Perché declina l’offerta di lavoro nel Turismo?

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Bollettino ADAPT 5 settembre 2022, n. 29
 
Il settore Turismo, nel quale sono tradizionalmente compresi alberghi, campeggi e altre strutture ricettive, pubblici esercizi (bar, ristoranti etc.), mense, stabilimenti balneari, agenzie di viaggio e tour operator, stabilimenti termali e parchi a tema nel 2019 – prima della pandemia – contava circa 1,3 milioni di lavoratori dipendenti a fronte di circa 200mila imprese con dipendenti in media d’anno (EBNT, Osservatorio sul mercato del lavoro nel turismo, XII Rapporto).
 
Nel 2020, anno di piena pandemia, l’occupazione nel settore è scesa sotto il milione di unità, circa 950mila dipendenti in media d’anno (EBNT, Osservatorio sul mercato del lavoro nel turismo, XIII Rapporto).
 
Nel 2021, sebbene nei primi mesi dell’anno vi sia stata una forte circolazione del virus e siano stati presi provvedimenti di restrizione delle attività, l’occupazione nel settore ha recuperato, riportandosi sopra il milione di dipendenti, ancora lontana, tuttavia, dai valori precrisi.
 
I dati diffusi in questi giorni dall’INPS – che riguardano l’intera economia e si fermano a maggio 2022 – evidenziano un recupero sensibile dei valori dell’occupazione, conseguente al rimbalzo del prodotto interno lordo di questi mesi.
 
C’è quindi una robusta domanda di lavoro a fronte della quale si registra un rallentamento dell’offerta di lavoro, segnatamente nel settore turismo.
 
Questo fenomeno ha costituito oggetto di un serrato dibattito al quale vogliamo portare un contributo basato sulle evidenze del settore.
 
Occorre innanzitutto rilevare che il problema dell’offerta di lavoro, nell’ospitalità e nella ristorazione, caratterizza in diversa misura da qualche lustro tutte le economie turistiche del continente europeo (Hotrec, How to attract and retain the workforce in the hospitality sector) e le principali economie turistiche del mondo.
 
Tuttavia, è con l’avvento della pandemia che la carenza di personale, ovvero la dinamica declinante dell’offerta di lavoro nel settore turismo è diventata estremamente visibile, fino a diventare argomento di comune conversazione.
 
Non è probabilmente possibile individuare una gerarchia delle cause del fenomeno, ma si può tentare di elencare quelle di maggiore impatto, cercando di portare argomenti a favore della scelta operata.
 
Tra le cause strutturali del declino dell’offerta di lavoro nel settore va annoverata quella demografica. L’innalzamento dell’età media della nostra società riduce uno dei tradizionali bacini di approvvigionamento della manodopera del settore turismo: i giovani.
 
Nel grafico che segue, l’andamento della percentuale di occupati del settore con meno di 30 anni e con più di 50 anni dal 2008 al 2020. Nonostante gli under 30 rappresentino ancora più di un terzo degli occupati, la percentuale degli over 50 è in costante crescita, a indicare uno “slittamento” in avanti nell’età media dei dipendenti del settore.
 

Percentuale dei dipendenti <30 anni e >50 anni nel Turismo (2008-2020)

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Fonte: elaborazioni su dati INPS

 
In secondo luogo, c’è una diversa valutazione delle caratteristiche proprie del lavoro nel turismo: stagionalità, flessibilità oraria, possibilità di carriera.
 
Se fino a qualche anno fa quest’ultimo aspetto, l’acquisizione di una professionalità o la possibilità di cogliere un’opportunità di lavoro per chi era stato espulso da un altro settore rappresentavano valide motivazioni per intraprendere una carriera nel turismo, oggi prevale una valutazione più propensa a valutare nella flessibilità e nella stagionalità dell’attività elementi che influiscono negativamente sulla scelta.
 
In particolare, la stagionalità, che fornisce ai lavoratori la possibilità di lavorare solo in alcuni periodi dell’anno per svolgere in altri periodi attività diverse o di cura rappresenta nell’odierna valutazione un elemento di forte penalizzazione.
 
Questo punto di vista, a mio avviso non condivisibile, vanta autorevoli sostenitori, tanto che nella Relazione del Gruppo di lavoro sugli interventi e misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia del Ministero del lavoro il dato relativo al “rischio di basse retribuzioni per macrosettore” è stimato per il settore turismo nel 64,5% rispetto alle retribuzioni annuali.
 
Il perché tale rischio sussista, la Relazione lo spiega (p. 14, fig. 3) mettendo in rapporto il rischio di bassa retribuzione con i mesi lavorati. Si osserva cioè: per chi lavora solo alcuni mesi durante l’anno, c’è il rischio che la retribuzione possa essere al di sotto della media delle retribuzioni annuali.
 
È senz’altro il caso dei lavoratori stagionali, che lavorano per definizione in alcuni mesi dell’anno. E tuttavia la stagionalità, soprattutto nel turismo, è un dato di fatto sul quale né lavoratori né imprese possono fare granché.
 
Una soluzione alla limitatezza degli impieghi stagionali è tradizionalmente data dalla possibilità di una “doppia stagione”, estiva e invernale, come spesso avviene ad esempio nelle aree montane.
 
La possibilità di un ulteriore contratto stagionale riguarda ovviamente anche coloro che, avendo lavorato durante la stagione estiva in una località marina, decidano di lavorare durante la stagione invernale in montagna o comunque in una località diversa da quella nella quale hanno prestato servizio in precedenza.
 
In tal modo la limitazione legata alla stagionalità climatica è in qualche modo superata. Come potrebbe essere superata qualora al lavoratore che non desideri spostarsi dal suo luogo di residenza venga proposto un impiego stagionale in un settore diverso, anticiclico rispetto alla stagionalità turistica, nei periodi di bassa stagione.
 
In quest’ultima circostanza verrebbe preservata la possibilità di ancorare la professionalità al territorio, evitando di impoverire la comunità di riferimento attraverso “migrazioni” ripetute ancorché temporanee.
 
La realizzazione di queste possibilità richiede tuttavia un mercato del lavoro dinamico in cui l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, a opera di soggetti pubblici e/o privati, avvenga in maniera efficiente.
 
Sappiamo che – allo stato – non è questo il caso del nostro mercato del lavoro, nel quale sono tuttora prevalenti i meccanismi informali di ricerca e selezione del personale.
 
Infine, non è trascurabile, per una corretta valutazione dell’attrattività del lavoro stagionale, l’aspetto legato all’indennità di disoccupazione, che dal 2015 è stata dimezzata per questa categoria di lavoratori.
 
Venendo a cause meno remote, il prolungato ridimensionamento delle attività turistiche legato all’emergenza pandemica e alle misure di prevenzione della diffusione del virus SARS-CoV-2 ha fortemente penalizzato le professionalità del settore.
 
I rapporti di lavoro stagionali e quelli a tempo determinato hanno subito uno stop importante, senza giovare – se non in misura limitata – di interventi di sostegno al reddito.
 
L’evidenza del settore ci dice che interruzioni dell’attività prolungate spingono la manodopera meno qualificata a rivolgersi ad altri settori in cerca di lavoro.
 
Nello stesso periodo in cui l’attività turistica era limitata, abbiamo assistito a un boom della logistica e dell’edilizia, settori dove tradizionalmente vi è spazio anche per soggetti privi di una specifica qualificazione.
 
Il prolungato ridimensionamento delle attività turistiche ha inoltre trasmesso una immagine di precarietà dell’occupazione che ha spinto i lavoratori e gli aspiranti tali a rivolgersi verso altre attività.
 
Non è infine da sottovalutare l’aspetto psicologico di chiusura che ha caratterizzato i primi mesi della pandemia, che ha spinto alcuni a ridimensionare le proprie aspettative e scelte di vita, propendendo per una occupazione meno “dinamica” ed “esposta” al contatto con gli altri rispetto al turismo.
 
A queste ragioni se ne aggiungono ovviamente delle altre, maggiormente legate alla struttura delle misure di sostegno del lavoro attualmente presenti nel nostro Paese.
 
È il caso della dibattutissima questione dell’influenza del reddito di cittadinanza, sulla quale non risultano esserci evidenze definitive.
 
Se tuttavia il RDC potrebbe non incidere in maniera significativa sulla valutazione se accettare o meno un impiego a tempo pieno e/o indeterminato, non si può escludere un’influenza sull’orientamento se accettare o meno lavori di minore durata, come gli extra, le sostituzioni, i contratti a termine di durata più limitata o i contratti a chiamata, che pure caratterizzano il settore in maniera significativa.
 
Maggiore uniformità di vedute vi è sugli strumenti con i quali affrontare il problema del declino dell’offerta di lavoro nel settore turismo:

– un maggiore raccordo con il sistema dell’istruzione, sia secondaria (istituti professionali alberghieri e tecnici per il turismo), che post-secondaria (IFTS), che terziaria (universitaria e ITS). In questi ultimi casi i numeri sono ancora bassi ma è molto alta la risposta in termini di collocamento dei diplomati;

– un’opera capillare di conoscenza del settore e di orientamento, in grado di far apprezzare le caratteristiche che rendono il lavoro nel turismo attrattivo (socialità, autoimprenditorialità e possibilità di ascensore sociale);

– una maggiore efficacia delle misure di politica attiva del lavoro, anche attraverso il coinvolgimento delle parti sociali e del sistema della bilateralità;

– sempre in tema di bilateralità, l’intensificazione dell’opera di conoscenza e promozione di tutti gli strumenti del welfare contrattuale presenti nella contrattazione collettiva (assistenza sanitaria, previdenza complementare, bilateralità, formazione continua) che permettono la crescita professionale e il miglioramento delle condizioni economiche degli addetti.
 
Senza eludere gli aspetti legati direttamente alla retribuzione, occorre evidenziare che la ripresa economica del settore, appena avviata dopo il biennio horribilis legato al Covid-19 viene oggi minacciata dallo shock legato ai costi dell’energia fuori controllo.
 
Affinché non si instauri una spirale inflazionistica, come avvenne in circostanze assai simili durante la guerra del Kippur del 1973, bisogna assumere tempestivamente decisioni in grado di sostenere le imprese e le famiglie.
 
Se si vuole infine che i salari tornino a crescere in modo da rappresentare non solo un adeguato compenso ma anche un fattore di attrattività del settore occorre intervenire del pari sul costo del lavoro riducendo il c.d. cuneo fiscale che rappresenta una forma di grave penalizzazione per le imprese italiane nel quadro già problematico del turismo europeo (vedi Il turismo lavora per l’Italia, Federalberghi, 2022).
 
Angelo Candido

Capo Servizio sindacale Federalberghi

@angelocandido

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