Politically (in)correct – Il decreto Piantedosi, i sindacati e il conflitto sociale

Bollettino ADAPT 7 novembre 2022, n. 38

 

Tanto tuonò che piovve. In occasione del suo esordio in fase operativa il Consiglio dei ministri ha scelto la strada delle misure “spot” ovvero quelle che servono a mandare un segnale quasi simbolico delle proprie intenzioni su importanti questioni di linea politica. La sospensione dell’entrata in vigore della riforma Cartabia,  il tentativo di legare le mani alla Consulta sul tema dell’ergastolo ostativo, la sanatoria a favore del personale sanitario  no  vax  (una misura che è stata criticata persino dal più importante sindacato dei medici ospedalieri) sono sembrati – alla fine della riunione – peccati veniali a fronte di quanto disposto nel decreto Piantedosi, portato frettolosamente all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri  quando si era avuta la notizia dell’organizzazione di un rave party all’interno di un capannone dismesso nei pressi del casello autostradale di Modena Nord.

 

Il governo stava ancora esaminando il decreto quando l’assembramento era già stato sciolto con le buone dalle autorità locali, su ordine del Viminale. La nuova compagine era quindi già in grado di dimostrare all’opinione pubblica che l’aria era cambiata e che il nuovo ministro dell’Interno non aveva gestito la crisi come la titolare dell’esecutivo precedente nel caso di Viterbo. Non c’era quindi nessuna urgenza per strafare predisponendo e varando un decreto molto discutibile sul piano tecnico-giuridico e piuttosto pericoloso sul piano politico e sociale. I rilievi, le critiche e le denunce non sono venute solo dalle opposizioni, ma anche dall’interno della stessa maggioranza, oltreché da tanti giuristi che hanno voluto esprimere le loro preoccupazioni  in quanto il reato, introdotto ex novo dal decreto legge (nonché sanzionato con pene talmente eccessive – soprattutto per il livello minimo individuato-  da rasentare il ridicolo) potrebbe “scivolare” nel campo di fondamentali diritti di libertà proprio  per il fatto che risulta assai problematico circoscrivere la norma alla sola fattispecie dei rave party, ammesso e non concesso che sia possibile tipizzare questa tipologia di reato.

 

Preso in contropiede il governo ha fornito subito ampie garanzie sulle sue intenzioni di non conculcare né il dissenso né la protesta politica, sindacale o civile, dichiarandosi disponibile, nel corso della conversione del decreto, ad accettare tutte le modifiche ritenute necessarie per definire correttamente l’area di applicazione delle sanzioni. I leader sindacali  hanno incontrato il ministro Piantedosi (questa iniziativa giustifica la trattazione di questa problematica nel Bollettino) il quale  ha ribadito che l’applicazione delle recenti misure adottate dal Governo è limitata alla specifica ipotesi della organizzazione dei rave party e che le nuove disposizioni non intaccano in nessun modo i diritti costituzionalmente garantiti, come quello di manifestare, aggiungendo che in ogni caso, in sede parlamentare, avrebbe appoggiato “qualsiasi modifica al testo normativo indirizzata nel senso di meglio precisare, qualora lo si ritenga necessario, i confini della nuova fattispecie penale”.

 

Matteo Piantedosi è un civil servant capace, onesto e di lunga esperienza nell’ambito delle istituzioni. È certamente al corrente del fatto che le norme vengono applicate dal giudice naturale. Pertanto non contano i buoni propositi di un governo e le corrette intenzioni di un Parlamento. Quando una legge finisce in Gazzetta Ufficiale diventa materia della magistratura, delle procure che hanno l’obbligo di esercitare l’azione penale e dei giudici che emettono le sentenze sulla base di come è formulata la norma. Poi, proseguendo, vi sono delle valutazioni che erroneamente non sono affrontate nel dibattito. Che senso ha intervenire con una norma di carattere necessariamente generale per definire un nuovo reato (“l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”) quando esiste l’articolo 633 c.p. (Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032) che sanziona un’analoga fattispecie di reato?

 

Piantedosi, nell’incontro con i leader sindacali, ha affermato che al governo interessa – come deterrente – la possibilità di sequestrare gli strumenti. Il fatto è che gli Uffici del Viminale non si sono accorti che in proposito esiste una giurisprudenza contraria della Suprema Corte di Cassazione (SCC). Con sentenza n. 36288 del 2017, la SCC aveva accolto il ricorso contro la condanna di una persona, ritenuta dal Tribunale di Pisa “responsabile per avere organizzato, in concorso con altre persone non identificate, senza alcuna autorizzazione una festa da ballo (c.d. “rave party”) in luogo pubblico (art. 68 T.U.L.P.S.), essendo stato colto al mattino nell’atto di caricare su un furgone, dal medesimo noleggiato, apparecchi audio impiegati per la diffusione sonora”. Nella sentenza la Cassazione aveva fatto riferimento alla giurisprudenza della Consulta (Il diritto di riunione è tutelato nei confronti della generalità dei cittadini, che, riunendosi, possono dedicarsi a quelle attività lecite, anche se per scopo di comune divertimento o passatempo). Esula poi dal dibattito in corso una questione di fondo che chiama in causa l’estensione dei diritti costituzionali di libertà che il governo giura di voler tutelare comunque.

 

Il conflitto sociale non è un giro di valzer, ma spesso è teatro di azioni e di eventi spesso estremi, violenti, patologici, vere e proprie fattispecie di reati, che tuttavia si giustificano – se così si può dire – sul terreno di un diritto ad una legittima difesa di una comunità che si vede ingiustamente privata del suo diritto alla sopravvivenza. Non occorre essere navigati giureconsulti per rendersi conto che quelle azioni potrebbero essere perseguite ai sensi del decreto Piantedosi. Tanti sono i casi di forme di lotta esasperate che potremmo citare: l’occupazione degli stabilimenti, i blocchi delle autostrade, l’invasione delle stazioni ferroviarie, l’occupazione di edifici pubblici e privati (peraltro qualcuno ha già ammesso che le nuove norme serviranno anche agli sgomberi), il blocco delle merci in uscita, i picchetti “duri”, le periodiche occupazioni delle università e degli istituti scolastici, l’invasione dei campi di calcio da parte dei tifosi della squadra che perde e quant’altro. Sia chiaro: nessuno (chi lo fosse sarebbe un irresponsabile) sostiene che il conflitto e la protesta devono necessariamente assumere toni radicali che sconfinano nella illegalità. Ma di solito le autorità sono attente a gestire queste situazioni tenendo conto delle circostanze e delle possibili conseguenze. I problemi non si risolvono sempre con il diritto penale come ormai è in uso nel nostro Paese. Resta un’area di ambiguità, di gestione politica che non può essere irreggimentata all’interno di canoni definiti.

 

A fronte della complessità del conflitto sociale, come se la può cavare il ministro con gli emendamenti? Scrivendo nella legge che quelle azioni (invasioni arbitrarie di terreni edifici che possono determinare situazioni di pericolo) non costituiscono reato se svolte nell’ambito dell’esercizio dei diritti sindacali? Sarebbe singolare che un governo di destra riconoscesse formalmente ai sindacati il diritto di commettere azioni che per altri sono reati. Ecco perché comunque lo si riscriva il decreto Piantedosi non si aggiusta. Meglio ritirarlo o lasciarlo decadere senza convertirlo. Nel contesto di un rave party possono emergere una serie infinita di reati; ma non è concepibile un reato di “rave party”.

 

Sul piano della logica e della tecnica giuridica occorre definire il profilo di un reato con una declaratoria che descriva i comportamenti specifici perseguibili che lo caratterizzano. Ed è inevitabile che la descrizione debordi oltre i limiti astrattamente delineati per l’azione penale. I sindacalisti hanno fatto bene a preoccuparsi. Soprattutto dovrebbero riflettere su la linea tenuta dai “grandi leader” del dopoguerra. Il Codice Rocco (purtroppo ancora in vigore) considerava lo sciopero un reato (al pari della serrata). Questa norma è restata formalmente in vigore fino al 1960 quando fu dichiarata illegittima dalla Consulta. Perché i sindacati ne tollerarono la sopravvivenza? Semplice: nessun giudice avrebbe osato condannare uno sciopero sulla base di una norma di un codice fascista. Invece, in quegli anni era forte la preoccupazione che, togliendo di mezzo quel simulacro del regime, si aprisse la strada – ciò poi non avvenne – ad un nuovo intervento legislativo (in quel caso applicabile) che regolasse (e ovviamente delimitasse) l’esercizio di quel fondamentale diritto. A chi scrive, da studente universitario, il professore di diritto del lavoro spiegò che uno sciopero si legittima dalla sua riuscita. 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Politically (in)correct – Il decreto Piantedosi, i sindacati e il conflitto sociale