Part-time: fra discriminazione retributiva e di genere, riflessioni a margine dell’ordinanza n. 4313/2024 della Cassazione

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Bollettino ADAPT 8 aprile 2024 n. 14
 

Con l’ordinanza n. 4313/2024, inserendosi nel solco di una giurisprudenza europea conforme, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito al divieto di discriminazione sulla base del monte orario fra lavoratori part-time e full-time nella valutazione dell’anzianità di servizio ai fini delle progressioni economiche.
 
La spinosa questione è sorta in relazione a un giudizio avviato presso il Tribunale del lavoro di Genova, il quale, in primo grado, aveva sostanzialmente accolto il ricorso di una lavoratrice part-time che lamentava di aver subito, a causa della presunta minore anzianità di servizio, un trattamento discriminatorio rispetto ad un suo collega assunto a tempo pieno da parte dell’Agenzia dell’Entrate, sua datrice di lavoro, nella selezione interna per l’avanzamento ad una migliore fascia retributiva.
 
Risultata soccombente anche davanti alla Corte d’Appello, l’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza presso la Cassazione, affermando l’insussistenza della discriminazione diretta, dal momento che il ridotto punteggio della lavoratrice ai fini delle progressioni risultava, nella ricostruzione del Fisco, coerente con il minor numero di ore lavorate in virtù del rapporto a tempo parziale.
 
Per comprendere le ragioni che hanno indotto l’Alta Corte a ritenere infondato il ricorso è opportuno effettuare una rapida panoramica dei principali profili di diritto e giurisprudenziali toccati dal caso di specie.

In particolare, la decisione della Corte muove dalle consolidate interpretazioni adottate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul principio, contenuto nella clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 97/81/CE, di non discriminazione del lavoratore a tempo parziale e di opportuna applicazione del pro rata temporis.
 
Sul punto, infatti, è stato evidenziato che il pro rata temporis è un principio immanente dell’ordinamento giuridico multilivello perché espressione del diritto inviolabile di eguaglianza sostanziale presente nei Trattati e nelle Carte costituzionali degli Stati membri. Tale principio prevede che il trattamento del lavoratore a tempo parziale debba essere riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa, impedendo in tal modo che situazioni diseguali siano trattate in modo uguale e situazioni eguali siano trattate in modo diseguale. Da questo punto di vista, quindi, il pro rata temporis costituisce l’applicazione del principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità del lavoro prestato, previsto dall’art. 36 Cost., rappresentando al tempo stesso una conferma della natura sinallagmatica del rapporto di lavoro.

 
Se però per quanto riguarda la retribuzione base il riproporzionamento è da considerarsi legittimo, non altrettanto è asseribile per la progressione economica in ragione dell’anzianità di servizio. Proprio su questo profilo si concentra il ragionamento della Corte di Cassazione, che ha confermato l’orientamento di quelle pronunce (tanto della CGUE quanto della stessa Cassazione) antecedenti che, pur ritenendo legittimo l’obiettivo di apprezzare in misura puntuale l’esperienza di servizio ai fini delle progressioni, definivano la stessa come il prodotto di circostanze desumibili dal caso concreto e non come diretta conseguenza della durata dell’attività professionale.
 
La Cassazione, allineandosi alla giurisprudenza precedente, ha quindi chiarito che quantità lavorativa non è sintomo di qualità nell’espletamento del proprio incarico e, dunque, che non è possibile considerare il tempo della prestazione quale parametro oggettivo di valutazione dell’esperienza maturata dal dipendente, con la conseguenza che non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell’orario e riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche.
 
La tesi della Cassazione trova inoltre ulteriori sponde in diverse ordinanze di poco antecedenti, quali quella del Tribunale di Napoli del 27 febbraio 2020 n. 21801, che ha rimarcato tanto l’inesistenza di un “nesso eziologico tra espletamento delle mansioni per orario ordinario ed accrescimento dell’esperienza professionale” quanto la considerazione dell’esperienza come frutto di una pluralità di componenti non riducibili alla sola quantità di ore lavorative prestate.
 
La Alta Corte, non da ultimo, ha avuto modo di riflettere su un ulteriore profilo di infondatezza del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, relativo nello specifico alla discriminazione indiretta di genere intesa quale forma di discriminazione che, al contrario della sua variante diretta, ricorre ogni qualvolta una disposizione, un criterio o una procedura appaiano neutri nella forma, ma sfavoriscano un determinato gruppo di persone nella sostanza. 

 
Un esempio classico di discriminazione indiretta si ha proprio nel rapporto fra tempo parziale e genere femminile. Il ragionamento condotto dalla Cassazione sul binomio donna-part time nel caso trattato trova, infatti, giustificazione nella netta prevalenza femminile fra i dipendenti della ricorrente che richiedono l’accesso a una prestazione di lavoro a tempo parziale. La discriminazione perpetrata dall’Agenzia, infatti, mette chiaramente in luce una conseguenza oggettiva: il datore di lavoro pubblico escludendo direttamente la lavoratrice a tempo parziale dalla selezione per la progressione retributiva ha altresì discriminato indirettamente la sua appartenenza al genere femminile in ragione dell’assimilazione della donna quale species dominante nel genus più ampio dei lavoratori part-time.
 
A ciò si aggiunga che tale circostanza, così come ricostruita dal giudice di merito mediante l’utilizzo delle statistiche, non è da ritenersi isolata, ma causata da una dimensione strutturale del sistema lavorativo, che colpisce tanto le lavoratrici italiane quanto quelle residenti in altri Stati membri. Dall’analisi dei dati, infatti, emerge che le donne, dovendosi occupare con più frequenza rispetto agli uomini del contesto familiare ed assistenziale, sono maggiormente interessate dalla scelta di impieghi con un ridotto monte ore lavorativo che consenta loro di conciliare la sfera lavorativa e la gestione della sfera famigliare.
 
Tuttavia, come evidenziato dal report BES di ISTAT 2022, è da rilevare che, mentre la media europea sull’incidenza delle occupate in part-time involontario sul totale delle donne in part-time si attesta sui 20 punti percentuali, in Italia tale dato supera abbondantemente i 50 punti percentuali, con la conseguenza che il nostro risulta un Paese che, tendenzialmente, fa ancora perno per la cura familiare sulla figura della donna, con il correlato sacrificio di tempo lavorativo che spesso tale scelta comporta.
 
La notevole divergenza fra media nazionale ed europea evidenziata dal report indubbiamente solleva diverse riflessioni che si intrecciano alle parole finali della Corte e ad alcuni principi costituzionali. La discriminazione sulla base del tempo parziale, infatti, è considerabile quale causa scatenante di una reazione a catena dagli effetti sociali preoccupanti.
 
La valorizzazione del tempo lavorativo nella valutazione dell’esperienza in caso di progressione economica è, infatti, concausa dell’acutizzarsi del gender gap retributivo fra lavoratori, che a sua volta impatta negativamente sul tessuto sociale nel suo complesso poiché è per sua stessa natura violazione diretta del principio di uguaglianza e del divieto di discriminazione.
 
Proprio nella consapevolezza di una siffatta catena causale, la Corte osserva che le lavoratrici a tempo parziale potrebbero risultare quotidianamente soggette ad una duplice discriminazione economica e sociale, poiché “la discriminazione nell’avanzamento economico dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell’accesso al mondo del lavoro”.
 
Il giudice fornisce tra le righe la soluzione per arginare il fenomeno nell’ultimo passo dell’ordinanza.
Muovendo dalle parole della Corte, infatti, è possibile avviare un serio ripensamento in chiave democratica delle politiche lavorative, che, favorendo la conciliazione fra tempo di lavoro e tempo libero, siano strumento per una maggiore integrazione della donna nel mercato del lavoro e, al contempo, le consentano il raggiungimento di posizioni manageriali superiori.

La pronuncia trattata, dunque, si attesta perfettamente su questa posizione, confermando l’esistenza di un file rouge europeo di tutela del lavoratore e della lavoratrice a tempo parziale da ogni forma di ingiusta penalizzazione perpetrata nei suoi confronti senza alcuna legittima motivazione.
 
Virginia Pezzoni
ADAPT Junior Fellow

Part-time: fra discriminazione retributiva e di genere, riflessioni a margine dell’ordinanza n. 4313/2024 della Cassazione