Le dimissioni della lavoratrice madre in periodo “protetto”: dalla Cassazione, spunti di riflessione sui vincoli di “forma” dell’atto di recesso

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Bollettino ADAPT 17 aprile 2023, n. 15
 
Con l’ordinanza del 23 febbraio scorso, n. 5598, la Corte di Cassazione ha avuto di esprimersi su di una vicenda, per molti aspetti, inedita al giudizio di legittimità e inerente alla fattispecie, ex art. 55 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice madre in c.d. “periodo protetto”. Per quel che maggiormente rileva, i tratti peculiari del caso affrontato dal supremo collegio ed emergenti dal testo della pronuncia, riportano di una dipendente che, pur formalizzando, per iscritto (ciò si evince pianamente dall’ordinanza) la propria intenzione di recedere dal contratto di lavoro in essere, non provvedeva poi a convalidare l’atto unilaterale presso il «servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio».

 

Sulla conseguente inefficacia della suddetta – e, quantomeno inizialmente, inequivoca – manifestazione di volontà, la lavoratrice fondava il proprio “ripensamento” – posteriore al periodo normativamente garantito – espresso mediante la pretesa di una sentenza “dichiarativa” del rapporto. Se in primo grado, il giudizio di cognizione si concludeva per una condanna – con diritto a differenze retributive e T.F.R. – della società resistente, ma con efficacia limitata al giorno coincidente «con il venir meno del periodo “protetto” [e con successiva] ritenuta piena operatività delle rassegnate dimissioni», nell’appello, i giudici di seconde cure, in accoglimento del gravame della ricorrente, escludevano la “limitazione” testé, imponendo al datore di lavoro di corrispondere le «retribuzioni mensili percepite dall’8 gennaio 2008 -giorno delle dimissioni – fino alla data di deposito del ricorso di primo grado, detratto l’aliunde perceptum nella misura risultante dalla documentazione reddituale prodotta».
 
Nel vaglio di legittimità, la società propugna due distinte ragioni di ricorso, le quali, snodandosi su differenti direttrici argomentative e ancorché rimaste disattese, risultano, comunque, meritevoli di approfondimento e di brevi riflessioni aggiuntive.
 
Rispetto al primo motivo, muovendo, plausibilmente, dal concetto civilistico di “inefficacia” -che, a differenza della “nullità” (art. 1418 c.c.) o della “annullabilità” (artt. 1427 c.c. e s.s.), agenti direttamente sull’atto unilaterale, si colloca esternamente, mediante un giudizio sulla operatività del medesimo -, la tesi datoriale sembra suppore, implicitamente, una “sopravvivenza” o, meglio, un differimento degli effetti delle dimissioni originariamente rassegnate, dal che deriverebbe una «violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 55 censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che anche dopo il venir meno del periodo protetto collegato all’astensione per maternità, al fine della efficacia delle dimissioni, occorresse, comunque, la convalida dell’ufficio ispettivo del Ministero del Lavoro», ponendosi tale epoca oltre il «periodo riconosciuto come abbisognevole di tutela particolare».
 
Nel ritenere infondata la doglianza, oltre a rilevare l’assenza di un qualsivoglia appiglio nel dato testuale della norma, i giudici di nomofilachia fanno leva sulla specifica ratio e finalità antiabusiva della disposizione, concentrata sul «momento delle dimissioni [,con la conclusione che] in relazione a tale elemento temporale la cessazione del periodo protetto costituisce un fattore neutro, inidoneo ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente». Sul punto, va detto, se ce ne fosse bisogno, che le argomentazioni sviluppate dalla Corte risultano del tutto conferenti al “rischio” concreto che la norma intende scongiurare ossia, assunto l’espresso divieto di licenziamento di cui al precedente art. 54 d.lgs. 26 marzo 2001 cit., «che, nello stesso periodo, possa essere raggiunto il medesimo effetto di risoluzione del rapporto di lavoro […] attraverso un atto che è formalmente ad iniziativa della lavoratrice o del lavoratore ma che non corrisponde ad una volontà dismissiva liberamente formatasi» (Cfr., Cass., 11 giugno 2015, n. 12128).
 
Specialmente se si considera che, in tale delicatissimo momento di vita, l’intenzione di recedere espressa dalla lavoratrice sì ritiene, con presunzione “assoluta”, condizionata a monte ovvero “non spontanea”, in quanto «dettat[a] da ragioni collegate alla specifica situazione che induce a privilegiare esigenze di tutela della prole rispetto alla stabilità dell’occupazione lavorativa», con la conseguenza che, a valle, solo l’accertamento amministrativo effettuato «dal servizio ispettivo competente, è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto» (per una maggiore comprensione dei distinti concetti di “non spontaneità” e “volontà” delle dimissioni, Cass., 3 marzo 2014, n. 4919).
 
Dunque, anche le ponderazioni che – secondo la giurisprudenza citata – retroagiscono all’art. 55, conducono a sostenere i convincimenti, promossi in ordinanza, circa l’impossibilità di ammettere la “conservazione” degli effetti di un atto unilaterale che, già di per sé, sostanziandosi in una “manifestazione istantanea” di volontà (differente rispetto ai c.d. “comportamenti concludenti”, i quali invece si esprimo in «manifestazioni di volontà continuata e/o incardinata in più gesti sostanziali». Così F. Capurro, La cessazione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore tra forme vincolate e comportamenti concludenti: un apparente cortocircuito, giustiziacivile.com, 5 settembre 2022) viziata dal particolare contesto soggettivo in cui versa l’agente, indurrebbe persino a ragionare in termini di “annullabilità” (in questo senso, si pensi alla giurisprudenza formata in tema di azioni di annullamento delle dimissioni ex art. 428 c.c. , dove, oltre alla prova del “grave pregiudizio”, si ritiene «sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere». Ex multis Cass., 25 giugno 2019, n. 16998) piuttosto che di mera “inefficacia”.
 
A ogni modo, la palesata saldatura delle ragioni d’infondatezza alla «specifica» (così ai punti 3.1 e 3.2, “Considerato che” dell’ordinanza) ratio protettrice perseguita dalla disposizione, porta, paradossalmente, a riflettere, invece, sulla sua attuale e complessiva coerenza posto che, come noto, rispetto alla versione ratione temporis applicabile alla vicenda in commento, da una parte, l’art. 4, comma 161 della legge 28 giugno 2012, n. 92 ne ha esteso l’arco temporale, passando da uno a tre anni; dall’altra, l’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte di Cassazione (v. Cass., 11 luglio 2012, n. 11676) e fatta propria anche dalla prassi ispettiva (v. INL, 25 settembre 2020, nota prot. 749), ne ha confermato gli effetti, con l’unico – e decisamente incerto – limite della conoscenza della situazione familiare da parte del datore di lavoro (peraltro facendo emergere, sebbene sullo specifico punto, profili di sostanziale diversità rispetto alla situazione della lavoratrice.), anche nei riguardi del lavoratore padre che non abbia fruito del “congedo di paternità” (artt. 28 e ss. d.lgs. 26 marzo 2001) ossia, prima facie, di un soggetto estraneo alla finalità perseguita dal legislatore. Per vero, in tale evenienza, è innegabile che, quantomeno oltre l’anno (e, anteriormente alle modifiche introdotte dall’art. 2 d.lgs. 30 giugno 2022, n. 105, fin da subito), il lavoratore subordinato, né si troverebbe, necessariamente, in quella «specifica situazione che induce a privilegiare esigenze di tutela della prole rispetto alla stabilità dell’occupazione lavorativa», né, tantomeno, correrebbe il rischio di essere “spinto” a dimissioni celanti un licenziamento vietato, essendo la preclusione normativa, in questo caso, non prevista.
 
Qualche parola è in ultimo opportuna sul secondo motivo di ricorso e che, senza l’accesso agli atti della fase di merito, lascia ben più d’una perplessità. Infatti, la censura propugnata dalla società «per avere [la Corte di merito] escluso che la condotta successiva della lavoratrice si configurasse quale comportamento concludente di recesso dal rapporto di lavoro» appare, in astratto, cogliere nel segno, posto che, ben oltre il periodo “protetto”, «la avvenuta percezione dell’indennità di disoccupazione e l’attività prestata in favore di terzi subito dopo avere rassegnato le dimissioni ed il fatto che il licenziamento era stato impugnata ad oltre due anni di distanza dalle dimissioni» potevano ragionevolmente integrare, a parere di chi scrive, una chiara e univoca intenzione dismissiva ovvero, secondo costante giurisprudenza, «tale da esternare esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo i principi dell’affidamento), una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro [, considerato che un] siffatto comportamento può anche essere meramente omissivo, quale quello che si concreta in un inadempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto, in quanto suscettibile di essere interpretato anche come espressione, per fatti concludenti, della volontà di recedere» (Cfr. Cass.;10 ottobre 2019, n. 25583); tuttavia la doglianza è dal Supremo Collegio ritenuta inammissibile, per difetto di specificità, in quanto tesa «a sollecitare direttamente un diverso apprezzamento delle emergenze istruttorie in tema di comportamento concludente della (OMISSIS), sulla base di circostanze peraltro già considerate dal giudice di merito e da questi ritenute non significative nel senso voluto dal ricorrente».
 
A chiusura, volendo trarre qualche riflessione più generale dalla pronuncia qui annotata e partendo dall’assunto che nel diritto del lavoro, specialmente riguardo alla fase estintiva del rapporto, il generale principio di “libertà delle forme” (art. 1325 c.c.), non trova più (anche rispetto al periodo delle vicende di causa), di fatto, cittadinanza (lato datore di lavoro, v. artt. 2 e 7 l. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 4 e 24 l. 23 luglio 1991, n. 223; lato lavoratore, al di là della disciplina dettata dal T.U. maternità, v. art. 35 d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 e, soprattutto, art. 26 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151), si potrebbe convenire sulla opportunità che gli “irrigidimenti” burocratici introdotti dal legislatore, al legittimo fine di tutelare il lavoratore subordinato e in particolare la sua caratteristica “debolezza” nel mercato, una volta abbandonato il posto di lavoro (si rimanda a F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del Lavoro, UTET 2022, p. 5), dovrebbero sempre tenere conto del fatto che, se non bene calibrati alla particolare ratio, di volta in volta perseguita, il rispetto della forma ben si può tramutare in “formalismo” fine a sé stesso, fonte di incertezza nei rapporti e, comunque, inidoneo a proteggere realmente alcun interesse (restando sull’attualità, il riferimento va immediato alle persistenti criticità connesse all’art. 26 d.lgs. 14 settembre 2015 cit., il quale non prevede, a differenza del precedente art. 4 commi 17-22 della legge 28 giugno 2012 cit., alcun meccanismo di “salvaguardia” rispetto a comportamenti opportunistici del prestatore dipendente del tutto inadempiente. Per un approfondimento sulla questione, C. Mogavero, Nuova procedura delle dimissioni on line: una diversa lettura delle norme, Bollettino ADAPT, 2016, n. 10, e, del medesimo autore, Dimissioni per fatti concludenti: quando l’inerzia del lavoratore è idonea a manifestare una volontà abdicativa, Bollettino ADAPT, 2022, n. 24; F. Capurro op. cit.; M. Altimari, Le dimissioni tra forma vincolata e comportamenti concludenti: note su una giurisprudenza creativa, RIDL, 2022, n. 4).
 
Federico Avanzi

ADAPT Professional Fellow

@AvanziFederico

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