Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Jobs Act: quando le Commissioni Lavoro scambiano lucciole per lanterne

Con un colpo di mano di una “maggioranza trasversale” orientata a sinistra, composta da Pd, Sel, M5s (per ora occasionale, ma che potrebbe diventare stabile man mano che procede il processo di attuazione del Jobs Act Poletti 2.0) la Commissione del Lavoro del Senato ha inserito nel parere sullo schema di decreto delegato relativo al contratto a tutele crescenti la richiesta al Governo di escludere i licenziamenti collettivi dalle nuove regole previste per i licenziamenti economici ingiustificati. Lo stesso farà domani la Commissione Lavoro della Camera, la quale non ha ancora fornito il parere a causa del prolungamento (caotico) dei lavori dell’Aula.
 
La questione merita una spiegazione più accurata di quella che si ritrova nelle sintesi dei giornali. A nessuno è mai venuto in mente di applicare ai licenziamenti collettivi le medesime regole previste per quelli individuali. Il problema si pone a valle del completamento delle procedure sindacali ed amministrative stabilite in caso di riduzione di personale, quando, a fronte di un verbale di intesa o di mancato accordo, il datore è “legittimato” a “fare i nomi”, ovvero ad inviare le lettere di licenziamento individuale ai dipendenti in esubero. Nell’effettuare quest’operazione il datore di lavoro è tenuto ad avvalersi di criteri selettivi disposti dalla legge (anzianità, carichi di famiglia, ragioni organizzative) o dalla contrattazione collettiva. Fino ad ora, il lavoratore licenziato che ritenesse violati, nei suoi confronti, i criteri di selezione, poteva ricorre al giudice ed ottenere, nel caso in cui fossero ritenute valide le sue ragioni, la reintegra nel posto di lavoro. Il datore, tuttavia, era abilitato a licenziare un altro al suo posto.
 
Nello schema del decreto delegato era previsto, invece, che questi licenziamenti di carattere individuale (certamente determinati da motivi oggettivi/economici) fossero correttamente sanzionabili, se ritenuti ingiustificati (per vizi formali o per violazione dei criteri di selezione), con un’indennità risarcitoria al pari di quelli di carattere individuale, fin dal loro sorgere. Se il Governo facesse, in proposito, proprie le richieste delle Commissioni, renderebbe incoerente la nuova disciplina, che, è bene ricordare, si applica, in tutti i casi, ai nuovi assunti dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo. In sostanza, un lavoratore licenziato individualmente per motivi economici non avrebbe nessuna possibilità di essere reintegrato (è sparita anche la “manifesta insussistenza del fatto” di cui alla legge Fornero), mentre lo avrebbe un collega la cui vicenda ha attraversato, preliminarmente, una procedura sindacale ed amministrativa e il cui sbocco finisce al riparo degli ammortizzatori sociali. A noi pare che le considerazioni svolte siano sufficienti a sostenere una critica, su questo punto, al parere delle Commissioni. Resta da confutare l’argomento di carattere formale su cui poggia la richiesta di escludere i licenziamenti collettivi, nei termini fino ad ora riassunti. Si sostiene, cioè, che un’operazione siffatta non avrebbe copertura nella delega. Certo, è vero che le norme sono molto generiche e che l’articolo 76 della Costituzione ha subito più di un atto di violenza. Ma nel caso in esame il legislatore non è stato del tutto superficiale. Andiamo alla riscoperta della norma-chiave (l’emendamento a prima firma Gnecchi, in Commissione alla Camera, condiviso e “riformulato” dal Governo): «escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».
 
È sufficiente far notare che la norma usa il sostantivo e l’aggettivo al plurale quando si riferisce ai “licenziamenti economici”, senza aggiungere la parola “ingiustificati”, mentre, due righe più sotto, viene usata la formula di “licenziamento disciplinare ingiustificato”. Il che autorizza gli interpreti a ritenere che – quando il legislatore scrive, al plurale, di “licenziamenti economici” – intenda riferirsi sia a quelli individuali che a quelli discendenti da una procedura di licenziamenti collettivi (che sono “economici” per definizione e che vengono accertati ed accettati come tali durante la fase sindacale ed amministrativa del procedimento). Ecco perché la pretesa avanzata dalle Commissioni non ha, a nostro avviso, una base giuridica fondata. Tutto ciò premesso, nella riunione del Consiglio dei Ministri del 20 febbraio viene annunciato un bel po’ di “macelleria giuridica”.
 
Sotto la scure giustiziera del legislatore finirebbero taluni rapporti atipici (l’associazione in partecipazione, il lavoro ripartito e quello intermittente subirebbero l’onta dell’abrogazione), mentre verrebbe fortemente depotenziato l’effetto-flessibilità derivante dalla riforma del contratto a termine (il Jobs act Poletti 1.0). Poi arriverà il momento del “superamento” del contratto di collaborazione a progetto. In questa materia è bene procedere con cautela. Noi ci permettiamo di avanzare alcuni suggerimenti riguardanti da un lato i contratti in essere e la loro sorte, dall’altro, la possibilità di avvalersi anche in futuro, a determinate condizioni, di questa tipologia contrattuale, partendo dal presupposto che una linea di politica del lavoro, che restasse attestata al solo divieto, finirebbe per rendere più complicata la gestione di particolari condizioni lavorative parasubordinate e per favorire il lavoro sommerso o irregolare. Per quanto riguarda il soddisfacimento della prima esigenza occorrerebbe prevedere la permanenza in vigore (almeno fino alla scadenza) dei contratti a progetto certificati prima dell’entrata in vigore della legge o nei 60 giorni successivi. Con riferimento alla possibile utilizzazione di questa forma contrattuale anche dopo il suo “superamento” in termini generali, sarebbe il caso di consentire alle parti sociali di negoziare interventi di carattere derogatorio nella contrattazione collettiva, nazionale e decentrata, ove se ne ravveda l’esigenza, purché la norma sia sottoposta a certificazione.
 
Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 
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