Meno incentivi per la contrattazione di secondo livello

Lo scorso 7 ottobre, al tavolo con i sindacati, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva messo al centro dell’incontro la legge sulla rappresentanza sindacale, il salario minimo e la promozione del decentramento contrattuale. Una apertura al confronto che sembrava presagire a una nuova stagione di dialogo sociale, tutta incentrata su questioni di politica economica importanti per il rilancio del Paese. Così invece non è stato. Ameno rispetto al tema su cui si era registrata una maggiore convergenza di vedute tra le forze sociali: la contrattazione aziendale. In (apparente) controtendenza rispetto alle dichiarazioni d’intenti, nella manovra finanziaria per il 2015 è stato previsto un taglio di 200 milioni di euro del fondo destinato ad incentivare la contrattazione di secondo livello attraverso il meccanismo della detassazione.
 

Istituita nel 2007, la misura prevede un’imposta sostitutiva pari al 10% per le quote salariali erogate a titolo di retribuzione di produttività, in esecuzione di contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale. Lo sgravio è riconosciuto nel limite di 2.500 euro lordi annui, in favore dei titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore ad euro 40.000.

 

Si tratta di una politica fiscale di vantaggio che ha contribuito ad alleggerire il peso dell’imposizione sulle buste paga dei lavoratori(circa 202 euro per lavoratore secondo l’INPS), pur tuttavia subendo, nel corso degli anni, un progressivo ridimensionamento: dai 650 milioni stanziati nel 2008, si è passati ai 607 milioni per il 2013. Ora un’ulteriore riduzione, ben più netta rispetto ai precedenti scaglioni. La mossa dell’esecutivo potrebbe essere però non del tutto priva di coerenza rispetto all’obiettivo di promuovere la contrattazione aziendale. Il taglio del fondo, infatti, potrebbe essere associato a una restrizione dei requisiti per l’accesso agli sgravi fiscali da individuare con il decreto attuativo: in questo modo, si andrebbe a restringere la platea dei beneficiari, garantendo così una maggiore riduzione del cuneo fiscale in favore dei lavoratori delle aziende che fanno vera contrattazione di produttività.

 

Bisogna del resto prendere atto del fatto che dal 2010 ad oggi la misura ha avuto a) un effetto limitato sul piano dell’incentivo alla diffusione della contrattazione di secondo livello; b) un effetto limitato sulla crescita della produttività; c) un effetto limitato sulla riduzione del cuneo fiscale.

 

In altre parole, le aziende che siglano accordi di produttività “genuini” sono sempre le stesse e, complessivamente, gli indicatori economici restano piatti. Occorre ricordare inoltre che, in alcuni settori dell’economica, è stato fatto un utilizzo improprio della misura. Il riferimento è agli accordi territoriali fotocopia sottoscritti al solo fine di sgravare anche le voci economiche dei CCNL (es. lo straordinario). Questo fenomeno di “raggiro” del meccanismo della detassazione non va letto (solo) in chiave negativa: è piuttosto la spia del fatto che in alcuni settori, come ad esempio il commercio, la produttività può essere incrementata anche attraverso un utilizzo strategico degli istituti del CCNL. Infine, molte aziende del terziario avanzato, ma anche dell’industria, hanno eccellenti politiche di incentivo della produttività definite unilateralmente e, quindi, sono fuori dal campo di applicazione della detassazione. Per converso, un ingente numero di contratti aziendali prevede premi di risultato fissi, in deroga a CCNLe agli accordi interconfederali che vietano la cosa, che sono sistematicamente assoggettati all’imposta sostitutiva del 10%.

 

In questa prospettiva, sarebbe quanto mai opportuno tornare a detassare anche la retribuzione di produttività derivante da misure unilaterali aziendali. Individuando magari criteri che siano strettamente premianti della effettiva implementazione di modelli organizzativi innovativi a prescindere dal livello contrattuale in cui gli stessi sono definiti.

 

Resta imprescindibile, infine, una azione mirata di incentivo agli investimenti in ricerca e capitale umano che, insieme all’innovazione dei processi, sono i due tasselli che mancano per far ripartire la produttività del Paese. I dati del resto parlano chiaro: dal 1990 le aziende italiane hanno smesso di reinvestire gli utili su questi capitoli, che sono le principali determinanti della produttività nelle economie di mercato più avanzate.

 
Paolo Tomassetti

ADAPT Research Fellow

@PaoloTomassetti 


* Pubblicato anche in La Nuvola del Lavoro, 24 ottobre 2014.
 
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