Politically (in)correct – Salario minimo Ue: la scelta tra legge o contratto non può essere una scorciatoia che eviti il nodo della rappresentanza

Bollettino ADAPT 21 dicembre 2020, n. 47

 

“La proposta di direttiva europea sull`adeguatezza salariale, primo intervento dell`Unione riguardante direttamente la materia del salario minimo, segna un cambio di rotta, dopo che per anni si erano moltiplicate le raccomandazioni europee in questa direzione“. Ad affermarlo è Tiziano Treu, presidente del Cnel, durante un’audizione alla 14a Commissione Politiche dell’Unione Europea al Senato sulla “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”. “Il giudizio sostanzialmente positivo dei sindacati europei, confermato anche dalle maggiori confederazioni italiane, è motivato anzitutto dalla preferenza riconosciuta dalla proposta alla via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei minimi salariali”. Le parti sociali sottolineano peraltro, la necessità di considerare la `maggiore rappresentatività` delle organizzazioni stipulanti”, ha aggiunto il presidente Treu. Infatti la proposta Ue afferma esplicitamente che “la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri”. I salari minimi, pur essendo aumentati negli ultimi anni, rimangono troppo bassi rispetto ad altri salari o per garantire una vita dignitosa nella maggioranza degli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali nazionali. I salari minimi legali nazionali – prosegue la Ue – sono inferiori al 60 % del salario lordo mediano e/o al 50 % del salario lordo medio in quasi tutti gli Stati membri. Nel 2018 in nove Stati membri il salario minimo legale non costituiva, per un singolo lavoratore che lo percepiva, un reddito sufficiente a raggiungere la soglia di rischio di povertà. Inoltre alcuni gruppi specifici di lavoratori sono esclusi dalla tutela garantita dai salari minimi legali nazionali. Gli Stati membri caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva – sottolinea la proposta di direttiva – tendono ad avere una bassa percentuale di lavoratori a basso salario e salari minimi elevati. Anche negli Stati membri che si avvalgono esclusivamente della contrattazione collettiva alcuni lavoratori non hanno tuttavia accesso alla tutela garantita dal salario minimo. La percentuale di lavoratori non coperti è compresa tra il 10 e il 20 % in quattro paesi e raggiunge il 55 % in un quinto paese.

 

 

Come ha ricordato Silvia Spattini sul Bollettino Adapt n. 34/2020i paesi in cui è presente un salario minimo legale, tranne pochissime eccezioni (Belgio e Francia), hanno una copertura della contrattazione inferiore all’80% dei lavoratori; al contrario i paesi privi di un salario minimo legale presentano tassi di copertura superiori all’80% (tranne Cipro). La stessa proposta di direttiva sottolinea che gli Stati membri con un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore al 70 % mostrano una più ridotta percentuale di lavoratori a basso salario”. La proposta è senza alcun dubbio importante perché indica un maggior interesse della Ue nei confronti degli effetti economici e sociali prodotti dalle misure di contrastato ed assume nel contesto di una strategia di resilienza anche la conferma ed il consolidamento di una adeguata politica salariale, peraltro in una fase in cui, in Italia, sono in corso i rinnovi dei contratti nazionali, il livello negoziale dedicato appunto alla salvaguardia dei minimi salariali.

 

In pratica il modello italiano non potrà più essere indicato come quello che non contempla un salario minimo legale diversamente da altri 21 Paesi europei ed è quindi “in regola coi sindacati’” (come si diceva un tempo) se l’intervento legislativo si limita a fornire una copertura salariale sufficiente (come previsto sia dalla legge n.92 del 2012, sia dal jobs act del 2014) ai settori esclusi dal sistema strutturale della contrattazione collettiva. Il vedersi riconoscere la propria specificità può servire sul piano politico, ma non risolve i problemi sui quali si è arenato il processo legislativo avviato al Senato sul testo base a prima firma Nunzia Catalfo, allora presidente della Commissione Lavoro. E proprio qui sta il passaggio cruciale del caso Italia, per evitare il quale – come hanno scritto Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi sul Bollettino Adapt n. 44/2020 – non esiste una “scorciatoia”: “Il fatto che la Commissione Europea rilanci il tema con una direttiva, e non con semplici raccomandazioni, potrebbe essere un ulteriore strumento nelle mani del governo che non ha mai nascosto di volersi muovere in questa direzione, pur di fronte alla contrarietà della maggioranza delle parti sociali. Non che la direttiva obblighi ad andare nella direzione di un salario minimo stabilito per legge e neppure impone, in alternativa, di dotare i contratti collettivi di efficacia erga omnes magari con una legge sulla rappresentanza in attuazione del precetto di cui all’articolo 39 della Costituzione. E tuttavia questo non esclude iniziative in tal senso”. Il diritto sindacale italiano – in sostanza – si trova ancora una volta alle prese con un problema che lo accompagna dal 1948 quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana: come possono essere applicate erga omnes norme contrattuali stipulate sulla base del diritto comune? In Italia questo risultato è stato conseguito per decenni in via di fatto e  secondo la giurisprudenza in applicazione dell’articolo 36 Cost. Ma era in primo requisito (oggi traballante ed insidiato) a giustificare il secondo. È possibile allora trovare un itinerario che conduca a riconoscere efficacia generale ai contratti stipulati dai sindacati storici evitando di sottostare al Ghino di Tacco dell’articolo 39 Cost. in un contesto giuridico il cui è stato stravolto il significato dell’articolo 19 della legge n.300/1970 ? Hic Rhodus hic salta: o si trova questo passaggio a Nord Ovest oppure è difficile, anche in Italia, sfuggire al capestro del salario minimo legale.

 

Ci sono poi altri aspetti che è ora di prendere in esame, a partire dalle differenze delle retribuzioni orarie nei Paesi dell’Unione, non in assoluto, ma rispetto al loro potere d’acquisto. Ci aiuta una Nota dell’Istituto Bruno Leoni. Misurata nell’ottobre 2018, la retribuzione oraria lorda mediana più alta è stata registrata in Danimarca (27,2 €), davanti a Lussemburgo (19,6 €), Svezia (18,2 €), Belgio e Irlanda (18,0 € ciascuno), Finlandia (17,5 €) e Germania (€ 17,2). Al contrario, la retribuzione oraria lorda mediana più bassa è stata registrata in Bulgaria (€ 2,4), seguita da Romania (€ 3,7), Ungheria e Lituania (€ 4,4 ciascuna), Lettonia (€ 4,9), Polonia (€ 5,0), Croazia e Portogallo (€ 5,4 ciascuno) e in Slovacchia (€ 5,6). In altre parole, negli Stati membri, la retribuzione oraria lorda mediana nazionale più alta era 11 volte superiore alla più bassa se espressa in euro. La retribuzione oraria lorda mediana varia da 1 a 4 tra gli Stati membri se espressa in SPA (standard di potere d’acquisto). Negli Stati membri, la retribuzione oraria lorda mediana nazionale più alta era 4 volte superiore alla più bassa se espressa in standard di potere d’acquisto; il che elimina le differenze di livello di prezzo tra i paesi. Come misurato nell’ottobre 2018, la retribuzione oraria lorda media più alta in SPA è stata registrata in Danimarca (19,2 SPA), davanti a Germania (16,1 SPA), Belgio (15,7 SPA), Lussemburgo (15,1 SPA), Svezia (14,7 SPA) e Paesi Bassi (14,3 PPS). All’estremità opposta della scala, la retribuzione oraria lorda mediana più bassa è stata registrata in Bulgaria (4,6 SPA), seguita da Portogallo (6,0 SPA), Lettonia (6,4 SPA), Lituania (6,5 SPA), Ungheria (6,8 SPA) e Romania (6,9 SPA).

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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