La sfida della contrattazione decentrata tra mera riduzione del costo del lavoro ed effettivo aumento di salari e produttività

Interventi ADAPT

| di Michele Tiraboschi

Bollettino ADAPT 30 settembre 2025, n. 33

Il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha recentemente rilanciato l’urgenza di una nuova stagione di buone relazioni industriali che ponga al centro del confronto il sostegno agli accordi legati alla produttività (Orsini: uniti coi lavoratori. Ora contratti di produttività, in Avvenire del 28 settembre 2025). Una linea confermata anche dal Parlamento, con l’approvazione lo scorso 23 settembre della legge delega in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva (qui). Tra i principi direttivi e i criteri di delega al Governo si legge infatti la richiesta di mettere “strumenti volti a favorire il progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello con finalità adattive, anche per fare fronte alle esigenze diversificate derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alla differenza di tale costo su base territoriale”.

Sul sostegno pubblico alla contrattazione di produttività il consenso di tutti gli attori del sistema di relazioni industriali è alto e la strada è certamente condivisibile. Invero, misure economiche si incentivazione e sostegno esistono da decenni (un quadro di sintesi in G. Comi, M. Tiraboschi, Di cosa parliamo quando parliamo di contrattazione di produttività? – La normativa di incentivazione, in Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17) e tuttavia i risultati non sono stati esaltanti se è vero che la produttività non cresce e il contributo della contrattazione collettivo sul punto resta decisamente modesto.

Bene dunque (ri)partire dai numeri perché oggi la realtà dei contratti di produttività è decisamente critica:

– i contratti decentrati sui premi e i risultati sono decisamente pochi (13.761 quelli vigenti);

– si applicano a pochi lavoratori (circa il 20 per cento dei lavoratori dipendenti) tendenzialmente del Nord, della manifattura e della grande impresa;

– riguardano somme tutto sommato modeste (1.494 euro medi per anno e per lavoratore, pari al 4 per cento della retribuzione globale riconosciuta al singolo lavoratore) rispetto ai costi;

– il costo delle misure non è poca cosa (per il triennio 2025-2027, con l’abbassamento dal 10 al 5 per cento dell’aliquota fiscale sui premi di risultato, sono stati stanziati 163 milioni all’anno a sostegno dell’onere finanziario stimato) quantomeno se si pensa che non esistono controlli sul reale incremento di produttività.

Sono questi, in sintesi i dati che abbiamo documentato in una recente e corposa ricerca che si è fatta carico di monitorate i report del Ministero del lavoro dal 2016 a oggi (G. Comi, M. Menegotto, J. Sala, F. Seghezzi, S. Spattini, M. Tiraboschi, Incentivi pubblici e contrattazione di produttività. Cosa emerge dai report del Ministero del lavoro (2016-2024)?, working paper ADAPT n. 10/2025).

Le parti sociali sono dunque chiamate a chiarire – e chiarirsi – su un punto non banale di questa nuova stagione di relazioni industriali per avviare su basi corrette il confronto e cioè se le misure di incentivazione economica dei contratti di produttività siano una leva per aumentare nel lungo periodo produttività e salari o non siano piuttosto una comoda ma poco lungimirante scorciatoia per abbassare il carico fiscale sul lavoro senza alcuna contropartita reale rispetto due nodi che affliggono da trent’anni la nostra economia e cioè la bassa produttività e i bassi salari.

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

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