Politically (in)correct – Cobas e dintorni. Non c’è mai limite al peggio

Bollettino ADAPT 19 febbraio 2024, n. 7

 

L’estremismo di c.d. sindacati di base tenta un salto di qualità (all’indietro). Il Si Cobas (in complicità con altre sigle della medesima area) ha proclamato per l’intera giornata di venerdì 23 febbraio uno sciopero generale nazionale dei lavoratori di tutte le categorie pubbliche e private per chiedere di “fermare il genocidio” in corso a Gaza. <Cessare il fuoco in Palestina e in tutte le guerre diventa oggi un imperativo. Sta crescendo il rischio di un conflitto globale alimentato da tanti focolai d’incendio dicono i sindacati in una nota>. I maggiori disagi potrebbero verificarsi nei trasporti, a causa della presenza organizzata (e collaudata nello sciopero di venerdì) del sindacalismo di base in questi settori.  Le stesse sigle, poi, hanno già annunciato una grande manifestazione nazionale a Milano per il 24 febbraio, il giorno successivo allo sciopero.

 

Evidentemente i promotori hanno compiuto – non sarebbe la prima volta – un passo più lungo della gamba, ma qua e là vi saranno astensioni dal lavoro, oltreché nei trasporti locali anche nelle scuole (che scioperano per loro conto come quasi tutti i venerdì). E le eventuali iniziative a corollario dello sciopero diventeranno un punto di riferimento per la fauna dei Centri sociali e di quei gruppuscoli che a partire dagli eventi del 7 ottobre non hanno esitato – a mio avviso – a schierarsi dalla parte sbagliata. Chi ha avuto la curiosità di dare un’occhiata ai volantini affissi alle fermate degli autobus che annunciavano gli scioperi dei Cobas e mettevano in evidenza le loro motivazioni trovava sempre qualche rivendicazione singolare, spesso talmente generica da apparire incompatibile con le altre di contenuto rivendicativo. Non escludo che talvolta fossero inclusi anche obiettivi di pacifismo peloso. Non ricordo però anche andando indietro negli anni, uno sciopero generale per l’obiettivo indicato venerdì 23.

 

Nella mia lungo esperienza di dirigente sindacale mi è capitato spesso di organizzare delle iniziative legate a problemi internazionali, ma si trattava quasi sempre di manifestazioni o di scioperi poco più che simbolici, con uscite in anticipo dai luoghi di lavoro. Va da sé che negli anni di piombo, gli scioperi costituivano – per fortuna – la risposta immediata agli omicidi, agli attentati e allo stragismo. È certamente inutile mettersi a fare paragoni e confronti con altre vicende ed altre epoche; ma per quanto mi sforzi di ricordare neppure per l’evento che ha segnato la mia generazione – la lotta di liberazione del Vietnam – si arrivò alla proclamazione di uno sciopero generale come quello indetto dal variegato mondo del sindacalismo di base. Eppure non è che siano mancati (si pensi alla Siria o alla lotta contro il Califfato) occasioni che avrebbero richiesto una maggiore solidarietà a livello dell’opinione pubblica internazionale. Pare invece che per il sindacalismo di base non sia la prima volta. Già lo scorso 20 ottobre – si legge in un loro comunicato – il SI Cobas ha indetto uno sciopero generale assieme ad altre sigle del sindacalismo di base contro la guerra e l’economia di guerra, cui è seguito il 17 novembre uno sciopero nazionale in tutto il settore privato contro il massacro in corso nella Striscia di Gaza, cui hanno fatto seguito in entrambi i casi manifestazioni nei giorni immediatamente successivi, rispettivamente a Ghedi, nei pressi della base militare, e a Bologna, le quali hanno coinvolto migliaia di lavoratori, attivisti e solidali. È chiaro che nei promotori dell’ulteriore giornata di sciopero contro il genocidio c’è un calcolo politico. E qui sta la novità. I Cobas e dintorni hanno portato avanti fino ad ora una competizione nei confronti del sindacalismo confederale facendosi promotori di un rivendicazionismo “coatto”, becero e privo di principi, che ha attecchito tra i nostalgici dei vecchi privilegi di massa (perduti nei settori protetti) e un sottoproletariato di nuovo conio (come la logistica, dove l’algoritmo ha preso in contropiede le organizzazioni storiche).

 

Con le iniziative di sciopero organizzate fino a quella di venerdì prossimo il sindacalismo di base ha lanciato, in particolare alla Cgil, una sfida sui valori evocando quel pacifismo a senso unico che ha caratterizzato – salvo eccezioni e ripensamenti intervenuti in un contesto unitario – la sinistra politica e sindacale. All’inizio i vari Cobas si limitavano a criticare le grandi confermazioni per essersi “vendute” ai padroni e ai governi, per aver scambiato i diritti dei lavoratori per mere logiche di potere; dopo venerdì potranno continuare ad intestarsi la lotta per la pace e contro il genocidio dei civili palestinesi (che evidentemente sono più “civili” di altre popolazioni che stanno ancora attendendo quella solidarietà “passionale” riservata ai palestinesi. Con questi calci negli stinchi c’è da aspettarsi qualche iniziativa anche da parte dei sindacati confederali, certamente della Cgil. Peraltro in Israele è presente un sindacato molto rappresentativo, unitario di nome Histadrut che ha rapporti con i sindacati italiani. Non credo che questo fatto abbia un qualche interesse per i Cobas, ma non sarebbe sbagliato se i sindacati confederali cercassero un confronto con l’Histadrut che potrebbe avere delle posizioni interessanti anche per quanto riguarda la politica del governo, dal momento che lo Stato ebraico, come ogni regime democratico, ha al proprio interno differenti posizioni anche rispetto la conduzione della guerra. Poi non sarebbe normale che un sindacato si collegasse ad un altro? O i lavoratori ebrei sono meno lavoratori di quelli italiani?  Su quelle dello sciopero si riverberano le motivazioni della manifestazione internazionale di Milano del giorno dopo.

 

I nostri non si sono dimenticati della Ucraina; infatti denunciano che “il governo Meloni, in linea con l’UE e la Nato a guida statunitense, è attivo in prima linea nell’escalation militarista, sia nella guerra in Ucraina attraverso il supporto economico e militare al governo di Kiev, sia nel sostegno esplicito a Israele nella mattanza guidata dal criminale di guerra Netanyahu sui territori palestinesi’’. Di conseguenza, “i lavoratori, i disoccupati e le masse povere, dopo aver abbondantemente pagato i costi sociali ed economici della pandemia, ora sono costretti a pagare il prezzo salatissimo dell’economia di guerra: salari fermi al palo da anni, nel mentre il grande capitale continua a registrare profitti da record; crescita esponenziale della precarietà̀, dello sfruttamento e del disciplinamento nei luoghi di lavoro; assenza di tutela della salute e della sicurezza con la moltiplicazione di infortuni e di morti sul lavoro; aumento dei prezzi dell’energia e dei generi di prima necessità; smantellamento della sanità, del trasporto e dell’istruzione pubblica; taglio e abolizione delle misure sociali minime, a partire dal reddito di cittadinanza; criminalizzazione e repressione degli scioperi e del conflitto sociale’’. Con lo sciopero allora si chiede: il cessate il fuoco immediato e il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza; il blocco immediato dei traffici di armi dirette ad Israele; la fine dell’occupazione coloniale delle terre palestinesi in Cisgiordania; il blocco delle spese militari e dell’invio di armi in Ucraina.

 

Peraltro gli organizzatori non hanno dimenticato che il 24 febbraio ricorreranno due anni dall’aggressione russa all’Ucraina. Loro si guardano bene di usare questa parola (come del resto ha disposto lo stesso Putin); la versione corretta recita che sul suolo Ucraina è in corso una guerra tra la Nato e la Russia, in realtà – aggiungono – in atto già da un decennio “a bassa intensità nel Donbass”. In sostanza – mentre per Gaza sono individuati l’aggressore, l’oppressore, il colonialista da un lato nonché la forza che combatte eroicamente, “a partire dal 7 ottobre” (così il massacro degli ebrei diventa un episodio di quella gloriosa resistenza – la guerra in Ucraina non ha padri né madri; quanto meno le parti in causa avrebbero le stesse responsabilità se di mezzo non ci fosse la Nato che è la sentina di tutte le possibili prevaricazioni. Come se ne esce secondo queste caricature dello stalinismo? Con un invito ai proletari dell’Ucraina e della Russia a stringersi la mano, perché il loro nemico lo hanno in casa. Perciò “abbasso il governo dei capitalisti, lottiamo per governi dei lavoratori”. In quest’ ambiente, Maurizio Landini fa la figura di un gigante del pensiero.

 

Giuliano Cazzola

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