Politically (in)correct – Basta con un’immagine del lavoro fatta solo di luoghi comuni

Bollettino ADAPT 30 gennaio 2023, n. 4

 

“S’ode a destra uno squillo di tromba”: Intervenendo al Congresso del Veneto – racconta Collettiva – il leader della Cgil, Maurizio Landini, ha continuato a battere sui tasti che si dovrebbero toccare per dare avvio al cambiamento necessario nel Paese. Perché la condizione materiale di coloro che per vivere hanno bisogno di lavorare, tra precarietà dilagante e inflazione che erode i già magri salari, non è mai stata così difficile negli ultimi decenni. Ci vuole una svolta ha sottolineato il sindacalista – quella che da tempo chiede la Cgil e gli altri sindacati confederali. “A sinistra risponde uno squillo’’: Non si parla più di lavoro – ha rilanciato il segretario della Uil Pierluigi Bombardieri –, ma le tensioni sociali aumentano. Siamo tutti i giorni tra lavoratori e lavoratrici che ci raccontano le loro difficoltà. Pur lavorando, milioni di persone non arrivano a fine mese e guardano rassegnate al futuro. È ora che la politica si svegli!’’.

 

Quando leggo certe affermazioni, molto più simili a degli slogan, piuttosto che ad analisi compiute, mi chiedo – da ex sindacalista – quali motivi possono indurre dirigenti di grandi organizzazioni, onusti di potere e di responsabilità, a fuggire da una realtà complessa e a rifugiarsi in scenari prefabbricati allo scopo di giustificare la propria incapacità di affrontare il cambiamento. Come deve sentirsi un gruppo dirigente sindacale che preconizzava milioni di licenziamenti al termine della sciagurata sospensione dei licenziamenti (che si trasformò in un sostanziale blocco delle assunzioni mandando in fumo un milione di posti di lavoro durante la pandemia) quando, per fortuna, l’occupazione iniziò un processo di crescita che non si è ancora interrotto? Ci possiamo accontentare delle narrazioni di Bombardieri il quale denuncia l’insostenibilità della condizione non solo di chi il lavoro non lo ha o lo ha perduto, ma anche di chi lavora? Fino a prova contraria sono i sindacalisti che negoziano e stipulano i contratti di lavoro e definiscono con le controparti i criteri di adeguamento all’inflazione. Poi si resta sorpresi quando si scopre che i lavoratori vanno da soli a cercarsi un lavoro migliore – Sono un milione 660 mila le dimissioni – scrive Collettiva – che si sono registrate nei primi nove mesi del 2022: il 22% in più dell’anno precedente (nel 2021 erano 1,36 milioni). A fornire il dato è il Ministero del Lavoro, divulgando i consueti dati trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie. Il dicastero, inoltre, precisa che le dimissioni sono attualmente la seconda causa di cessazione dei rapporti di lavoro, venendo dopo la scadenza dei contratti a termine.

 

Prendendo in esame soltanto il terzo trimestre 2022, quindi il periodo che va da luglio a settembre, le dimissioni sono state 562 mila, in aumento del 6,6% (pari a oltre 35 mila uscite volontarie). Per una corretta lettura del dato è bene però precisare che il numero indica i rapporti di lavoro cessati per dimissioni e non il numero dei lavoratori coinvolti. In aumento, però, è anche il numero dei licenziamenti, ripresi dopo il blocco dovuto alla pandemia. Nei primi nove mesi del 2022 sono stati 557 mila (nel medesimo periodo del 2021 erano 379 mila), con un balzo in avanti del 47%. Dalla differenza tra i due dati – osserviamo noi – si potrebbe ricavare una stima attendibile degli effetti del blocco (meno di duecentomila licenziamenti sospesi a fronte di quasi un milione di posti perduti).    Nel terzo trimestre del 2022 – prosegue Collettiva – sono stati 181 mila, in crescita del 10,6% (pari a 17 mila uscite decise dal datore di lavoro) rispetto al terzo trimestre 2021.

 

“L’aumento delle dimissioni può avere spiegazioni molto differenti”, spiega la segretaria confederale Tania Scacchetti. “Da un lato può positivamente essere legato alla volontà, dopo la pandemia, di scommettere su un posto di lavoro più soddisfacente o più ‘agile’. Dall’altro però, soprattutto per chi non ha già un altro lavoro verso il quale transitare, potrebbe essere legato a una crescita del malessere dovuta anche a uno scarso coinvolgimento e a una cattiva valorizzazione professionale da parte delle imprese”. Ciò induce il sindacato ad indagare. È singolare, comunque, che di certi processi si abbia sentore quando li si leggono nelle statistiche dell’Istat. Un sindacato con le carte in regola dovrebbe vederli e gestirli in anticipo perché si svolgono quotidianamente all’interno delle aziende e sono previsti gli strumenti contrattuali per poterli affrontare da protagonisti. Certo per essere all’altezza di queste esigenze dei lavoratori non basta privilegiare, come sostengono ampi settori sindacali al punto di renderla erga omnes, la contrattazione nazionale, ma bisogna avvalersi della contrattazione decentrata e di prossimità, peraltro agevolata sul piano fiscale.

 

Pietro Ichino, qualche anno fa, pubblicò un saggio intitolato “L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore”. E venne “crocefisso in sala mensa”. Ma di grazia non è quanto accade oggi attraverso il fenomeno sorprendente e massiccio delle dimissioni volontarie? Non si tratta forse di lavoratrici e di lavoratori che si sono accorti, da soli, che, in questa fase, è la domanda a rincorrere l’offerta di lavoro, sicuramente per quanto riguarda la qualità, ma sempre più spesso la quantità dell’offerta stessa. Vi sono poi altri dati che stonano con la narrazione corrente della “precarietà dilagante”. Anche perché il salto di qualità ha riguardato proprio le assunzioni a tempo indeterminato, quale condizione per le imprese nel reperire la manodopera necessaria.  Sommando i dati dei nuovi posti di lavoro negli ultimi due anni (+ 948mila) l’occupazione è tornata a livelli pre-Covid. Si deve e si può fare di più: ma quanto finora descritto è stato compiuto.

 

Secondo l’Istat ci sarebbero già adesso le condizioni per 500mila posti di lavoro in più. Per avere un’idea di come un sindacato dovrebbe lavorare è utile leggere la recentissima pubblicazione del Cruscotto del lavoro nella metalmeccanica a cura della Fim-Cisl. Come scrive Roberto Benaglia nell’introduzione: “Siamo il sindacato che vuole superare e staccarsi da una immagine del lavoro pessimistica e fatta solo di luoghi comuni. Il movimento sindacale non può giocare la propria rappresentatività solo narrando di settori in continua crisi e rappresentando un continuo peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Mai come in questi anni tocchiamo invece con mano, soprattutto nei territori e nei luoghi di lavoro, come le tecnologie, la diversa organizzazione del lavoro, la attenzione ai risultati, al coinvolgimento e alla partecipazione dei lavoratori stiano determinando un’importante mutazione del lavoro metalmeccanico, che vale sempre di più e sempre più va fatto valere con la contrattazione”. Poi il leader della Fim-Cisl prosegue: “Conoscere a fondo non solo le tendenze, ma soprattutto la direzione che il lavoro sta assumendo è un impegno prioritario per il sindacato e la Fim, che fa della innovazione contrattuale un punto di forza da sempre praticato con coraggio e passione’’.

 

La sintesi del Cruscotto consegna alcune chiavi di lettura assai indicative di tendenze ormai affermate nella categoria:

– pur dentro un rallentamento della produzione industriale il settore vede aumentare il saldo commerciale e i mesi di produzione assicurata;

– l’occupazione ha sofferto gli anni della pandemia, della guerra e dei costi energetici, ma non ha subito gravi perdite nel confronto con altre crisi e al passato;

– nella metalmeccanica sono presenti tassi di lavoro precario o a termine ben più bassi di quelli dell’intera economia;

– la produttività, malattia storica dell’economia italiana, è cresciuta di 15 punti percentuali in un decennio;

– un lavoratore metalmeccanico guadagna in media oltre 40mila euro ed i salari, anche grazie agli accordi cosiddetti separati, sono aumentati fino al 2021 più dell’inflazione;

– il tasso di infortuni è da una decina d’anni in calo, sebbene tale miglioramento si sia arrestato nel recente passato, ed è più basso di altri paesi europei;

– la formazione continua coinvolge un numero di lavoratori crescente, certamente non a sufficienza rispetto all’accelerazione della innovazione tecnologica;

– esplode il tema della scarsità di manodopera professionalizzata rispetto ai bisogni delle imprese;

– i differenziali retributivi di genere sono più bassi dell’economia in generale;

– purtroppo si indebolisce la presenza della metalmeccanica nel Mezzogiorno del Paese.

 

A commento di questa interessante iniziativa Luigi Marelli su Il diario del lavoro ha voluto ricordare quanto un illustre sindacalista, Vittorio Foa, della Cgil, diceva della Fim-Cisl: “E’ una bellissima organizzazione di minoranza, che punta, con forza, alla primazia nella categoria, consapevole che per centrare quest’obiettivo è condannata a studiare”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Politically (in)correct – Basta con un’immagine del lavoro fatta solo di luoghi comuni