Politically (in)correct – Riflettendo sulle iniziative del XX Anniversario dell’uccisione di Marco Biagi

Bollettino ADAPT 21 marzo 2022, n. 11

 

Mi considero un veterano della battaglia in difesa della memoria di Marco Biagi. Anno dopo anno – nelle tante attività che ho svolto – ho sempre cercato di valorizzare il pensiero e l’opera del mio amico, ucciso da un commando stralunato delle Nuove BR a conclusione di una vicenda che ha trasformato quel delitto in una “cronaca di una morte annunciata”. A volte mi chiedo come si possa reggere la sfida dell’oblio così a lungo, nel contesto di una società profondamente intessuta di luoghi comuni, di rancori, di cinismo e di valori negativi; una società nella quale il processo della conoscenza si basa sul sentito dire e dove le chimere del malanimo e della invidia sociale sono sempre pronte a divorare esseri umani, tanto da confondere ormai il ludibrio e la gogna mediatica con il “fare giustizia”.

 

Ebbene devo ammettere di essere rimasto sorpreso nell’assistere alle iniziative promosse in occasione del XX Anniversario di quel maledetto 19 marzo e nel leggere tanti articoli dedicati alla persona di Marco, al suo contributo scientifico e civile. Per essere sbrigativo, azzardo un giudizio sommario: ho avuto l’impressione di una ripartenza, di una nuova “spinta propulsiva” che giunge dal pensiero di Marco. Più passa il tempo, più il ricordo di Marco Biagi è vivo e attuale”- ha affermato Romano Prodi – “Biagi non era un uomo di parte. Partecipava alla vita politica in modo appassionato e profondo, ma fuori dagli schemi, con libertà di pensiero”. Il giuslavorista – ha aggiunto l’ex premier – “aveva capito che eravamo di fronte a un cambiamento radicale del mondo del lavoro. Era un grande innovatore, vittima di tensioni politiche folli e di una frammentazione della società che porta all’odio politico”.

 

Anche il Cardinale Matteo Zuppi nell’omelia della Messa in memoria di Biagi, all’interno di una chiesa piena di fedeli, ha colto l’essenziale della personalità del professore.  È stato uno dei primi a capire – ha spiegato Zuppi – che se non c’è lotta al precariato il lavoro nero dilaga. Sono le leggi al servizio delle persone e non le persone al servizio della legge. Questa sua coerenza nell’avere sempre l’uomo al centro gli consentiva di trovare le migliori soluzioni guardando anche a quello che accade negli altri paesi. Ci ha insegnato che non esistono modelli immutabili, ma che bisogna innovare con responsabilità e coraggio. Questo significa uscire da un mondo ideologico che spesso preferisce odio al dialogo e non accetta mai il confronto”.

 

Ma perché dopo vent’anni dalla sua morte, dopo tanti cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro, nell’economia, nei processi produttivi e nell’organizzazione del lavoro, nella società, ci accorgiamo, un po’ increduli, di imbatterci nella modernità del pensiero di Biagi? Il motivo principale è dato dal fatto che quell’approccio culturale che aveva caratterizzato l’attività di Marco nell’affrontare i temi del lavoro non è stato sepolto, insieme alla sua salma crivellata di colpi, nella tomba di famiglia nella parte monumentale della Certosa di Bologna, ma ha continuato a vivere e ad arricchirsi di contributi, nuovi saperi e iniziative  formative ed editoriali, ad opera di Michele Tiraboschi nel Centro Studi ADAPT e della moglie Marina nella Fondazione a lui dedicata a Modena. Tiraboschi, poi, ha voluto ricordare il suo Maestro dopo vent’anni dalla morte con un libro: L’intervista (impossibile) a Marco Biagi, vent’anni dopo, nel quale usando con impegno certosino le parole consuete di Biagi, ripercorre il tempo trascorso per quanto riguarda il diritto del lavoro.

 

Il Centro studi ADAPT è una fabbrica di talenti. Tutti gli anni si avvicinano a quella “scuola” decine di giovani che lavorano con altri meno giovani delle corti precedenti di laureati. È stato proprio Emmanuele Massagli, presidente di ADAPT, a cogliere – anche per esperienza personale – il motivo che induce tanti giovani talenti ad avvicinarsi al Centro e a mettersi a disposizione per dare un contributo che stimoli la loro crescita culturale e professionale. “In una epoca nella quale la tiepidezza sembra essere la caratteristica prevalente degli educatori, nella quale la passione per i valori è considerata un atteggiamento giovanilistico e poco maturo – ha scritto Massagli – nella quale il proprio interesse è sempre anteposto a quello altrui, la figura di Marco Biagi esercita l’incensurabile fascino di chi ha avuto il coraggio di dare la vita per ciò in cui credeva. Una radicalità che spaventa gli adulti, i quali, non a caso la incasellano in complesse spiegazioni storico-giuridiche o in nessi sociologici di causa-effetto; ma anche una radicalità che, ancora oggi (per fortuna!), è ricercata dai giovani’’.

 

Ma, se ci pensiamo, c’è tanto di più. La battaglia per la modernizzazione del lavoro e delle relazioni industriali, non solo non è vinta, ma gli innovatori sono in ritirata su tutti i fronti. Ci piacerebbe usare il termine di “restaurazione”, ma non sarebbe corretto perché ciò significherebbe che c’è stata in questi vent’anni una fase in cui le riforme hanno avuto la meglio sulla conservazione. In realtà, da quel tragico 2002 (la legge Biagi è del 2003) sono intervenute modifiche significative nei principali istituti del diritto del lavoro: la legge n. 92 del 2012; il decreto Poletti sul lavoro a termine nel 2014; il pacchetto di decreti delegati in attuazione del Jobs Act nel 2015, tra i quali l’individuazione del contratto a tutele crescenti che, sia pure lungo un percorso normativo parallelo, consentiva di avviare a razionalità la tutela dei licenziamenti ingiustificati. Non è un caso che l’allora premier Matteo Renzi ebbe a dire che quelle modeste innovazioni erano in lista di attesa da vent’anni.

 

Ma se ci guardiamo attorno ci imbattiamo in una giurisprudenza che, in materia di recesso, ha praticamente demolito alcune delle caratteristiche (a partire dalla certezza dei costi del licenziamento in base all’anzianità di servizio) che il contratto di nuovo conio aveva introdotto. Il c.d. decreto dignità ha tagliato le gambe alla riforma Poletti del contratto a termine proprio sul terreno critico delle condizionalità. Poi quando tutti si sono accorti che quelle norme, anziché favorire il lavoro stabile, impedivano di assumere e lavorare, si è colta l’occasione della pandemia per sospendere l’applicazione del decreto. Ma il problema rimane perché la richiesta dei sindacati al governo è quella di ridimensionare l’utilizzo dei contratti a termine, nonostante che l’Italia sia allineata a quanto accade negli altri Paesi europei. Poi, negli ultimi anni, si è assistito ad una vera e proprio regressione per quanto riguarda la struttura della contrattazione collettiva e i ruoli affidati a ciascun livello di negoziato (centrale e decentrato). Nel Libro Bianco (autunno 2001) erano contenute indicazioni relative all’inadeguatezza degli assetti contrattuali canonici.

 

In Italia, più che in tutti i maggiori paesi europei esiste – era scritto – una fortissima dispersione territoriale dei tassi di disoccupazione associata ad una quasi omogeneità territoriale dei livelli salariali. Siamo un paese molto “egualitario” in politica salariale, ma molto disuguale dal punto di vista delle condizioni del mercato del lavoro. Questa situazione appare il risultato anche di un sistema di contrattazione collettiva che mantiene caratteristiche di centralizzazione inadatte ad assicurare una flessibilità della struttura salariale, che sia capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere ai diversi disequilibri del mercato. Lo scarso legame esistente tra produttività aziendale e condizioni del mercato locale del lavoro, da un lato, e retribuzioni, dall’altro, si traduce in più bassi livelli occupazionali. A questo si aggiunga che la scarsa crescita, l’alta disoccupazione, l’elevato carico fiscale e lo stesso modello contrattuale definito dagli Accordi del 1992-1993 – sopravvissuto alle condizioni per le quali fu concepito – hanno portato ad un’evoluzione poco lusinghiera dei salari reali al netto delle imposte, anche grazie alla crescita della pressione fiscale sul lavoro’’.

 

Sarebbe ingeneroso non riconoscere i tentativi compiuti in tutti questi anni per rafforzare la contrattazione di prossimità, finalizzata ad un miglior sinallagma tra qualità e risultati del lavoro e la retribuzione: la detassazione delle di queste forme retributive, proprie della contrattazione decentrata in una logica di  reciproca convenienza tra imprese e lavoratori; l’articolo 8 della legge n. 148/2011 (XVI Legislatura, ministro Maurizio Sacconi) in base al quale gli accordi collettivi aziendali o territoriali (di prossimità è il termine tecnico) – purché sottoscritti dalla maggioranza delle Organizzazioni Sindacali maggiormente rappresentative, o dalle loro rappresentanze in azienda – possano derogare a norme contrattuali o anche legislative, con le uniche esclusioni di quelle Costituzionali o Comunitarie. Una disposizione in grado di rivoluzionare l’assetto delle relazioni industriali e che, proprio per questi motivi, è stata boicottata oltre ogni misura dalle parti sociali.

 

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un ripristino del primato del contratto collettivo di categoria e alla riapertura di un dibattito che cerca la strada di una sua estensione erga omnes. Poi c’è la grande questione del rapporto tra l’utilizzo della CIG e il ruolo che devono assumere le politiche attive del lavoro. Il jobs act aveva fatto chiarezza sulle diverse fasi della tutela durante il lavoro (la CIG) oppure alla cessazione dello stesso (Naspi), con destinazioni nette, senza trascinamenti della prima fase a scapito della seconda. Sta passando una impostazione ostile verso la mobilità e imperniata sulla conservazione il più a lungo possibile del precedente posto di lavoro – tramite la CIG – anche quando è stato già tagliato in quella specifica unità produttiva.
 

Non sarebbe poi tempo sprecato quello trascorso ad osservare le proposte di Marco Biagi in materia di conciliazione ed arbitrato. Anche in questa disciplina tipica della giustizia privata, il famoso ex collegato Lavoro del 2010 proponeva la possibilità di comporre le eventuali controversie mediante forme di conciliazione ed arbitrato. Dopo una lunga battaglia parlamentare per quanto riguarda l’introduzione della c.d. clausola compromissoria (la premessa necessaria per avviare realmente procedure stragiudiziali sicure) siamo ritornati al punto di partenza, in nome della sacralità della giustizia togata. La giustizia privata in materia di lavoro non sembra neppure essere materia delle riforme promesse dal governo Draghi in tema di riforma del processo civile.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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