e quelli riservati ai lavoratori assunti a partire da tale data, comporta una disparità di trattamento che pare in grado di incidere anche sulle dinamiche del mercato del lavoro.
L’applicazione del regime del contratto a tutele crescenti per le nuove assunzioni a tempo indeterminato sembra, infatti, costituire un disincentivo alla mobilità dei lavoratori già occupati che lasciando il precedente rapporto di lavoro perdono le tutele previste dall’art. 18 della l. n. 300/1970 (per un approfondimento si veda, M. Tiraboschi, L’articolo 18 come benefit? A proposito del caso Novartis e della applicazione in via pattizia del regime di stabilità reale del contratto di lavoro, in Bollettino ADAPT, n. 13/2015).
Le parti del contratto di lavoro hanno però facoltà di concordare clausole per adeguare alle proprie esigenze il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
 
Una tra quelle maggiormente meritevoli di approfondimento è il patto di stabilità (o clausola di durata minima garantita) che prevede, in caso di assunzione a tempo indeterminato, l’impegno delle parti a non recedere dal rapporto per un periodo di tempo prestabilito, salva l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione o in cui sussista una giusta causa di recesso che, così come statuito dall’art. 2119 c.c., sia tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro.
Tale pattuizione è pienamente legittima e non altera la sostanziale natura del contratto a tempo indeterminato in quanto non si pone in contrasto con il dettato normativo dell’art. 2118 c.c., norma inderogabile e imperativa ex art. 1418 c.c., secondo cui il lavoratore ha diritto di poter recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato dando preavviso.
Alla stregua di un indirizzo unitario e oramai consolidato della giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’atto negoziale con cui il lavoratore assume l’obbligo di non esercitare per un determinato periodo di tempo il diritto di recesso non è passibile di nullità ex artt. 1418-1324 c.c., ove le parti pattuiscano reciproche concessioni (cfr. Cass. 12 giugno 2014, n. 13335; Cass. 25 luglio 2014, n. 17010; Cass. 7 settembre 2005, n. 17817; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19903).
 
Alcuni problemi applicativi sono sorti riguardo alla clausola di durata minima garantita che costituisca pattuizione di maggior favore per il datore di lavoro. Copiose, a tal riguardo, le controversie che hanno coinvolto piloti e compagnie aeree, ipotesi tutte in cui le aziende avevano compiuto investimenti economici notevoli in termini di formazione del prestatore di lavoro (Cass. 20 agosto 2009 n 18547; Cass. 19 agosto 2009, n. 18376; Cass. 7 settembre 2005, n. 17817; Cass. 11 febbraio 1998, n. 1435; Tribunale Venezia, sez. lav., 23 ottobre 2003 e, da ultimo, Cass. 25 luglio 2014, n. 17010).
In tali fattispecie, il datore di lavoro era solito pattuire un periodo di stabilità garantita del rapporto, anche di durata quinquennale, in modo tale da ammortare i costi di formazione e addestramento sostenuti, di minor favore per il lavoratore che rinunciava alla libera mobilità nel mercato del lavoro.
 
La Suprema Corte ha di recente ribadito l’ammissibilità di tali clausole, sancendo la piena disponibilità del diritto di recesso da parte del lavoratore.
Da una lettura critica della giurisprudenza in commento, è emersa la necessità di operare un raccordo tra le pronunce emanate nelle singole fattispecie concrete e i principi dell’ordinamento giuridico. L’organo giudicante, infatti, se da un lato ha riconosciuto ampio spazio all’autonomia privata, dall’altro non ha smentito la natura imperativa e inderogabile dell’art. 2118 c.c.
In sostanza la Corte ha ritenuto ammissibili le clausole limitative della libertà di recesso, purché il sacrificio imposto al lavoratore venga equamente controbilanciato, in modo tale che la «compressione del bene rappresentato dalla libertà personale del lavoratore, cui la libertà di dimissioni accede come corollario, trovi giustificazione nella tutela di un bene di pari dignità» (così E. Barraco, Libertà di dimissioni e strumenti di fidelizzazione del lavoratore: la clausola di durata minima garantita, nota a Trib. Ve, sentenza del 23 ottobre 2003, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2004, n. 7, pp. 694-696).
La composizione dell’assetto degli interessi in gioco, dunque, costituisce condizione di legittimità di pattuizioni di siffatta specie, bilanciamento che può essere ritenuto equo ove la pattuizione possieda il carattere di vincolo temporaneo in virtù della possibilità di rinnovo della clausola (Cass. 25 luglio 2014, n. 17010) e la previsione di una controprestazione datoriale (Cass. 11 febbraio 1998, n. 1435) consistente in un corrispettivo di natura monetaria o in investimenti in formazione aggiuntiva a garanzia di un percorso professionale e di carriera (in tal senso C. Zoli, Clausole di fidelizzazione e rapporto di lavoro, in RIDL, 2003 n. 1, 449-473).
 
A fronte di un assetto di interessi predisposto secondo la libera autonomia delle parti, in caso di risoluzione unilaterale ante tempus si configura un illecito contrattuale da cui deriva un danno risarcibile. La giurisprudenza è unitaria nel ritenere che in caso di recesso anticipato del datore di lavoro, il dipendente maturi il diritto ad un risarcimento pari all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se la risoluzione non fosse intervenuta (cfr. Cass. 03 febbraio 1996, n. 924, annotata da O. Bonardi in RIDL, 1997, n. 4, pp. 800-804 in cui gli effetti della risoluzione del rapporto durante il periodo di irrecedibilità convenzionale vengono equiparati al recesso ante tempus nel contratto a termine).
Diversa l’ipotesi in cui sia il lavoratore a recedere anticipatamente violando la clausola di durata minima di maggior favore per il datore, in forza della quale sia stato destinatario di un riconoscimento di natura monetaria o di un investimento economico di tipo formativo. In casi simili, la giurisprudenza sia di legittimità sia di merito ha stabilito che, il danno risarcibile debba essere proporzionato al costo aggiuntivo sostenuto dal datore di lavoro, di solito stabilito per importi decrescenti in relazione alla durata del rapporto (Cfr. Cass. 7 settembre 2005, n. 17817; Cass. 19 agosto 2009, n. 18376).
 
Le clausole di durata minima garantita non sono astrattamente in contrasto con l’assetto normativo inderogabile dell’ordinamento giuridico, la Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sulla legittima apposizione di un vincolo ad una riconosciuta libertà del lavoratore è riuscita ad operare il difficile contemperamento tra sistema produttivo e organizzazione del lavoro, tra diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica tramite il riconoscimento della libertà di scelta del lavoratore, che vantando un profilo d’alta specializzazione non è più parte debole del rapporto.
Tale statuizione di principio necessita l’attento vaglio della specificità del caso concreto per stabilire se tra le parti vi sia stato un pieno bilanciamento di interessi. Le parti private hanno l’onere di predisporre un accordo contrattuale che sia frutto di reciproche concessioni, il lavoratore assume obbligazione di permanere alle dipendenze del datore di lavoro per il periodo temporaneo garantito, il datore di lavoro l’onere di formare il lavoratore o ricompensarlo adeguatamente.
In caso di violazione delle specifiche pattuizioni, la stipulazione di un’apposita clausola penale per importi decrescenti in relazione alla durata del rapporto, potrà assolvere la funzione di liquidazione preventiva del danno da inadempimento limitando il risarcimento alla sola prestazione promessa.
Solo nel caso in cui le parti non saranno riuscite a predisporre un assetto di interessi equo sarà compito della giurisprudenza garantire la posizione del lavoratore, accertando la genuinità del consenso prestato, senza tuttavia trascurare le esigenze del datore di lavoro, che proprio nell’attuale contesto economico e produttivo appaiono sempre più meritevoli di tutela.
 
Laura Vinci
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@LauraVinci88
 
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