La proposta di direttiva sul salario minimo: la posizione delle parti sociali europee

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Bollettino ADAPT 14 dicembre 2020, n. 46

 

La proposta di direttiva europea relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione, presentata lo scorso 28 ottobre dalla Commissione Europea, giunge all’esito di due fasi di consultazione delle parti sociali europee, avvenute a norma dell’art. 154 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

 

L’art. 154 del TFUE, al primo comma, prevede infatti che «la Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello dell’Unione e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti».

 

Durante la prima fase, svoltasi tra gennaio a febbraio 2020, la Commissione ha consultato le parti sociali sulla necessità di un’iniziativa in materia di salari minimi; nella seconda fase, svoltasi tra giugno e settembre 2020, la Commissione ha invece consultato le parti sul contenuto di un’eventuale proposta e su quale strumento giuridico utilizzare per la sua introduzione. Nel corso di tutto il processo di consultazione le parti sociali hanno quindi avuto la possibilità di esprimersi sulla questione, manifestando però posizioni fortemente contrastanti. Nessuna delle organizzazioni datoriali si è espressa a favore dell’adozione di una direttiva in materia, mentre le organizzazioni dei lavoratori hanno appoggiato l’eventuale introduzione di un simile provvedimento.  

 

Nonostante il forte disaccordo su un tema che coinvolge plurimi aspetti legati all’assetto delle relazioni industriali e constatata l’impossibilità di avviare negoziati tra le parti, la Commissione ha deciso comunque di proseguire attraverso l’adozione di uno strumento vincolante qual è, appunto, la proposta di direttiva. La disposizione che sta alla base della bozza di provvedimento, emanato lo scorso ottobre, è l’articolo 153, paragrafo 1, lettera b), del TFUE, parte del titolo X “Politica sociale”. L’articolo consente alla Commissione di intervenire per sostenere e completare l’azione degli Stati membri in diversi settori, tra cui rientra quello relativo alle condizioni di lavoro.

 

Nel ribadire che le disposizioni contenute nella proposta non hanno un’incidenza diretta sul livello delle retribuzioni, la direttiva sembra rispettare pienamente i limiti imposti all’azione dell’Unione dallo stesso articolo 153, paragrafo 5, TFUE che vieta alla Commissione di adottare provvedimenti, tra l’altro, proprio in tema di retribuzione.

 

Infatti, la proposta di direttiva non è volta ad armonizzare il livello dei salari minimi nell’Unione, né ad istituire un meccanismo uniforme per la determinazione dei salari. Il provvedimento non interferisce con la libertà degli Stati membri di fissare i salari minimi legali o di promuovere l’accesso alla tutela garantita dal salario minimo attraverso la contrattazione collettiva, proponendosi come obiettivo quello di rispettare le tradizioni e le specificità di ciascun paese, nonché le diverse competenze nazionali.

 

Come viene più volte ribadito nel testo della relazione introduttiva, l’azione dell’UE è volta a creare un quadro a livello dell’Unione per la determinazione di livelli adeguati di salari minimi e per l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale, laddove esistente.

 

La proposta di direttiva avanzata dalla Commissione si compone di 19 articoli suddivisi in quattro capi.

 

Il capo I “Disposizioni generali” è costituito dai primi quattro articoli.

Gli articoli 1 e 3 sono meramente esemplificativi e definiscono l’oggetto e i concetti chiave attorno a cui ruotano le disposizioni successive.

Prestando particolare attenzione all’art. 2, relativo all’ambito di applicazione del provvedimento, è interessante notare come la disposizione trovi fondamento nell’intenzione della Commissione di contrastare il rischio che un numero crescente di lavoratori atipici ( lavoratori domestici, i lavoratori a chiamata, i lavoratori intermittenti, i lavoratori a voucher, i falsi lavoratori autonomi, i lavoratori tramite piattaforma digitale, i tirocinanti e gli apprendisti) resti escluso dall’ambito di applicazione della direttiva proposta. A tal fine, la disposizione richiama la nozione di contratto di lavoro o di rapporto di lavoro quali definiti dal diritto, dai contratti collettivi o dalle prassi in vigore in ciascuno Stato membro, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.

L’art. 4 mira invece ad aumentare la copertura della contrattazione collettiva. La disposizione impone inoltre agli Stati membri in cui la copertura della contrattazione collettiva non raggiunge almeno il 70% dei lavoratori di prevedere un quadro per la contrattazione collettiva e di istituire un piano d’azione per promuoverla, reso pubblico e notificato alla Commissione europea.

 

Il capo II “Salari minimi legali” è costituito dagli articoli che vanno dal 5 all’8.

Si tratta di disposizioni rivolte agli Stati membri che adottano salari minimi legali e che riguardano principalmente l’adeguatezza dei salari stessi. La Commissione si focalizza sulla necessità di adottare misure necessarie a garantire che la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali siano basati su criteri stabili e chiari.

Di particolare interesse la disposizione di cui all’art.7 che prevede un coinvolgimento efficace e tempestivo delle parti sociali nella determinazione e nell’aggiornamento dei salari minimi legali.

 

Il capo III “Disposizioni orizzontali” reca gli articoli dal 9 al 12.

Tra questi desta particolare attenzione l’art.9 relativo agli appalti pubblici. La disposizione, richiamando a sua volta le direttive 2014/24/UE, 2014/25/UE e 2014/23/UE, prevede che gli Stati membri debbano adottare misure adeguate a garantire che gli operatori economici, nell’esecuzione di appalti pubblici o contratti di concessione, si conformino ai salari stabiliti dai contratti collettivi per il settore e l’area geografica pertinenti e ai salari minimi legali, laddove esistenti.

Questa disposizione si coordina in maniera evidente con l’art. 18, paragrafo 2, della direttiva 2014/24 sugli appalti pubblici e nasce dalla constatazione che, secondo la Commissione, nell’esecuzione di questo tipo di contratti è possibile che le disposizioni relative al salario minimo legale o i salari stabiliti dai contratti collettivi non siano rispettati e che, conseguentemente, la retribuzione dei lavoratori sia inferiore alla tutela garantita dal salario minimo applicabile.

 

Sul punto si era già espressa BusinessEurope nel corso della seconda fase di consultazione, ritenendo di per sé già esaustiva proprio la disposizione di cui all’art.18 della direttiva appalti.

 

L’ETUC ha invece rilevato che la direttiva, pur introducendo una norma di questo genere, non richiederebbe ancora alle imprese private di rispettare la contrattazione collettiva come condizione per beneficiare degli appalti pubblici e di altri finanziamenti.

 

L’articolo 10 prevede invece disposizioni specifiche per l’istituzione di un sistema efficace di monitoraggio e raccolta dei dati. Gli Stati membri sono tenuti a incaricare le rispettive autorità competenti per lo sviluppo di strumenti efficaci e affidabili di raccolta dei dati, al fine di comunicarli annualmente alla Commissione. La disposizione impone agli Stati membri di garantire che le informazioni riguardanti i contratti collettivi e le relative disposizioni in materia di salari siano trasparenti e disponibili pubblicamente.

 

Se l’art.11 riguarda il diritto di ricorso e protezione da trattamento o conseguenze sfavorevoli, l’art. 12 impone agli Stati membri di prevedere sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in caso di violazioni delle disposizioni nazionali che istituiscono la tutela garantita dal salario minimo. Sul punto è recentemente intervenuta la Relazione del governo che ha evidenziato una criticità rispetto alla conformazione del modello sanzionatorio.

 

Il capo IV reca infine le “Disposizioni finali”.

I destinatari della direttiva sono gli Stati membri, viene stabilito il termine massimo entro il quale gli Stati devono recepire la direttiva nel diritto nazionale e comunicare i testi pertinenti alla Commissione (due anni). La Commissione dovrà effettuare una valutazione della direttiva cinque anni dopo il recepimento.

 

La proposta di direttiva, presentata dalla Commissione Europea, tocca sicuramente temi centrali in una dimensione partecipativa e partecipata come quella del dialogo sociale europeo che, da diverso tempo a questa parte, anima la dialettica delle parti sociali a livello settoriale e intersettoriale.

 

Immediate le reazioni delle parti sociali alla proposta di direttiva: BusinessEurope ha ribadito netta contrarietà, ritenendo l’adozione di una Raccomandazione da parte del Consiglio l’unica via percorribile. L’associazione datoriale ha definito la possibile adozione del provvedimento come una “formula per il disastro” ed è di pochi giorni fa il position paper in cui esorta il Parlamento e il Consiglio EU a respingere la proposta. L’’ETUC invece ha definito la possibile introduzione di una direttiva “un passo positivo per ottenere un reale cambiamento” ritenendo però che al provvedimento debbano essere apportati dei miglioramenti.

 

A livello nazionale resta invece da capire in che direzione andrà l’esame dell’atto, attualmente allo studio delle Commissioni Politiche UE di Camera e Senato e, secondo i dati forniti dal sito IPEX, oggetto di analisi anche da parte dei Parlamenti di Danimarca, Finlandia, Germania, Lituania, Repubblica ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia e Ungheria.

 

Silvia Rigano

Scuola di dottorato in apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@Siviarigano

 

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